Metti, un pomeriggio di pioggia

Metti, un pomeriggio di pioggia. Dicembre. E’ già buio e sono ore che cammini. Sei stanco, scocciato, e anche un po’ confuso dalla gente, dai negozi, dalla città, e ti vuoi riposare. Magari anche riflettere in un posto tranquillo e, perché no, perfino dire una preghiera.

Che fai? Entri in una chiesa. A Roma ce ne sono tante, e belle. Diciamo che spingi la porta di San Lorenzo in Damaso, a Piazza della Cancelleria. Per essere tranquilla, la chiesa è tranquilla, e silenziosa, e soprattutto vuota. E che succede? Perché ti prende quello smarrimento infinito? Semplice, perché la chiesa è così desolatamente buia che sembra un’orrida spelonca. C’è da immaginare grappoli di pipistrelli appesi là in alto, dove l’oscurità nasconde ogni cosa.

E allora via di qua. Andiamocene alla Chiesa Nuova: grande, barocca e piena di quadri e statue. Qui la spelonca è più ampia e più sontuosa, ma sempre disperatamente buia. Si sa che ha anche un soffitto splendidamente affrescato, ma saperlo è un conto, vederlo un altro. C’è qualche lampada accesa, ma è stupidamente puntata verso il basso, contro gli occhi dei fedeli, che ne restano smarriti e abbagliati.

La soluzione ci sarebbe, semplice ed economica. Dov’è Dio? In alto. E dove sta l’umile fedele in preghiera, o anche il visitatore solo curioso? In basso. E allora basta illuminare colonne e volte con luci nascoste (e nelle chiese i cornicioni per coprirle non mancano davvero) e lasciare nella penombra banchi e confessionali.

Nel centro storico, in un raggio di pochi passi, ci sono tre chiese che questa problema l’hanno risolto: Santa Maria di Monserrato, San Luigi dei Francesi, e Santa Maria dell’Anima. Nessuna italiana, chissà come mai. La prima è spagnola, la seconda ovviamente francese, e l’ultima tedesca. Bene, entriamo in una di queste; preferibilmente in Santa Maria dell’Anima, e sbalordiamoci. Gli ori abbagliano, i marmi splendono, gli affreschi raccontano, e non si vede una lampada. Una diffusa luce calda riempie tutto lo spazio, e dà un senso di familiare conforto.

Non è che la bellezza impedisca la preghiera, anzi. Una bella casa suggerisce che il padrone ci ospiterà con stile. Basta un po’ di cera per lucidare e qualche lampadina. Niente di più.

E naturalmente un briciolo di buon gusto.

 

Restiamo in chiesa, ma parliamo di musica. Domenica 8 a Sant’Apollinare, per il RomaFestivalBarocco, l’Accademia Bizantina dedica un’intera serata a Corelli. Ora, bisogna sapere che per Corelli il violino è tutto; il resto molto meno. E allora gli altri possono essere bravi (arciliuto, violone, cembalo, organo), come stasera, ma il violino dev’essere superlativo. Stefano Montanari è acrobatico ma anche morbido, autorevole e commovente, insomma perfetto. E’ come osservare una piattaforma che avanza sicura sostenuta da solidi portatori, e in cima un leggiadrissimo funambolo fa ogni genere di acrobazie, eleganti e mai gratuite. E bisogna vedere sul programma di sala la foto di questo mago: un muscoloso supermacho che tiene il suo violino per il collo come per impedirgli di scappare (ci hanno detto che è anche uno scatenato Harleysta). Tante volte, dove va a nascondersi il talento! E credeteci, mentre lui suonava c’erano dei ragazzi in sala con le lacrime agli occhi.

 

Indietro di due giorni, venerdì 6, con tutti gli amici a commemorare Paolo Renosto alla Filarmonica. Sono passati più di vent’anni dalla sua morte. Un musicista bivalente: funzionale realizzatore di brani di commento per le immagini, TV e cinema; sperimentatore audace dell’avanguardia in Nuova Consonanza. Si è parlato della sua musica, si sono ascoltate alcune sue composizioni, e si è brindato alla sua memoria con dell’ottimo prosecco, che, se non ricordiamo male, avrebbe gradito lui stesso, buona forchetta e ancor migliore bicchiere.

 

Venerdì 13 al Museo Boncompagni Ludovisi, una mostra intitolata “Vittorio Zecchin, Duilio Cambellotti e Le Mille e una Notte”, una faccenda assolutamente trascurabile: qualche pannello dipinto (di Zecchin - brutti), qualche illustrazione a tempera, appunto per le Mille e una notte (di Cambellotti - mediocri) e qualche vetro soffiato (ancora di Zecchin - belli), ma soprattutto un polveroso raduno di vecchie signore.

Perché citare l’evento, allora? Per non dimenticare il nome esecrabile dei principi Boncompagni Ludovisi, proprietari fin dal ‘500 di una magnifica villa nello spazio fra Porta Pia, Porta Pinciana e Piazza Barberini. Buon per loro che ci hanno fatto una montagna di soldi, e male per Roma che ci ha rimesso un insostituibile giardino; subito dopo il 1870, aiuole, viali e fontane sono stati prontamente trasformati in terreno edificabile, e così è nato un quartiere senza più neanche un filo d’erba. La stessa identica fine che ha fatto tutta la cintura di ville e parchi, di proprietà di altrettanto esecrandi conti, duchi, cardinali e papi, che, sempre entro le mura, girava intorno al piccolo nucleo abitato della città dell’ottocento. Roma doveva essere un sogno, magari un po’ tarlato, ma sempre un sogno. Andato.

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