La Nera Signora

Allegro inventario cattolico apostolico romano.

Roma. Chiesa di S. Maria dell’Anima. Scolpiti nel marmo, intagliati nel legno, modellati in stucco o dipinti su tela: 2 teschi con tibie, 7 teschi semplici, 2 teschi alati dall’aria mansueta, 1 scheletro intero, 1 clessidra (tempus fugit); e per consolazione 21 putti belli grassocci.

S. Agostino: 3 teschi semplici, 2 teschi alati con riccioli ribelli, corona d’alloro e aria strafottente (vedi foto), 17 putti di taglia media.

S. Luigi dei Francesi: un teschio, due putti: una miseria. Meno male che hanno i tre Caravaggi.

S. Maria in Vallicella: né teschi né scheletri; in compenso una miriade di putti sparsi su soffitto, pareti, organi (nel senso musicale). Con il barocco che avanza, la morte indietreggia.

S. Agnese in Agone: putti 56: solo la testolina, alata e no; testolina più corpo, con o senza ali, in alto e bassorilievo. Nessun teschio scolpito, in compenso ce n’è uno vero in una teca di vetro: quello, appunto, di Sant’Agnese.

S. Salvatore in Lauro: poca roba, solo 6 putti. Però ci sono molti Padri Pii in giro per la chiesa a lui votata, insieme a reliquie dello stesso: stola, mantello, mezzi guanti e sangue delle stimmate.

S. Giovanni dei Fiorentini: un teschio, 8 putti e, rivestito d’argento, il piede di Maria Maddalena, in una cappellina al cui ingresso un cartello dice: “Il primo piede a essere entrato nel sepolcro di Cristo risorto”.

S. Lorenzo in Damaso, la chiesa più buia di Roma: niente tranne un immenso scheletro alato che si libra fieramente tutto bianco su un fondo di marmo nerissimo. Impressionante.

S. Maria sopra Minerva: anche qui un bello scheletro che abbraccia l’ovale con il ritratto del caro estinto. Più quattro teschi semplici, tre teschi con tibie e ben sei tibie incrociate senza teschio. A questo punto una domanda anatomica: tutti diciamo che sono tibie, quelle due ossa incrociate; non è che invece sono femori?


La morte di Claudio Abbado, che molto ci addolora, è un’occasione per condividere un piccolo appunto su come di solito gli amici del defunto rendono pubblico il loro ricordo attraverso interviste, Facebook e articoli di giornale (anche se sappiamo bene che la scelta dei titoli e degli occhielli è spesso dei redattori, piuttosto che degli autori).

Prendiamo dalla pagina 29 di Repubblica del 21 gennaio tre brevi sommari in testa ad altrettanti articoli, tutti dedicati al grande direttore, che rappresentano il campionario standard dell’elogio funebre.

“Una bacchetta magica per tutte le emozioni, così fece diventare popolare anche Mahler”. C’è un cronista che non teme i luoghi comuni (la “bacchetta” “magica” del direttore d’orchestra), non ha mai conosciuto l’illustre defunto e, su commissione della redazione, ne fa un ritratto genericamente elogiativo. Meritatissimo, aggiungiamo noi, soprattutto per essere riuscito, se ci è riuscito davvero, a rendere popolare quel noioso di Mahler.

“Sessant’anni insieme, con lui ho scoperto l’anima della musica”. A parlare, quasi da vedovo, è Daniel Barenboim, direttore e pianista, che da amico e compagno di studi di Abbado ricorda la loro sintonia di pensiero e riconosce quanto la frequentazione del defunto abbia arricchito la sua vita. Gratitudine e commosso omaggio.

“Quella volta in cui lo convinsi a tornare alla Scala”. E questo è il classico caso in cui (qui a scrivere è Lissner, sovrintendente e organizzatore) chi prende la penna lo fa per parlare principalmente di sé, usando la morte dell’illustre come un megafono per far saper al mondo quanto lui stesso è stato importante per l’altro, o semplicemente che lui c’era, o addirittura per lanciare un “ve l’avevo detto, io!”.

 

 

PS. Abbiamo visto “La grande bellezza”, e non diteci che non siamo in argomento, perché il film sguazza nella putrefazione di una città, di una società, soprattutto di un personaggio.

Che dire? E’ un film girato bene, recitato bene, che ci ha irritato per il suo snobismo aggravato da un fellinismo eccessivo. Ossequiare il maestro, certo, ma insomma… C’è la nana, c’è la Saraghina, la bambinaccia, le suore e i preti, la incongrua giraffa fra i ruderi delle terme; c’è perfino (aggiornamento postfelliniano?) Venditti con il suo abituale incarnato color mogano.

Le inquadrature turistiche e gli arredamenti sono così insistiti e curati da rubare spazio alla storia che alla fine si sfilaccia anche per via del montaggio a mosaico. Snobissima pure la musica di Lele Marchitelli, con le sue sonorità vocali da depressione scandinava. Imperdonabile il finale: raccontare per simboli va bene, ma chiudere con la morale della storia spiegata al popolo attraverso il pistolotto del protagonista, davvero non ci sembra un gran che.

Certo, un regista che riesce a far recitare la Ferilli è un mago. Che però ci appare un po’ troppo compiaciuto della sua stessa magia. Un altro tipico film italiano di visioni, impressioni, schizzi, purtroppo anche macchiette; grande bellezza (appunto) formale, ma manca quel robusto pilastro che regge tutto il cinema americano: una buona storia.

Scrivi commento

Commenti: 0