Sintesi Sanremo

Nei documentari sugli animali si vedono degli sconsiderati che vanno in giro a caccia di serpenti, per raccoglierne il veleno, sintetizzarlo e usarlo per la cura delle più svariate malattie, dall’artrite al mal di cuore. Qui facciamo lo stesso: le cinque serate avvelenate del festival le abbiamo distillate e sintetizzate. Eccole.                            
                    

                 

SANREMO UNO

Per cominciare ci toccano venti minuti buoni di Luca e Paolo. Un’esperienza di tipo adolescenziale-parolacciara. Si tratta di una canzone che ci fa rimpiangere il Bagaglino, in cui abbiano contato diversi sticazzi, Luttazzi che rima con cazzi, coglioni, passera, pisello, cacca, il tutto arricchito da occhioni sgranati alla Macario, espressioni deficienti alla De Rege e tentativi di imitazione di Benigni o Celentano, malriusciti perché Benigni e Celentano reggono mezz’ora in scena, loro no.

Finalmente arriva un professionista che con la semplicità e la misura rialza il livello: Morandi, che attore non è, ma presentatore sì, e di classe. C’è un problema tecnico: lui minimizza benissimo. Stiamo cominciando a volergli bene. E a risalire la china. Ma, ahimè, ecco Papaleo. Per quanto il suo look penoso sia studiato, rimane il fatto che ha una faccia che proprio non va. Se non immaginando che sia un pupo siciliano. Allora sì, ma dovrebbe fare il pupo vero, di legno, e non dire anche lui volgarità. Comunque qualcosa ci fa sperare che non sia così fesso come tenta di apparire, e aspettiamo di vederlo dopo.

Si succedono le ragazze canterine con tacchi troppo alti; non ci sanno scendere le scale e sembrano papere. Papaleo insiste con l’avanspettacolo. Stile ne ha poco, mentre Morandi è come una donna sexy, che lo è soprattutto quando non sa di esserlo, per grazia naturale. Morandi è naturale e sexy (nel senso del presentatore, naturalmente). Eppure anche a lui scappa un “ma che cazzo!”. Evidentemente è l’atmosfera della serata che glielo fa dire, ma in ogni caso con leggerezza.

Finalmente arriva il grande qualunquista, di cui non è necessario fare il nome. Anche a lui esce di bocca un “che cazzo”. Chissà quale magia trascina tutti giù per la china. E naturalmente spara le sue solite baggianate, le pause, le facce. Ma quando canta è fantastico. Non importa cosa canta. C’è.

Il resto è di nuovo avanspettacolo, con l’intervento tristanzuolo di Pupo, faccette e sbuffi da parrocchia, e rigurgiti del qualunquista ecumenico che chiude il suo spazio con: “La morte è l’ultimo gradino prima del grande inizio”. Boh?

In chiusura Papaleo sbraca ancora perché questa prima serata, arrivata alle quattro ore, la chiude con una sua battuta, sul cui livello preferiamo non esprimerci. Eccola: “C’è un campo di girasoli a Cortona d’Arezzo; e c’è un campo di paraculi a Cortina d’Ampezzo”. Vi pare possibile?

                

          

 SANREMO DUE

Ci preoccupa avere davanti a noi una puntata noiosa, ingessata, priva di quelle saporite volgarità che ieri hanno condito così bene i nostri interventi. Tutto funziona. I microfoni ci fanno finalmente capire i testi, che ieri ci arrivavano come bisbigli da confessionale. Il primo balletto di Ezralow ci colpisce per la sua bella, compatta e acrobatica costruzione. Il Maestro Sabiu, direttore della Festival Orchestra, è lì, garbato ed elegante. Accidenti! Di cosa ci lamenteremo se tutto va avanti così?

Partono le canzoni. Appare Papaleo in loden ed elmetto da cantiere. E la sua faccia, la stessa in ogni momento, comincia a farcelo sembrare un Buster Keaton de noantri. E’ un po’ antipatico, ma meglio di ieri. Bei tempi comici. Funzionerà?

I labbroni e la mascella della Bertè scatenano fra le amiche che stasera ci tengono compagnia un’accesa discussione sulle responsabilità del chirurgo estetico nella odierna società dello spettacolo. Dovrebbe opporsi, come professionista, ma anche come confessore e guida, alla trasformazione di facce magari segnate ma ancora umane in orride salamandre, oppure limitarsi a eseguire senza discutere le richieste della clientela? Non si trova risposta.

