Hypnos


 Alla fine del concerto di canto tradizionale Khayal che ci siamo visti al Teatro Studio Borgna del Parco della Musica martedì 6 per la seconda giornata del Festival Dipavali, due sono i punti dello spettacolo che ci sono rimasti avvitati in testa.

Il primo: il pedale.

Che con il ciclismo non c’entra niente, è una faccenda musicale. E’ la nota base che, soprattutto, ma non solo, nella musica indiana, rimane sempre la stessa durante tutta l’esecuzione, e intorno alla quale gira la melodia, che quindi non ha uno sviluppo narrativo con inizio, variazioni e fine, come in Mozart o Vasco Rossi, ma è un continuo vorticare sullo stesso perno. Ipnotico, intendiamoci, davvero molto, e suggestivo. Ma il rischio, se invece che sulle rive del Gange con uno spinello fra le dita, stai seduto in una comoda poltroncina a teatro, è di essere colpito e affondato da Hypnos. E se il brano dura una mezz’oretta buona, su sottofondo di organetto, tabla, chitarra e flauto, tutti a pedalare intorno alla stessa nota, e in più è cantato con grandi smorfie e gesticolazioni espressive, ma in hindi, per cui non capisci un accidente, è la catastrofe.

Poi c’è il kitsch.

E qui staremo bene attenti a non azzardare neanche vagamente un’analisi del significato di questa parola: molti e molto più bravi di noi lo hanno già fatto. Rimane che in queste feste orientali di musica, danza, religione c’è sempre qualcosa di troppo (per noi occidentali, è chiaro). Stavolta sul palco, oltre ai suonatori c’era addirittura un tempietto (eccolo qua). Tutto troppo colorato, troppo illuminato, troppo affollato, e poi disegni sovraccarichi proiettati sullo schermo, sciarpe, gingilli, collane, braccialetti…

A seguire ci aspettava uno spettacolo di danza Kuchipudi. Confessiamo la nostra viltà: invece di rimanere a documentarci fino in fondo siamo sgattaiolati via e siamo finiti al bar vergognosamente aggrappati a un Negroni.

 

Tipico esempio di rozzezza occidentale, il nostro.


Settimana ’68

Mercoledì 7 novembre 2018. Casa del Cinema. Si celebra il mezzo secolo dal ’68 proiettando “Galileo” della Cavani. Un film noioso, datato, didascalicissimo (tutto spiegato fino all’ultimo concetto: i buoni buonissimi, i cattivi cattivissimi), commentato da una micidiale colonna sonora di Morricone: controfagotti, trombette e pianoforti preparati: un trionfo sessantottino di quella che lui chiama musica assoluta.

Di cui ci è stata fornita un’altra dose massiccia alla radio durante tutte le 24 ore del 10 novembre, novantesimo compleanno dello stesso grande, grandissimo compositore, peraltro con una predilezione per questo tipo di suoni sgraziati, ancorché, specialmente all’epoca, molto sperimentali; per niente condiviso dal pubblico normale. Per intenderci, quello che andava al cinema pagando il biglietto, e poi, allora, comprava anche i dischi



Culturalmente inattivi.

Questo è il panorama da una finestra della Sala del Carroccio in Campidoglio, dove ci trovavamo a mezzogiorno del 9 novembre per la presentazione del progetto di una piattaforma nazionale per la “mobilità dolce” (itinerari, cammini, rotte e ciclovie italiani), un progetto che attraverso una quarantina di eventi vuole promuovere attività basate sull’economia della cultura e della bellezza.  Insomma, si tratta di andare, a piedi o in bici, ma sempre lenti, molto lenti, in giro per i posti più belli d’Italia.

Un’idea eccellente, naturalmente: di bellezze nel nostro paese ce n’è quante ne vogliamo, le intenzioni sono buone e il personale qualificato non manca. E allora dov’è il problema che ci ha fatto drizzare le orecchie?

Eccolo: il 38,8 % degli italiani sono culturalmente inattivi, testuali parole. Parole che fanno paura. Più di un italiano su tre non solo non sa cos’è la cultura ma non è capace, non vuole o magari ha addirittura paura o vergogna di informarsi su come arrivarci.

 

Questa raccapricciante percentuale è emersa nel corso della conferenza stampa, lasciandoci secchi. Ora, magari il dato non sarà proprio preciso, ma anche se fosse un po’ gonfiato ci salirebbe spontanea alle labbra un grido di cui non possiamo purtroppo rivendicare la paternità ma che troviamo assolutamente appropriato alla circostanza: “Capre!”


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