Couture/Sculpture


                                                    

Azzedine Alaïa, poverino, sarà alto un metro e quaranta, ma quando prende forbici e filo, diventa un gigante. E’, come tutti sanno (tranne noi), un famosissimo stilista tunisino, naturalmente trasferitosi, appena gli è riuscito, a Parigi, anche perché a Tunisi, con tutto il rispetto, non crediamo che si possa fare molta strada nella moda.

Bene, il 10 luglio siamo invitati alla Galleria Borghese per il mondanissimo cocktail di presentazione della sua collezione “Couture/Sculpture”, Moda/Scultura.

Titolo quanto mai azzeccato perché i suoi abiti, davvero bellissimi, hanno la stessa possibilità di essere indossati da una normale femmina umana che il Cavalier Serpente ha di essere scambiato per il Discobolo di Mirone.

Pura magica perfezione. E’ un po’ il rapporto che aveva con la realtà la più famosa delle sue clienti: Grace Jones, della quale tutto si poteva dire ma non che fosse umana; un felino nero, elegantissimo e irreale.

Eppure fra il pubblico giravano un paio di modelle (robot non umani?) magicamente e perfettamente infilate in questi capi. I quali, e qui bisogna dare ragione al titolo della collezione, si armonizzavano perfettamente con le sculture (vere) dell’altra collezione: quella di Casa Borghese.

L’evento è risultato un cocktail fatto di due ingredienti. Gli elementi non umani: i vestiti, i quadri e le statue romane e barocche accumulati nelle sale con la frenesia di collezionisti bulimici, come evidentemente erano stati i vari membri della famiglia Borghese (e bisogna dire che reggere il confronto con le madonne di Caravaggio o le Proserpine di Bernini non è davvero facile, eppure gli abiti non sfiguravano, anzi). E poi, scendendo invece un po’ più verso terra, tutto il pittoresco sciame gay della moda, rappresentanti della nobiltà romana (coté frivolo), e naturalmente un agguerrito battaglione di cocorite strizzate nei loro modelli Alaïa opportunamente slargati qua e là, e irrimediabilmente invereconde per le bocche canottate, gli occhi fessurati, gli zigomi antigravità.

Pericolosa offerta, su e giù per lo scalone d’ingresso, di fragole e champagne, una mistura esplosiva in un pomeriggio a quaranta gradi.

Ma siamo sopravvissuti e, anzi, abbiamo approfittato della circostanza per ripassarci gli infiniti capolavori radunati sui piedistalli e appesi alle pareti. Il risultato, come dicevamo prima, di secoli di immutata smania di collezionismo, senza dubbio corroborata dal fatto che i nobili Borghese avevano un sacco di terreni in cui scavare e recuperare, un sacco di quattrini per comprare i pezzi migliori, e di sicuro la possibilità di fare le opportune pressioni per costringere graziosamente qualunque poveraccio che non fosse un papa, un principe o un cardinale a mollare un osso appetitoso capitatogli per caso sotto il piccone.


Nientedimeno che alla Sala Casella della Filarmonica Romana l’amico pianista e compositore Antonio Di Pofi, insieme al Quartetto d’archi Pessoa, ci ha invitati sabato 11 a un programma di rivisitazione dei brani più famosi dei Beatles, da lui arrangiati per la succitata inconsueta formazione.

Anche in questa occasione abbiamo verificato per l’ennesima volta un fatto: i loro temi sono talmente belli che funzionano in qualsiasi salsa. In questo caso poi, la salsa era particolarmente delicata e usata con parsimonia, quindi nessuno stupore.

La sala è bassa e stretta. Saggiamente il quartetto è sceso dal palco e si è piazzato insieme al pianoforte contro la parete lunga creando un informale salotto con tutto il pubblico seduto intorno. Una disposizione da musica da camera a corte, diremmo, con il maestro concertatore che garbatamente presentava, anche con qualche inedito aneddoto, ognuno dei notissimi brani.

Pubblico stranamente misto. In gran parte noi dell’epoca, ex figli dei fiori settantenni o giù di lì; e un buon numero di ragazzi e bambini che conoscevano perfettamente il repertorio, tanto è vero che alla fine hanno cantato intonati e quadrati “Hey Jude”.

Bella serata e buona esecuzione. Così potrebbe finire la nostra recensione.

Invece no. Perché noi c’eravamo, all’epoca, e nulla meglio della musica riesce a far rivivere i ricordi. Belli, malinconici ricordi. Ricordi di un’epoca che, ovvio, straovvio, non ritorna.

Che cosa avevamo di diverso cinquant’anni fa? Beh, intanto cinquant’anni di meno. Poi avevamo i Beatles che allora erano una novità, non un capitolo di storia della musica come adesso. Avevamo tanto altro: ancora poche delusioni, il tempo per fare programmi a lungo termine, un futuro sul quale proiettare i nostri ideali; avevamo ottima salute, potevamo andare a dormire alle cinque del mattino dopo un pacchetto di sigarette e tre o quattro whisky e svegliarci come boccioli di rosa. Portavamo vestiti variopinti e frequentavamo ragazze simpatiche.

E i capelli? Lunghi, tanti. Ricrescevano furiosamente insieme a baffi e barbe.

Beh, non lamentiamoci troppo. Siamo ancora qui, anche se con un programma esistenziale assai meno articolato. Certo, la parte divertente è diventata minoritaria, ma siamo ancora qui.

D’altra parte l’alternativa non ci sembra un gran che allettante.

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