Spicchi autunnali di cultura


Due porte in faccia (ma siamo contentissimi), un parziale recupero (che però non ci porta a niente), un momento di insofferenza (attenzione, qui si rischia grosso!) e finalmente un concerto stupefacente per numeri e per divertimento. Queste sono le due settimane passate.

Cominciamo con le porte in faccia. Venerdì 28 settembre, al Chiostro del Bramante si inaugura la mostra “Dream”. Siccome il chiostro ce lo abbiamo sotto casa, ce la prendiamo comoda e passin passetto arriviamo all’angolo di Via della Pace: bam! una fila di mezzo chilometro a intasare i vicoli dei dintorni. Non si passa. Dopo un tentativo di attesa virtuosa, optiamo per un peccaminoso cappuccino al bar. Bene, vuol dire che la cultura, contrariamente a quello che dicono alcuni nostri ministri, tira.


E tira parecchio anche domenica 30 al MACRO, dove si inaugura l’Asilo, una proposta di museo aperto e gratuito per tutti. Non un tempio serioso da visitare sussurrando, ma uno spazio dove ogni giorno succede qualcosa di comunitario: mostre, concerti, lezioni. Senza dubbio anche questa idea piace perché la fila, come si vede, è anche più lunga, ma tutti sembrano contenti di aspettare per acchiapparne un po’, di cultura. Noi ce ne andiamo prontamente, anche perché sappiamo che torneremo per un parziale recupero.


Eccoci qui qualche giorno dopo, per l’Atelier Riace. Va in scena “Una liturgia patafisica per i matrimoni migranti”, come leggiamo sul foglietto di accompagnamento alla cerimonia, che comincia con una monotona (voluta, ci auguriamo, ma non ne siamo tanto sicuri) accoppiata di canto e organetto indiano, per proseguire con una farsesca cerimonia nuziale, officiata da un barbuto in velo di tulle, fra coppie eterogenee autodichiaratesi, che dopo la benedizione fanno una miniprocessione nuziale nell’immenso salone del MACRO.

L’intenzione che filtra dalle paginette della presentazione e serpeggia nell’azione ci pare sia attirare l’attenzione su Riace, il suo sindaco, i migranti e il razzismo rampante.

 

Lodevole; peccato che la faccenda ricordi molto di più una cerimonia goliardica, di quelle che si facevano una volta ai danni delle matricole. Insomma, certo, anche il tema più serio può essere messo in burletta, però forse non così.


Sull’argomento successivo, massima cautela. Si tratta della magnifica mostra organizzata al teatro Valle in omaggio e in memoria di Paolo Poli. L’allestimento è di gran gusto, lo spazio, con quei velluti e dorature del teatro che ha ancora tutta la sua patina ottocentesca (ma non era cadente, anzi, praticamente caduto?) è quanto di meglio si possa immaginare come ambiente dove esporre i magnifici costumi, le bellissime fotografie, i geniali bozzetti delle scenografie.

E in più, in sala e dai palchetti, numerosi schermi trasmettono in loop i videini, le canzoncine, i monologhini, le poesiole che hanno riempito i sessant’anni della carriera teatrale di Poli. A un certo punto della visita, però, succede qualcosa. Non sappiamo perché (o forse lo sappiamo benissimo: troppa glassa rovina anche il pandispagna migliore) dopo aver ascoltato “Vieni, pesciolino mio diletto, vieni…” o “La vispa Teresa avea fra l’erbetta…” e altri innumerevoli numeri tutti recitati (benissimo) con quel birignao suo così personale, cantati (benissimo) con quella sua vocina da zanzarone smanceroso, accompagnati (benissimo) da gesticolamenti di mani ben bene affettati, ci viene un po’ di nausea.

 

Troppo Poli. E’ normale?



Sabato 6 ottobre, colpo di scena. Nella Sala Accademica del Conservatorio di Santa Cecilia, per la rassegna “Un organo per Roma”, abbiamo l’Orchestra di Flauti del Conservatorio raccolta a singolar (anzi, plural) tenzone con l’organo.

Nel corridoio che affianca la sala trillano come esercizi di riscaldamento la marcetta dei sette nani e quella dei tre porcellini mentre una folla di pifferai magici, in realtà quasi tutti graziose ragazze, aspettano di andare in scena, dove ci serviranno, in un repertorio contemporaneo, sonorità piuttosto inconsuete.

Si tratta di una sessantina fra ottavini, flauti in do, in sol, e perfino un minaccioso (e soprattutto inutile, come sono spesso gli strumenti ai due estremi della famiglia) flauto contrabbasso, dal quale, per provare a farci capire qualcosa, è riuscito a estrarre qualche doloroso muggito il pifferaio capo, Franz Albanese (che dirigeva anche l’orchestra).

 

Sessanta flauti tutti insieme non sono uno scherzo Se però sono suonati così bene diventano uno scherzo ben riuscito.


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