Rìcolaaa...


Il giuramento delle Guardie Svizzere.

Rìcolaaa… è il richiamo (spot pubblicitario delle caramelle) che ci è salito alla gola vedendo a un certo punto della cerimonia tre magnifici giovanotti in elmo, corazza e pennacchio presentarsi imbracciando tre spropositati alpenhorn che hanno appoggiato non sui verdi prati dell’alta val Pusteria, ma sui grigi sanpietrini del Cortile di San Damaso in Vaticano e poi ci hanno dato dentro emettendo un bel coro di muggiti di approssimativa intonazione ma di sicura suggestione, anche se vagamente fuori contesto.

6 maggio 2018, giuramento delle Guardie Svizzere. Nel 1527, durante il Sacco di Roma, 147 di loro ci rimisero la vita per difendere il papa dai lanzichenecchi. In loro memoria si tiene questa cerimonia, la quale, pur avendo luogo a Roma, comincia, come da programma, alle cinque in punto e finisce, come da programma, mentre l’orologio del cortile batte le sei. Siamo a Roma, dicevamo, ma loro sono svizzeri: questo spiega la anormale puntualità.

Una gran festa davvero. I luoghi, non c’è bisogno di dirlo, sono bellissimi; le divise (a quanto pare, ma non è certo, disegnate da Michelangelo) sono eleganti, colorate e stano a pennello addosso a quegli stangoni; le mamme e i papà svizzeri dei cadetti, presenti in gran numero, sono composti e si guardano bene dall’applaudire o mandare baci ai loro giuggioloni, come probabilmente avrebbe fatto qualche mamma nostrana; le marce, i dietrofront, gli omaggi alla bandiera durante il giuramento filano in una simmetria e in un ordine perfetti. Insomma, il quadro si presenta inappuntabile.

Noi qualche gustosa incongruenza l’abbiamo rilevata, ma, e davvero vogliamo sottolinearlo, senza neanche vagamente sminuire l’emozione della cerimonia.

La banda è una normalissima banda di ottoni, ma, non c’è niente da fare, un sax tenore in bocca a un maestro in brache e ghette a strisce gialle e viola, corazza scintillante e gorgiera bianca fa un certo effetto anacronistico. Come il programma musicale che, accanto all’inno pontificio di Gounod e ad altri decorosi classici ottocenteschi ci presenta un gospel ben poco vaticano: “Oh happy day”.

Sono sciocchezze, lo sappiamo, ma ci fanno sorridere. Come ci ha fatto sorridere, ma con un brivido, l’apprendere in questa occasione che il rappresentante della segreteria di stato pontificia è Monsignor Paolo Borgia.

 

Un nome che, soprattutto da quelle parti, ha una fama non proprio specchiata.



       Flux
. Si inaugura in questi giorni Flux, il Festival Lituano delle arti, organizzato a Roma, nel primo centenario della Repubblica Lituana, un paese fresco e piccolo: pare che in tutto abbia meno abitanti di Roma.

C’è in programma una serie di mostre, proiezioni, spettacoli teatrali e concerti che durerà una decina di giorni. Non ne abbiamo ancora visto nessuno, ma eravamo alla conferenza stampa di presentazione e ci siamo letti con attenzione la copiosa letteratura che accompagna l’iniziativa.

Come ciliegina in cima a una torta dal gusto ignoto (la lingua lituana è totalmente incomprensibile), ci hanno colpito i cognomi di alcuni degli artisti presenti, evocativi, per un lettore italiano un po’ malizioso, di una squadra di supereroi cattivi. C’è il video maker Deimantas Narkevicius (chi non penserebbe a un rocker del passato, tale Sid Vicious dei Sex Pistols: sex ‘n drugs ‘n rock ‘n roll). E c’è il jazzista Eugenijus Kanevicius (riferimento obbligato alla malavita e ai combattimenti di doberman e rottweiler). E poi il più famoso di tutti, il regista teatrale Eimuntas Nekrosius (per lui basta una parola: Allegria!).

 

Promettiamo osservazioni un po’ meno sceme di queste sui prossimi spettacoli del Festival.


 

"Billions”: Las Vegas all’amatriciana

Sul Grande Raccordo Anulare c’è un luogo che di giorno è un capannone qualsiasi, ma di sera si mette a rutilare e, a quanto abbiamo visto, attrae schiere di massaie assatanate, coppie un po’ ambigue e uomini  soli: tutti inchiodati davanti ai pulsanti a sfidare la sorte e, immaginiamo, a spararsi i pochi euri risparmiati sulla spesa, o i tanti accumulati in modo probabilmente discutibile.

Si tratta, è ovvio, di una sala giochi, il Billions, che, fornita anche di un palcoscenico per concerti, sorge nel nulla della campagna di fianco all’autostrada: uno non ci si ferma per caso, di sicuro. Chi ci va, ci va di proposito per passare un’ora o mezza giornata in un isolamento alienato con un unico contatto: la macchinetta.

Noi eravamo lì per ascoltare un gruppo musicale che festeggiava l’uscita del suo primo vinile, e ci è venuta in mente una serata di parecchi anni fa trascorsa a Las Vegas, in un salone dieci volte più grande, con dieci volte tante macchinette mangiasoldi, ma con gli stessi neon colorati e un palcoscenico, naturalmente ben più sontuoso e soprattutto con sopra Frank Sinatra.

Ma, a parte questo dovuto ridimensionamento delle proporzioni, gli abiti dimessi delle massaie, quelli sgargianti dei mezzi malavitosi, le facce e infine l’abbandono smarrito dei giocatori erano esattamente gli stessi.

Globalizzazione delle dipendenze?

 

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