Il ricordo a senso unico

Lelio Luttazzi: gentleman, cantante, attore, ballerino, pianista, autore, entertainer di livello americano. Un uomo perbene, fregato, forse solo per la cialtroneria (ma che gran fregatura comunque) di un presunto amico.

Martedì 22 settembre nella Sala Consiliare di Palazzo Valentini a Roma c’è stata una bella riunione, organizzata in modo impeccabile da sua moglie Rossana, per parlare del suo doppio CD curato da Paolo Mosele (bella copertina di Ugo Nespolo), del suo film “L’Illazione”, rimasto nel cassetto per tanto tempo, e del suo (non lo abbiamo ancora letto, ma tutti lo lodano) libro “L’erotismo di Oberdan Baciro”. In realtà principalmente per ricordarlo, adesso che ci ha lasciati ormai da un paio d’anni.

C’erano molti anziani signori in giacca e cravatta: Gianni Letta, Pippo Baudo, Renzo Arbore, Enrico Vaime, Toni Concina, Dario Salvatori. Tutti in cravatta abbiamo detto. Non Dario. Salvatori, che conosciamo e frequentiamo da anni, non ha mai cessato di stupirci per il suo stravagante abbigliamento, e per lo sterminato numero di capi che devono stare in agguato nel suo guardaroba pronti a balzargli addosso quando esce; mai successo di vedergli lo stesso costume due volte.

Naturalmente, molte le amichevoli testimonianze; anzi frammenti di vero e proprio spettacolo. Da aspettarseli, data la presenza di professionisti come Baudo e Arbore. Che hanno invaso lo spazio, in teoria di esclusiva pertinenza del commemorato, e monopolizzato il microfono scavalcandosi con gustosi aneddoti e varie amenità. Se sei un carattere da palcoscenico, quasi sempre ti porti nello zaino un ego come dire, un po’ fuori misura, e ogni occasione è buona per fargli prendere aria. Non guasterebbe in queste circostanze un minimo di distacco, cercare di non volerci essere a tutti i costi; ma evidentemente non ci si riesce. E siamo convinti che i nostri narcisi, di questa ipertrofia neanche se ne accorgono.

Professionale, ma più distaccato, anche l’intervento alla tastiera di quel fior di pianista che è Rita Marcotulli. La quale ha allegramente strapazzato alla sua maniera quello scherzo musicale (certamente molto al di sotto dei veri capolavori di Luttazzi) diventato comunque il più popolare di tutti: “El can de Trieste”. Delle volte, col passare del tempo qualcosa che l’autore considera una scemenza acquista immeritatamente peso e apprezzamento, e poi non te la scrolli più di dosso.

Finale goliardico. Ammucchiati minacciosamente intorno alla povera Marcotulli che cercava di suonare sul serio, Baudo, Arbore, Concina si sono messi a pesticciare sulla tastiera un’indecorosa “Vecchia America”. Ma tanto si fa per ridere…, anzi, non è mancato (per fortuna non ci ricordiamo da parte di chi) neanche il solito: “Lui è lassù che ci vede e si diverte con noi”. Scivolone nel patetico, sempre in agguato quando si parla di un morto.

Nelle due ore della manifestazione ci hanno anche ammannito i soliti brani di Studio Uno, con le Kessler, Mina, eccetera. Certo, Lelio era proprio bravo. In quei filmati, vederli tutti così eleganti in lungo, in smoking, in costume fa piacere. E ci rende ancora più sgradita la sciatteria, diciamo pure la maleducazione di tanti artisti, bravi, come no, che probabilmente trovano più paraculo (o peggio ancora, non ci pensano neanche) presentarsi davanti al pubblico pagante in panni da fatica, mentre invece sarebbe così semplice, facile e opportuno adeguarsi alla tradizione. Non sai cosa indossare quando sali sul palco? Mettiti quella bella divisa che è lo smoking, o almeno una giacca con cravatta, o almeno una camicia scura, e non quelle squallide magliette e jeans sbracati, che fra l’altro non donano un gran che ai fisici un po’ andati di molti dei nostri artisti in età.

 

Questo l’evento. Segue riflessione. Che naturalmente vogliamo rendere generale ed estenderla a tanti altri che se ne vanno e di cui noi, in attesa del nostro turno, facciamo la commemorazione.

Perché il ricordo è sempre a senso unico? Sempre agiografico, spettacolare, laudativo, trionfale; e di un amico che se n’è andato non si racconta mai l’aspetto intimo, familiare, magari poco pittoresco. Ce lo fanno vedere sempre a zompettare sulle tavole di un palcoscenico, e mai in pantofole a casa sua. Quante volte, seduti accanto a un vecchio compagno di viaggio, lo abbiamo sentito parlare di insonnia, di prostata, di memoria perduta, di brutte figure in scena e nella vita. Quanto preferiamo ricordare di qualcuno, magari famosissimo per il pubblico, ma per noi solo fratello d’arte, i momenti senza la maschera, quelli di vera debolezza (che non significa rinuncia alla dignità). E non crediamo affatto che esporre anche questi aspetti faccia perdere punti nel ricordo. Anzi.

Artisti, sì. Ma anche e soprattutto persone.

 

 

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