Spesso vi abbiamo raccontato occasioni un po’ scamuffe, altre volte vere e proprie porcherie. Oggi si vola alto. Tanto per cominciare fra gli ospiti c’è il Presidente della Repubblica, e poi, a scalare, attori, registi, giornalisti importantissimi.
Teatro Quirino, 13 novembre ore 17. Presentazione di “Io lo chiamo cinematografo”, libro a quattro mani, due di Peppuccio, e le altre due di Francesco Rosi, la storia della sua vita e del suo mestiere. Peppuccio di qua, Peppuccio di là; solo dopo un bel po’ abbiamo capito (noi sprovveduti) che si trattava di Tornatore Giuseppe, detto Peppuccio (sarà contento, alla sua età, di essere chiamato ancora così?).
Un tripudio di matusalemmi: Rosi, novanta dopodomani; Eugenio Scalfari, ottantotto; il Presidente Napolitano, ottantasette; Furio Colombo, ottantadue; Franca Valeri, novantadue; Lina Wertmuller, ottantaquattro. Peppuccio e gli altri cinquantenni del gruppo: un asilo nido.
Attorno al grande vecchio Francesco Rosi, abbiamo visto affaccendarsi l’amico Fabrizio Corallo, che ne è (così ci è sembrato) l’angelo custode. Pochi anni fa lo avevamo incontrato nello stesso ruolo a tutela di un altro grande vecchio, Dino Risi. Fabrizio, al prossimo giro ci aspettiamo il tris: Rosi, Risi e Bisi!
La partecipazione del Presidente ha subito instaurato un’aura di grande classe. Guardie del corpo numerose, elegantissime e invisibili. Tutti in piedi al suo ingresso, lo stesso all’uscita, e ci è sembrato un gesto di spontaneo rispetto e non un obbligo cerimoniale. Comunque, per non farci dimenticare che siamo pur sempre a Roma, la faccenda è cominciata con trenta minuti secchi di ritardo.
Eccone una succintissima cronaca. Sapiente apertura di Ilaria D’Amico, bella brava e garbata. Bel documentario intervista sui due autori del libro, girato su una splendida terrazza romana: casa di Rosi o di Peppuccio? Poi un sobrio Andò, seguito da Irene Bignardi, che, come sappiamo, scrive bene, ma in questo caso ha letto piuttosto male il suo intervento. Fin qui, tutto regolare.
Poi, il tonfo. Incautamente convocata per leggere qualche riga del libro, si alza una graziosa ragazza, l’attrice Galatea Ranzi che comincia, con vocina da Zecchino d’Oro e patetismo da libro Cuore, un’interminabile pappardella, riuscendo a dare al testo robusto e mascolino di Rosi-Tornatore la consistenza di una minestrina.
Avanti e ancora avanti per interminabili pagine finché in una sua pausa, crediamo involontaria, qualcuno del pubblico, stufo, si lancia in un applauso di sconforto, seguito da tutti. Pronto intervento di Ilaria, lei sì, vera professionista, che prende la parola al balzo per superare il guado. Niente! Invece di approfittare del salvagente, l’attrice dà sulla voce alla D’Amico: “No, no, non ho finito. C’è ancora un pezzettino”; e giù altri interminabili minuti di semolino.
Dove si conferma la nota teoria che per fare l’attore non è assolutamente necessario essere intelligenti (intendiamoci, è uguale per i musicisti). E l’altra convinzione, nostra, ma crediamo condivisa da molti, che anche per la presentazione di un libro servirebbe (ma non c’è mai) un regista, che sappia scongiurare sciagure tipo quella appena raccontata, calibrando gli interventi e scegliendo meglio gli interpreti. E sì che in questa occasione i registi non mancavano davvero.
A Dio piacendo, Furio Colombo (birignao e tono da zia a parte) risolleva l’atmosfera con intelligenza ed energia, seguito da una pacata e ironica chiacchierata del vecchio, ma per niente smemorato, e animato da splendido spirito civile, Eugenio Scalfari.
La scaltra Ilaria riesce a passare il microfono al Presidente della Repubblica che lo accetta e ricorda spiritosamente un episodio della sua giovinezza a Napoli con Rosi; poi parla lo stesso Rosi, che è apparso dall’inizio alla fine il più giovane di tutti, e finalmente Tornatore chiude dichiarandosi senza riserve suo umile allievo.
Bene, la giornata non finisce qui. Veloce, caro e scadente kebab di polpo in nero di seppia (che ci aveva sedotti sul menù, senza poi mantenere le promesse nel piatto) in un locale di Piazza di Pietra, l’Osteria dell’Ingegno, tanto per non fare nomi; e poi di corsa all’Accademia di Ungheria a Via Giulia per vedere confermata un’altra nostra teoria. Concerto di contrabbasso e pianoforte: una discreta pianista rumena, Viorica Boerescu e un manovale dell’archetto, l’ungherese Magor Szàsz. Brani di autori dell’ottocento. Tutte trascrizioni, naturalmente, tranne l’ultimo pezzo, di Bottesini. La nostra fiera convinzione è (ci perdonino i nostri tanti amici virtuosi dello strumento) che un contrabbasso non dovrebbe mai tentare di fare il violoncello. Inutile arrampicarsi su per una scivolosa ottava in cerca della stessa intonazione, agilità, sonorità ed espressività. Non ce l’ha e basta. Rimane uno strumento rispettabilissimo e indispensabile; perché metterlo in difficoltà?
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