Nostalgia per il castrato

Antivigilia di capodanno 2011, Chiesa di S. Andrea della Valle a Roma (quella della Tosca), magnifico edificio barocco dotato di un grand’organo poderoso. Festa del Te Deum; un concerto vocale-organistico diretto, molto bene, da Flavio Colusso, con la presenza, fra le altre voci, di eccellenti contraltisti, sopranisti e controtenori.

Immersi nel magico riverbero, dovuto al volume architettonico della chiesa che rimanda e prolunga i suoni, ci è tornata in mente la teoria che attribuisce la scoperta dell’armonia proprio all’uso, nei canti medievali, di intonare una seconda nota, e poi una terza, mentre la prima ancora echeggia sotto le volte. Di sicuro un monaco si sarà accorto, durante qualche vespro, che in questo modo nasceva un accordo, e da qui il passaggio dalla monodia all’armonia. Interessante, no?

Ma quelle voci hanno risvegliato anche un’altra sensazione senza nome, che ogni tanto si affaccia nel nostro cervello, forse bacato. Si può chiamare rimpianto il dispiacere per la perdita di qualcosa che non si conosce direttamente? Forse è meglio la parola nostalgia.

Ecco, la nostalgia per il castrato.

Si chiamavano Farinelli o Pacchierotti, erano stati evirati da piccoli in modo da bloccargli la muta della voce, ma non la crescita del corpo. Così da grandi sviluppavano un’emissione, forse imitabile con il falsetto, ma certamente ineguagliata come timbro e potenza. Insomma, uno strumento fra la voce bianca e quella femminile, ma servito dal potente mantice dei polmoni di un uomo adulto. Cantavano l’opera. Erano amati, ammirati, applauditi dappertutto. Le rockstar del settecento. Nessun solista ha mai raggiunto la fama e la ricchezza di questi personaggi, che però, per arrivarci, avevano dovuto pagare un prezzo, diciamo così, un po’ salato. E non smettevano di pagarlo, facendo talvolta la triste fine dei fenomeni da baraccone.

Pensiamo a quelle migliaia di ragazzini che lo stesso prezzo lo avevano pagato ma senza avere in cambio il successo (X Factor, tre secoli fa...). E’ che all’epoca, per molte famiglie povere con un figlio minimamente dotato per la musica, questa era una delle poche speranze di sistemarsi. Sarebbe come immaginare oggi il tassista, padre di Bruce Springsteen, o i genitori contadini di Al Bano che un bel giorno, mentre il ragazzo è a scuola, si siedono al tavolino, fanno quattro conti e decidono: “Beh, domani lo facciamo castrare, magari diventa famoso...”

Col tempo, e giustamente, prima le nazioni, poi la chiesa hanno abolito questa pratica, incivile anche perché le sue vittime non sapevano niente; c’era qualcun altro che decideva per loro. Però, da appassionati, ci rimane lo scontento di non aver mai potuto ascoltare direttamente quei fenomeni. Pazienza.

E’ una di quelle cose che, se allora ci fosse stata la nostra tecnologia, oggi sarebbero alla portata di tutti. Ascoltare Mozart che suona...

Ma forse è meglio così. Aver perso alcuni aspetti del passato non è poi tanto male. Stare seduti in un salotto con gente che si faceva il bagno forse una volta l’anno, che sudava nei vestiti mai cambiati per tutta la stagione, noi che storciamo il naso su un autobus perché qualcuno non usa il deodorante. Nel settecento il passeggero avrebbe trovato l’atmosfera altissima, levissima, purissima.

Detto questo, vi venisse la malsana idea di andare a sentire l’unica registrazione esistente (inizio ‘900) di un castrato, cercate su Wikipedia Alessandro  Moreschi, l’ultimo sopravvissuto della categoria. Ammesso che sia autentica, è orripilante. Sembra un’ostessa di mezza età, ubriaca e anche un po’ stonata. Forse è colpa dell’arcaicità dell’incisione, comunque consigliamo vivamente di soprassedere se volete tenervi l’illusione.

 

 

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