Elogio della modernità

Associazione l’Architasto, Roma, 16 ottobre, concerto per clavicembalo, alla tastiera il vecchio Gustav Leonhardt, massimo solista al mondo. Un nordeuropeo fisicamente sobrio al limite del funereo. All’applauso immancabile, perché lui è davvero perfetto, il maestro china il capo di un quarto di pollice, e su uno zigomo si intravede un guizzo che potrebbe essere un sorriso dal Polo Nord. Un amico che lo è andato a prendere alla stazione, aveva preparato in macchina un CD di Beethoven. Appena l’ha messo su, il maestro ha fatto una faccia, poi ha chiesto di spegnere quella roba troppo moderna. Quando suona, con le mani coperte da mezzi guanti di lana nera, dalla tastiera promana un torpore sublime.

Ma non per la musica o per come la suona, è solo perché il clavicembalo è uno strumento che parla senza mai cambiare umore. Il piano e il forte verranno dopo; noi ora lo sappiamo, ma loro, all’epoca, no. Il clavicembalo è come una conferenza, il pianoforte è una recita drammatica. Mozart aveva cominciato a scrivere i suoi concerti per cembalo, poi è passato al fortepiano, ma quando finalmente gli hanno consegnato il primo pianoforte, ci si è buttato sopra e non l’ha più mollato, con i risultati (diremmo discreti) che conosciamo.

 

La stessa associazione ci ha regalato il giorno dopo un ottimo concerto per quartetto di flauti dolci. Qui nessun torpore sublime, ma una sublime leggerezza. Anche se, pure i pifferi, definiti dallo stesso presentatore strumenti imperfetti, lasciano a desiderare come intonazione. Non c’è niente da fare: se un utensile diventa obsoleto, vuol dire che è stato sostituito da qualcosa di migliore.

Abbiamo anche sentito suonare (bene) una ghironda medievale. Strumento suggestivo, ma attenti a non lasciarla al sole, sennò le corde di budello si allentano, e stonano. Ma neanche troppo all’ombra, perché l’umidità...Certo, le corde di metallo saranno meno corrette, ma all’aperto, come reggono!

Tuttavia noi siamo in favore di queste operazioni di ripresa di strumenti e modi dell’antico: esecuzioni con il la abbassato al livello del ‘700, corde di budello, arciliuti e tiorbe, recupero di tecniche dimenticate. L’importante è non trasformare la correttezza filologica in una mania. Sarebbe come rifiutarsi di vedere la cappella Sistina con la luce elettrica perché Michelangelo l’ha dipinta con le candele.

Fissarsi sul passato è, secondo noi, pericolosissimo. Il tempo sfuma tutto, cancella i difetti, esalta i pregi. E’ una magia che funziona sempre, anche se conosciamo il trucco.

 

Purtroppo siamo abbastanza in là da ricordare personalmente la tanto decantata frutta e i polli ruspanti di una volta. Quando noi eravamo bambini non c’era una mela senza il suo bravo vermetto dentro, come le pere e le pesche. E il pollo ruspante, ben coperto di mosche nella dispensa di casa? E il vino del contadino? I sapori erano gli stessi di oggi, qualche volta buoni, altre volte meno, ed è sciocco dire che la frutta di adesso, bella e senza vermi, sia peggiore. E’ uguale, solo che il tempo ci ha cambiato il ricordo.

 

Poi c’è la storia del suono del vinile, che parecchi trovano più caldo del CD. Qui ci sarebbe da discutere (attenzione al vecchio trucco che fa sembrare migliori le cose del passato). Perché oltre a ricordare i vermi nella frutta, noi ricordiamo benissimo i vecchi 33 giri, oggi concupiti dai collezionisti, con i loro implacabili tic e toc e i salti di solco che dopo pochi ascolti li trasformavano in supporti inutilizzabili. Non comprendiamo il collezionismo di un oggetto tecnologico che secondo noi perde qualunque valore dal momento in cui comincia a funzionare male. Le copertine degli LP, quelle sì che erano opere d’arte. Se poi davvero il suono analogico sia meglio di quello digitale, bisognerebbe avere a disposizione i nastri originali per fare il confronto. Roba del passato.

 

A proposito di passato, ci siamo trovati domenica 17 ottobre sotto il leggero sole del primo pomeriggio a Villa Borghese testimoni di uno spettacolino messo su in omaggio a San Francesco. A vedere quegli attori vestiti da frati che saltellando sull’erba cantavano le lodi di fratello sole e sorella luna ci siamo chiesti come mai tanto teatro e tanta tradizione popolare sentano il bisogno di rappresentare i seguaci del Poverello d’Assisi come degli infantili, ridanciani dementi, anzi, diciamolo chiaramente, come dei coglioni, perché in un’epoca in cui anche loro, come tutti, erano pieni di pulci e di cimici, mangiavano si e no mezza pagnotta alla settimana, e avevano un’aspettativa di vita di ventisei anni, non si capisce proprio cosa ci fosse da stare allegri e “laudare lo mi’ signore”.

Ci sarà pure stato qualcuno arrabbiato, no? No! Tutti felici a zompettare, a gettare le braccia in aria e a parlare coi lupi. Mah!?

Scrivi commento

Commenti: 0