Secondo intervento dei Soliti Idioti, e qui, dài e dài, alla fine almeno un “dài, cazzo!” lo dobbiamo incassare. E’ la loro firma, vi pare che ce lo risparmiavano. Poi si chiude sull’elegante osservazione che se Morandi ha le mani grandi (fatto ormai acquisito all’iconografia popolare) avrà grande anche il coso. Speriamo di non doverne parlare più.

 

 

SANREMO TRE

La terza serata comincia con la velata minaccia di cantare da parte di Papaleo. Bisogna stare attenti. Chi canta davvero è invece Morandi che lo fa ancora benissimo. Sembra un po’ stanco, e nella presentazione si impappina più volte. Ma non importa. Ci ricorda il pianista Rubinstein che, molto avanti con gli anni, suonava malissimo, ma con un tale spirito che gli errori non contavano.

Papaleo, implacabile, contribuisce ad abbassare il livello con un bel “non mi cagano”. E qui, come in altre occasioni, la faccia di Morandi è quella di un cittadino beneducato, talmente sopraffatto dall’incontro con un pulcinella furbastro e forzatamente spiritoso da fare la figura dello stupido. Perché è chiaro che i loro sono due mondi che si scontrano ma non si incontrano. Il pulcinella insiste con l’ormai famoso sketchetto della patta aperta. Forse ci siamo sbagliati a dargli fiducia.

A proposito di musica, ribadiamo la nostra perplessità ogni volta che ascoltiamo Bregovich. Per noi è un furbacchione che ha trovato il modo di gabbarci con la sua scalcinata banda di ottoni obsoleti e stonati, e un paio di sguattere slave che aprono bocca e vocalizzano. Invece a quanto pare tutti lo prendono per un forbito etnomusicista.

Finalmente la minaccia adombrata all’inizio si avvera. Papaleo canta. Con piglio da animatore di villaggio vacanze riesce a coinvolgere tutto il pubblico, fra cui c’è il suo datore di lavoro, la Rai. E quelli, docili, a fare didì e dadà. Siamo imbarazzati a dirvi il titolo della canzone perché sembra un’esagerazione, ma dobbiamo farlo. Eccolo: “La foca”!

Passati i pochi minuti necessari a digerire il disagio, non ci crederete, non ci credevamo neanche noi, ci siamo inaspettatamente e profondamente commossi (commossi a Sanremo!) a sentire quella disperata salamandra della Bertè cantare una meravigliosa canzone d’amore, magici versi di Bruno Lauzi, tema struggente di Maurizio Fabrizio: “Almeno tu nell’universo”. Forse c’entra anche il ricordo di sua sorella Mia. Fatto sta che ci è scappata la lacrimuccia.

Comunque non vogliamo mica volare troppo alti. A rimettere le cose a posto ci pensa sempre lui, Papaleo, che da quattro ore saltella da tutte le parti con quella sua patetica ansia di esserci. Pronuncia, a proposito, la parola afflato, ma poi non resiste, e aggiunge “quando ti puzza l’afflato”.

Inutile sperare di crescere. Qui siamo ancora all’oratorio. E pare proprio che ci resteremo.

 

 

SANREMO QUATTRO

Si apre con un violinista alto, biondo e bello, un vero principe azzurro che suona mentre la piccola fiammiferaia, Simona Atzori, ballerina senza braccia, danza da sola, anche bene, ma certo il suo handicap salta agli occhi e ci fa perfidamente pensare a una furbata un po’ così. Forse siamo troppo maligni, via.

L’intervista con la Ferilli cattura la nostra attenzione per l’impostazione nazionalpopolare del discorso. Parla molto di Italia e di tette, disinvolta. Morandi accenna a Louis Armstrong, a tutti noto come Satchmo, e lei non perde l’occasione, ingenua: “Ma non è una parolaccia bolognese?”

E poi arriva colui che, con la sua semplice presenza, riesce ad allontanare per un po’ la nostra attenzione da Papaleo. E’ un belloccio che all’inizio abbiamo preso per un calciatore. Invece sarebbe un comico, Alessandro Siani. Costui inizia un pericolosissimo monologo che durerà un buon quarto d’ora, tempo micidiale per uno che a mala pena ce la fa, con una battuta indirizzata alla soubrettona dell’est, che ha appena finito di presentarlo, ridendo, crede lei, ma a noi la sua risata sembra il sussulto di un cavallo ferito, “Attenti all’anca quando sale Ivanka”. Siani appartiene a quella categoria di comici che fa la battuta, e poi ride, prima ancora che il pubblico l’abbia capita. Oppure dice una frase magari un po’ forte, per smentirla subito dopo con un “scherzavo”. Micidiale e anticomico con l’aggravante del dialetto. Applausi (di sollievo?) lo salutano quando fa per andarsene. Invece si siede un po’ più in là e ci spara un ulteriore monologhino intenso, sentimentale e patriottico culminante in un trionfale “siamo italiani”. E due per il patetico.

