Mai 'na gioia

 

 

Al Museo di Roma, il palazzo megalomaniacalmente costruito in dimensioni esagerate a Piazza Navona da Pio VI Braschi, l’ultimo vero papa nepotista (peraltro ben ripagato da una famiglia di cialtroni che riuscirono in pochi anni a spararsi la fortuna del casato) si inaugura il 7 dicembre una mostra intitolata: “Paolo VI, il papa degli artisti”.

“Mamma mia che impressione!” Spontanea ci esce di bocca la vecchia battuta di Alberto Sordi, che magari non tutti ricordano, ma che riflette a puntino il nostro stato d’animo alla prima occhiata in giro.

Incuranti di questo subitaneo empito, abbiamo comunque esaminato con attenzione sincera e critica tutte le opere, una a una.

E, mamma mia, come siamo rimasti impressionati! (sempre nel senso di Sordi).

Sappiamo bene che una volta Roma era piena di grandi mecenati, protettori delle arti e degli artisti, e questi erano, ancor più di tutti gli altri, i principi della Chiesa: priori, vescovi, cardinali e, in cima alla piramide, i papi.

Bisogna anche dire che all’epoca avevano a disposizione un materiale umano e artistico niente male: Raffaello, Michelangelo, Bernini, Borromini…

E’ chiaro che con quelle premesse la faccenda funzionava benone.

Alcuni secoli dopo, ai tempi di Paolo VI, cioè praticamente ieri, si dev’essere inceppato qualcosa perché quel bel fiume mecenatesco che una volta scorreva copioso oggi appare del tutto inaridito. Sarà stata la fine della committenza ecclesiastica, sarà stata la nascita del mercato privato, (sarà che noi siamo un po’ troppo snob) fatto sta che questo triste declino ci si è manifestato in tutta la sua realtà a Palazzo Braschi.

Nella presentazione stampa della collezione papale si citavano Morandi, Casorati, Sironi, Severini, Fontana e Picasso. Noi, appesi al muro, abbiamo visto, oltre a un paio di discutibili abbozzi di Guttuso e Pirandello, le firme di Hector Nava, