Controsensi


Controsenso ecclesiastico

 

Santa Maria dell’Anima, la chiesa dei tedeschi a Roma. Vi abbiamo annoiati per anni, lo sappiamo, con le nostre lodi per come è tenuta. Pulita, i marmi lucidi di cera (qui ci si rende conto che un pezzo di marmo, che è solo un sasso, con un po’ di cura diventa un sasso prezioso), anche quelli lontani in cima ai pilastri, illuminazione perfetta, non c’è un faretto che va negli occhi, niente angoli bui, tutto si vede ben chiaro, i quadri mirabili nel loro restauro; e le lapidi…

Ah, le lapidi funebri: ce ne sono a dozzine, per commemorare il tal ricco mercante sassone, o il talaltro nobile prelato prussiano presso la corte pontificia. E tutte ornate dai loro bravi teschi, multicolori di bei marmi pregiati, talvolta arricchiti da espressioni (involontarie, immaginiamo; o forse no) bizzarre o sfrontate. Questi due ghignano sulla tomba di Lucas Holstein, amburghese.

Un italiano che ci entra va a finire che si stupisce che un luogo pubblico, come in fondo è una chiesa, possa essere anche pulito e ben tenuto. Reazione tristemente inevitabile.

Tutto questo per sottolineare  il controsenso fra queste immagini di morte e la viva gioventù del Mädchenchor Hannover (Coro di ragazze di Hannover): cinquanta fanciulle, tutte con la giacchetta rossa, quasi tutte bionde (ovvio, sono tedesche), molte carine, che sono arrivate per fare musica, e l’hanno fatta benissimo e in più con l’aria di divertirsi, in un concerto che saltava dal rinascimento al contemporaneo, accompagnate da un organista, unico maschio, aria timida e probabilmente spaventato di trovarsi in quel gineceo (Abbiamo saputo che il gruppo viaggia in pullman, e l’unico altro maschio è l’autista). Spesso cantando a cappella, per approfittare della magia di come le voci sotto le volte di una chiesa si spandono e si mescolano con i propri echi in un rimbalzo davvero suggestivo.

Immersi in quel magico riverbero ci è tornata in mente la teoria che attribuisce la scoperta dell’armonia proprio all’uso, nei canti medievali, di intonare una seconda nota, e poi una terza, mentre la prima ancora echeggia sotto le volte. Di sicuro un monaco sveglio si sarà accorto, nel bel mezzo di qualche vespro, che in questo modo nasceva un accordo. Da qui il passaggio dalla monodia all’armonia…Sembra fantasioso, ma potrebbe anche essere vero.


Controsenso artistico

 

Mostra a Palazzo Altemps. Questo è il cartello che accoglie i visitatori. Sfidiamo chiunque non abbia lavorato almeno tre anni in uno studio grafico a capire cosa c’è scritto. Un gratuito giochetto.

Come è piuttosto gratuita la mostra: una raccolta di vecchie foto, stampe e quadri a olio che documentano i ritrovamenti delle sculture e lo stato dei ruderi sommersi dalla vegetazione nei secoli scorsi, appesi qua e la fra le statue, loro sì, una più bella dell’altra. Insomma, una di quelle toppe che sembrano cucite per capriccio a coprire uno strappo che non c’è.

Tanto per non tenere troppo in sospeso i nostri lettori, il titolo della mostra è “Rovine”. Adesso si legge, vero?

Secondo noi tutti i musei dovrebbe essere come l’Altemps. Un magnifico palazzo rinascimentale, poche sale con pochi pezzi insostituibili e la certezza per il visitatore di consumare il suo spuntino artistico senza paura dell’indigestione che inevitabilmente ti blocca, per esempio ai Musei Vaticani, dove, arrivato alla terza sala, gremita come le altre di troppa roba, ti piglia un coccolone da bulimia e cominci a non capire più niente.

Sotto lo stesso tetto, e mascherata da seconda mostra, titolo “Evan Gorga, il collezionista”, c’è la cartella clinica di uno stato morboso che colpì a suo tempo il personaggio di cui parleremo: la sindrome dell’accumulatore seriale.

Spesso in TV vediamo filmati di case piene fino al soffitto di immondezza che i loro proprietari, appunto accumulatori seriali, hanno ammucchiato negli anni senza mai riuscire a buttare via niente. Si tratta di qualcosa di molto simile. Ecco la storia.

 

C’era una volta un giovane tenore di belle speranze a cui, in un certo momento della vita, dopo aver cantato con grande successo nel ruolo di Rodolfo alla prima mondiale della Boheme, partì, come si suol dire, la brocca. Mollò la musica e diventò collezionista. Secondo noi una condizione di assoluto squilibrio: prima mentale, e poi, inevitabilmente, finanziario.

Si chiamava Evangelista Gorga e quando morì nel 1957 a più di novant’anni, braccato dai creditori, aveva raccolto centocinquantamila pezzi che teneva stipati in dieci appartamenti affittati in Via Cola di Rienzo. Accumulatore seriale, la diagnosi. Per fortuna non di immondezza, ma di arte. Però la sindrome rimane la stessa. Abbiamo già espresso il nostro stupore di fronte a chiunque collezioni qualunque cosa, perché da quel momento imbocca una strada senza uscita. Inutile illudersi, l’ultimo pezzo che completa la raccolta non è mai l’ultimo davvero; e non si finisce più.

In mostra ci sono milleottocento oggetti che riempiono maniacalmente due grandi sale, solo l’uno per cento del totale raccolto dal povero Gorga: intonaci dipinti, stucchi, marmi, avori, bronzetti, giocattoli, ceramica, lucerne, specchi, armi, vetri, monete; si rimane senza fiato. E in più si perde completamente la capacità, il gusto, di capire l’eventuale bellezza o rarità dei pezzi.

E’ proprio una malattia.

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