Ivanka, sussultando, ammette che non ha capito niente. Mentiremmo dichiarandoci sorpresi.

La terza sbrodolata è di Papaleo il quale, dopo aver tradotto il titolo “Stormy wheather” in “tempo di merda”, canta il pezzo e conclude dichiarando che il suono che preferisce è la risata di suo figlio. E tre. Mo’ basta col patetismo.

Sono le 00,35 e la serata si conclude per bocca di Papaleo che racconta del pomeriggio e di loro due che si incontrano casualmente in bagno, le loro pipì si incrociano (testuale) e questo crea fra loro un legame ancora più forte. Morandi, dissociatosi in partenza, dichiara che come aneddoto non gli sembra un gran che. Noi siamo d’accordo.

All’urina non ci eravamo ancora arrivati. Se continua così siamo preoccupati per quello che ci aspetta domani sera.

 

 

SANREMO CINQUE

Mancano alcune ore all’inizio dell’ultima serata ma già avvertiamo da echi sotterranei il passo pesante del Grande Qualunquista che si sta avvicinando come neanche Godzilla. La minaccia è annunciata dalla stampa, e ci sentiamo in pericolo.

Ecco che si comincia. Una specie di balletto su ”All you need is love” in cui tutti si baciano, ma baci veri, lingua, annessi e connessi. Con gli amici ci chiediamo se sono comparse scelte fra fidanzati, o temerari che hanno deciso di osare il tutto per tutto. Geppi Cucciari, di battuta veloce, scende le scale con le scarpe in mano e costringe Morandi a terra a infilargliele. Lei è brava e spiritosa, ma chi ne esce meglio è lui, che conferma il suo vero grande pregio: essere semplice. Che è davvero un talento, perché quando lo si ha non c’è bisogno di altro; non deve essere spiritoso, colto, aggressivo. Non ha bisogno neanche di essere bello, perché è comunque elegante, proprio grazie alla semplicità.

Impagabile esempio da una parte di cialtroneria, dall’altra di prontezza, la gag del panino. Papaleo arriva con un panino incartato. E’ il mitico panino alla frittata di casa sua. Ah, la frittata di casa! Confusione macchiettistica per scartarlo, Morandi finalmente ci riesce. Primo piano del panino, che però è al prosciutto. Sorpresa di Morandi: “Ma è al prosciutto!” (attentato dietro le quinte?). Fulmineo riscatto di Papaleo che senza fare una piega: “Si, ma la frittata è dentro”. Bravo, qui viene fuori l’animale da palcoscenico. Rimane imperdonabile l’inefficienza dello scambio. A meno che fosse voluto per migliorare la gag cogliendo di sorpresa i due. Non crediamo. Troppo audace.

E finalmente alle 22,35, arriva Lui.

Televendita di Gesù, chiusura dei giornali cattolici, mania di persecuzione, invettive dal pubblico, tutto come da aspettativa. Ma poi, giù il cappello, amici! Il pezzo cantato con Morandi è un momento di spettacolo a grande livello. Il migliore di tutto il festival. Un vero riscatto. E pensare che aspettavamo questa occasione fin dalla prima serata per dargli addosso e farlo a pezzi. Impossibile. E’ un grande artista e basta. E lo stesso Morandi ne esce visibilmente commosso.

Il seguito della serata, come da copione. Luca e Paolo con la loro preghiera del clown provvedono a rifornirci di quella dose di noia di cui Celentano ci aveva privato. Il balletto anni ’80 con Ivanka in stivali ci conferma che la ragazzona deve fare ancora molta strada. La canzone di Papaleo non dimostra niente. La lista dei destini letta dalla Cucciari ci convince che comicità dovrebbe sempre far rima con brevità. E per concludere, lo spazio, meritato in chiusura da Sabiu, ottimo direttore e arrangiatore della Sanremo Orchestra è riempito da un brano dello stesso Sabiu, “Limitless”, ahimè molto, troppo pericolosamente vicino alla musica di Allevi.

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