Natale di Roma

Natale di Roma. Lunedì ventuno aprile, equinozio di primavera. Attraverso il foro al centro della maestosa cupola del Pantheon, ogni anno a mezzogiorno preciso di questo fatidico giorno il sole scende a colpire il portone d’ingresso, illuminando come un riflettore da un milione di watt l’imperatore che entra nel suo tempio, e con questo gesto diventa Dio. Noi eravamo lì, e siamo idealmente ascesi su questo raggio di luce al più alto dei cieli, accolti nella gloria della Città Eterna.

Seh! Questo ci sarebbe piaciuto raccontare. Invece…

 

La parte astronomica è precisa; la descrizione dell’evento va modificata come segue: intanto ci siamo dovuti ricordare che c’è l’ora legale, quindi mezzogiorno in realtà è l’una. Arrivati al pronao del Panteon lo troviamo formicolante di turisti chiassosi, e anche questo è logico. Ci mettiamo pazienti in fila per entrare a vedere il famoso raggio.

Davanti al colonnato, oltre ai soliti centurioni con la spada di latta, cinque carrozzelle i cui cinque cavalli la mollano abbondantissima sul selciato che è in discesa verso l’ingresso. I volenterosi vetturini pensano di far bene rovesciandoci sopra grandi secchi d’acqua attinta alla fontana barocca lì davanti, e ci inondano le scarpe. Intanto un’altra carovana fende la folla strombazzando con esagerati claxon da autocorriera montati sulle carrozzelle. I pellegrini ridono: “Molto pitoresko!” In mezzo alla piazza una violoncellista amplificata suona a tutto volume la morte del cigno. Accovacciato alla base di una colonna, in mezzo ai piedi della gente, un fagotto subumano mendica con la solita cantilena: “Fame! Bambini!” mentre uno sciancato ci sguscia fra le gambe a bordo di un carrettino montato su cuscinetti a sfere. Terzo mondo? Quinto!

Finalmente riusciamo a entrare. Certo un silenzioso raccoglimento sarebbe meglio del brusio da stadio che serpeggia. Non siamo senatori SPQR, ma anche noi turisti come gli altri, quindi va bene così.

Il momento si avvicina, il raggio comincia a sfiorare la sua inquadratura finale. Siamo tutti attenti, e bisogna dire che nell’aria vibra una grandissima magia.

Proprio nel momento in cui il rispetto dell’evento vorrebbe il silenzio, dagli altoparlanti rimbomba una voce imperiosa: “La chiesa chiude. Si prega di uscire”.  La chiesa chiude? Succede una sola volta in un anno, e quelli, probabilmente a causa di beghe sindacali o straordinari da pagare, ci cacciano! A stento riusciamo a rimanere fino al momento in cui il sole centra l’ingresso con precisione astrale. Ed è molto più emozionante di quanto ci aspettavamo.

Però, non siamo mica qui per divertirci! Il minuto successivo, tutti fuori come pecore e il portone sbarrato in un baleno. Non male per una città a vocazione turistica. E sembra che questa sia una simpatica abitudine del locale.

Ecco una notiziola dai giornali di qualche mese fa: “Roma - Il Pantheon chiude. Concerto interrotto dalla custode. Quattro minuti di troppo e il concerto al Pantheon viene bruscamente interrotto, perché il monumento chiude tassativamente alle 18. E’ accaduto domenica 28 febbraio a Roma, dove il quintetto russo Bach Consort si apprestava a eseguire l’ultimo movimento di Vivaldi quando è stato interrotto dalla custode della struttura che ha fatto cenno di fermare la musica. «Vergognatevi!» hanno urlato le 500 persone che stavano ascoltando e filmando il concerto, quando la voce dall’altoparlante ha invitato tutti a uscire velocemente per la chiusura”.


La festa non finisce qui. Pare che ci siano rievocazioni storiche per tutto il centro. Ci avviamo di buon passo, ma a Via dei Fori Imperiali vediamo solo ambulanti, caricaturisti, indiani in levitazione (con la tunica gialla con sotto il palo che li tiene seduti a mezz’aria) e quella che ormai è la rievocazione più arcaica di tutte, ancora più di Romolo e Remo: gli Inti Illimani. Non certo loro personalmente, ma i loro sostituti, i quali, implacabili con flauti andini, tamburi, ponchos e lunghe chiome corvine eseguono per la milionesima volta “El condor pasa”.

Finalmente al sole del Circo Massimo li troviamo tutti: latini, etruschi, daci, galli indaffarati a rifare sul prato (arbitrariamente? Forse, ma che ce ne importa) cerimonie di ogni tipo. Sembra una di quelle ammucchiate un po’ imprecise di comparse di Cinecittà. Truci traci con moderni Rayban sul naso, unni avvolti in pelli di lupo molto sintetiche, bionde etère con lo Swatch al polso. Si sentono molti “Da” e “Nyet”. Sta a vedere che vengono davvero dalle province danubiane dell’impero (che adesso sarebbero Romania, Bulgaria, Serbia).

La colonna sonora è la solita, vagamente esotica che all’orecchio del pubblico evoca per definizione l’antichità.

L’organico: arpe, pifferi, tamburi e cori di vergini vestali.

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