Una conchiglia

(Replica dall’8 agosto 2016)

 

Esattamente due anni fa. Sentite che lirismo…

 

Un castello medievale è un po’ come la conchiglia di un mollusco marino. Parliamo naturalmente del castello militare, non di quello residenziale del Rinascimento, luogo di arte, delizie e ozio. 

Mura spesse circondano tutto lo spazio, a volte anche con un doppio giro, a difesa formidabile di quello che c’è dentro: praticamente niente (e tutto). Nell’animale si tratta di un flaccido corpo indifeso che pesa pochi grammi in confronto alla pietra del guscio. Nel castello, fra mura, torri, porte e saracinesche rimane sì e no lo spazio per un cortile e una casupola di poche stanze in cui si ammassano il signore e la sua famiglia, gli unici a dormire in un letto; gli altri tutti insieme sulla paglia: soldati e cavalli, servi e porci.

 

Così è il castello dell’Abbazia di Vulci, un guscio di pietra nera con sei torri, da una parte un fossato, e dall’altra la gola del fiume Fiora superata dal magnifico ponte etrusco-romano. 


Ci arriva voce di una nuova sistemazione del museo etrusco dell’Abbazia, e del ripristino del ponte danneggiato da una inondazione. Si parte.

Dopo una galoppata per strade e stradine fiancheggiate ormai non più dalle dorate messi che uno si aspetterebbe di vedere in una campagna che è ancora fra le meno popolate d’Italia, ma da grandi distese di pannelli solari (il contadino, che avrà anche le scarpe grosse, ma ha il cervello fino, ha capito presto da che parte arrivano i soldi), scorgiamo, come in un’inquadratura di Brancaleone, emergere, unico segno umano nella campagna deserta, le torri del castello.

Emozione. E in più, appena dentro il portone è un tuffo nel passato. L’ingresso cavernoso è segnato da nidi di rondine con i pulcini che si affacciano sul bordo in attesa dell’imbeccata; roba che non vedevamo più dalla nostra infanzia. E anche il cortile è tutto un volare e un garrire.

Il museo è come tutti i musei etruschi: vasi e vasetti: frammenti magari rarissimi, che noi non avremo mai la  pazienza, o la competenza, di esaminare uno a uno con l’attenzione che meritano. E allora non ci rimane che andare un po’ a zonzo per le stanze della rocca, stupirci per la ristrettezza dello spazio abitabile di quello che era l’unico edificio per miglia e miglia intorno e finalmente infilarci nella locanda vicina per un robusto piatto di strozzapreti alla maremmana.

 

Poi via sotto il sole, in giro per una distesa ancor più desolata rispetto alla campagna circostante e abitata solo da spettri millenari: la città, prima etrusca poi romana, di Vulci.


L’abitato antico è, anzi era, grande, ma non ne è rimasto davvero molto. Marmi, pietre, qualunque frammento riutilizzabile è stato portato via, magari per costruirci una porcilaia o un recinto per le pecore.

E, come spesso succedeva nei miserabili anni bui dopo la fine della civiltà romana, gli spazi urbani occupati da un tempio, dal foro, da una villa, o comunque segnati da una presenza umana, e grazie a essa impregnati di un vago senso di sicurezza, erano scelti per deporvi, sotto una spanna di terra, i resti di un parente, di un amico, di un semplice viandante.

Sempre meglio dell’ostile campagna infestata da animali feroci e da diavoli maligni.

Con un raro spirito di rispetto per la storia, o forse semplicemente per testimoniare il passato (o magari per una condivisibile ironia sulla pochezza della vita umana), gli archeologi che hanno esplorato l’area hanno deciso di lasciare alcune di queste sepolture là dove le avevano trovate, semplicemente grattando via quel palmo di terra che le ricopriva e proteggendole con una teca trasparente.

Così ci sono apparse.

Un sole torrido, la terra arsa e polverosa, un volo di corvi, pochi stentati fili d’erba e questi scheletri perfettamente disseccati, distesi in un sonno assolutamente naturale e tutt’altro che macabro.

Una bella lezione di eternità relativa e di insignificanza delle cose terrene.

 

 

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