Un dolore profondo

Dopo secoli di abbandono è stato finalmente aperto al pubblico il santuario di Ercole Vincitore a Tivoli. Naturalmente ci siamo precipitati. Era ancora agosto. Sole a picco, pietre e rovi; così a noi piace visitare i ruderi. E qui il nostro cuore ha ricominciato a sanguinare come ogni volta che ci perdiamo in mezzo ai vecchi marmi. Per il dolore, il dolore che ci strizza lo stomaco quando vediamo lo scempio che il tempo e gli uomini hanno fatto dell’arte romana. In fondo solo pochi secoli dalla fine dell’impero sono stati sufficienti per distruggere, coprire, dimenticare quella immensa massa di opere e di materiali accumulati nei mille anni di vita di Roma.

Certo, il fascino del frammento è indiscutibile. Basta un troncone di colonna per immaginare (e l’immaginazione non ha limiti) una reggia sontuosa. Mentre una costruzione integra e imponente come l’Altare della Patria a Piazza Venezia, che è la perfetta imitazione di un edificio imperiale dell’antica Roma, ci lascia indifferenti, per non dire un po’ offesi dalla sua boriosa cafonaggine. E’ perché in questo caso l’immaginazione non può lavorare; tutto lo spazio è occupato dalla realtà.

 

Da un testo di Rodolfo Lanciani, insigne archeologo di fine ottocento: “Me ne stavo seduto all’estremità meridionale del Palatino e guardavo il palazzo di Settimio Severo, una costruzione lunga 150 metri, Larga 118 e alta 50. Completamente scomparso. E il Circo Massimo? Centocinquantamila spettatori. Immaginiamo tutta questa gente seduta sui gradini. Calcolando per ogni persona uno spazio medio di 50 centimetri, otteniamo un totale di 75 chilometri di marmo, di cui non ci è pervenuto nemmeno un frammento.”

E ancora: “Ogni volta che gli amministratori dell’Ospedale di S. Giovanni (proprietari per concessione del papa dell’acquedotto Claudio) si trovavano a corto di denaro, mettevano all’asta un certo numero di archi, che venivano poi demoliti dall’acquirente”

Siamo alla fine del Cinquecento. Eccoli i veri distruttori di Roma, i papi, i nobili, gli architetti al loro servizio, e naturalmente gli intrallazzatori. Altro che barbari o terremoti.

 

Quasi dappertutto questo massacro è finito con il settecento. A Tivoli no. La cittadina è stata la prima in Italia ad avere un’illuminazione elettrica, inaugurata dalla Società per le Forze Idrauliche il 26 agosto 1886. Ma a che prezzo. Come Roma, era una città ricca di ville, templi, santuari. Tutto sacrificato alla nuova divinità, l’industria.

Negli spazi dei templi, delle ville, dei santuari, non ancora ridotti a ruderi, con il pretesto del fiume Aniene, usato come fonte di energia, si installarono fonderie, cartiere e, appunto, centrali idroelettriche. Per arrivare addirittura al 1925, il millenovecentoventicinque! quando, per alloggiare due vasche di cemento, quello che rimaneva del tempio di Ercole è stato completamente distrutto.

Sul posto si vedono ancora le tracce di una calcara. Il solo pensiero che in quel forno siano state bruciate statue, cornicioni e colonne, opere d’arte insomma, solo per farci la calce con cui costruire qualcosa forse di utile, non necessariamente di bello, fa ancora male. Certo, da un punto di vista storico il processo di riutilizzazione è interessante, ma dal punto di vista dell’arte è orribilmente distruttivo. A ogni passaggio, un bel pezzo dell’originale si perde. L’archeologia diventa anche industriale, è vero, ma non ci pare un risarcimento sufficiente.

Comunque i poveri operai che facevano andare quelle fiamme erano dei criminali innocenti, proprio per la loro ignoranza.  Ma basta, per inorridire, scorrere le sgrammaticate cronache dell’epoca buia, dopo la fine dell’impero, in cui i primi fanatici cristiani si vantano di aver incendiato interi templi pagani, o distrutto a mazzate, per la maggior gloria di Dio, ritratti, simboli, ed effigi di dei e di uomini, colpevoli solo di essere semplicemente belli, nudi e artistici.                

Eppure, che meraviglia quei fantastici marmi che arrivavano a Roma da tutte le province del mondo. E che ancora adesso, riutilizzati, fanno splendere chiese e palazzi. Bisognerebbe tenere a mente che ogni blocco estratto, tagliato, lucidato significava sofferenza e morte per uomini condannati a quel vero inferno che erano le cave e le miniere. Il fatto è che il ricordo degli uomini passa, il marmo dura.

Roma divoratrice, grande ventre che tutto inghiottiva. Solo per nutrire i forni delle terme si sono distrutti i boschi che coprivano il Lazio, poi le zone vicine, poi tutta la penisola. E gli animali per gli spettacoli? Intere regioni completamente scarnificate. E tutte le vite spente in modo barbaro (proprio a Roma!) ma anche spettacolare, nel circo, solo per far divertire la plebe lazzarona.

 

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