Genio e regolatezza

 

 

Venerdì 24, concertone di Giovanni Allevi, pianoforte solo, alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica a Roma.

In attesa dell’evento abbiamo pensato di piluccare qualche acino dal grappolo dei suoi pensieri, da un’intervista recente che il Maestro ha rilasciato ad Alessandro Sgritta.

Prima però vi riferiamo il titolo (non si capisce se deferente o ironico, propendiamo per la prima interpretazione) del paginone con cui Repubblica annuncia il concerto: “Allevi tra Vivaldi e Michael Jackson – Io, re di un popolo di sognatori”.

Nella sua sintesi casereccia, c’è tutto il genio del marketing del nostro maestro: riferimenti culturali quanto mai suggestivi per il pubblico che conosce appena questi nomi (il primo, almeno), quindi non può fare veri confronti; ma, quello che conta di più, l’invito a entrare in un reame di favola fatto di emozioni da Baci Perugina e, appunto, riferimenti alla musica seria talmente vaghi da non spaventare neanche la sciampista più sprovveduta.

Passiamo alle citazioni dall’intervista: siamo nel paese delle fiabe, dove, naturalmente non manca un riferimento alla sua solitudine di profeta della musica, all’inconoscibilità della nostra essenza di uomini, a Papa Francesco, all’albatros che vola alto sulla terra, al mistero dell’ispirazione musicale, e finalmente alla sottile ma ferrea identità che unisce l’artista al suo strumento.

Meravigliosa aria fritta che inevitabilmente piace a chi ci capisce poco.

“mi trovavo a Kanazawa in Giappone e avrei dovuto visitare l’emporio delle sete con le autorità locali, invece non ho potuto farlo, ma è come se lo avessi fatto perché le ho quasi sognate ad occhi aperti e ho immaginato anche delle storie passionali in quelle sete; improvvisamente è arrivata nella mia mente la musica di “Yuzen”, un tormento continuo che poi cerca di sfociare nell’estasi, la ricerca di una luce che poi improvvisamente arriva, lì ho preso il foglio pentagrammato, ho cominciato a scrivere le prime note dal letto della camera d’albergo… e ho capito che il tema centrale di questo lavoro sarebbe stato l’amore…”

“dovremmo fare un passo indietro e umilmente riconoscerci “misteriosi”, esseri umani inconoscibili (come ha detto Papa Francesco) e non categorizzabili e portatori di verità assolute…”

“io penso che noi tutti siamo degli albatros, ci sentiamo impacciati, lo siamo come esseri umani perché nel mondo di quaggiù non siamo abituati, noi siamo destinati a volare altissimo, ho voluto cogliere questo aspetto e lanciare questo messaggio di amore verso se stessi, di accettazione…”

“ancora una volta mi ritrovo a dire delle cose prima di altri…”

“mi sono trovato in una sala piena di pianoforti gran coda, però ognuno ha un’anima differente, un timbro particolare, fino a che lui ha scelto me, è stato quel pianoforte che mi ha chiamato…” 

 

A questo punto, consumato il Negroni di ordinanza, scendiamo nella Cavea. La serata è tiepida, il cielo limpido, ogni tanto si intravvedono le luci di un aereo che passa alto e si sente il suo rombo lontano (che fa molto vacanza romantica). Il pubblico è numeroso: principalmente ragazze frementi e giovani coppie.

Per prima cosa, e per onestà intellettuale, dobbiamo riconoscere che il personaggio è simpatico. Molto. Col passare degli anni ha raffinato, asciugato e spettacolarizzato il suo canovaccio di scena.

Entra dalle quinte con una corsetta adolescenziale (mentre, ci dicono, e già vicino ai cinquanta), maglietta, jeans, scarpe da ginnastica e immensa parrucca di ricci.

Si ferma accanto al pianoforte, afferra con manine esitanti il microfono e dice, anzi, mormora un breve annuncio del brano che eseguirà (che sarà breve anch’esso). Spesso, dobbiamo riconoscerlo, l’annuncio è spiritoso; altrettanto spesso farcito di amore, vi voglio bene, stringervi a me, siete il mio grande abbraccio e simili ovvietà new age, di sicuro effetto per il pubblico, che applaude amorosamente.

E dopo l’esecuzione di ogni brano, che termina sempre con distacco veloce delle mani dalla tastiera e relativo svolazzo artistico in aria, lui reagisce con tremolante timidezza, con lancio di baci e manine protese verso la platea, come se ogni volta fosse sorpreso e nello stesso tempo infinitamente grato degli applausi.

Naturalmente in programma c’è “Ti scrivo” dedicato a un amico sacerdote morto in un incidente d’auto, o il tema ispiratogli dal “Bacio” di Klimt, riferimenti comprensibilissimi dai più. Poi però scherza sul titolo di un suo brano virtuosistico che si intitola, appunto, “Scherzo” e che, dice, non è uno scherzo suonarlo. Spiritoso. 

 

Ci dispiace dover dire che neanche per un momento la sua musica ci ha emozionati, tanto meno interessati. Abbiamo visto dall’inizio alla fine uno studente del terz’anno di pianoforte che suonava passabilmente temini banali. Però…

Però, siccome il successo non nasce dal niente, dobbiamo fermarci un momento, sbarazzarci del nostro fastidioso snobismo e della nostra supponenza di musicisti navigati e riconoscere che Giovanni Allevi è un genio.

Proprio nel suo caso possiamo, anzi dobbiamo parlare di genio e regolatezza: non c’è un pensierino, un colore di voce, uno svolazzo delle dita sulla tastiera che non sia (forse naturalmente, forse calcolatamente, non lo sappiamo e non ci interessa) perfettamente regolato, perfettamente calibrato per colpire al cuore la signorina della quarta fila, perfettamente confezionato per stregare il ragioniere frustrato dall’Iva e convincerlo che in realtà anche lui può essere un albatros che vola altissimo fra le nubi.

Chapeau! O, per dirla alla casereccia: tanto di cappello, Maestro!

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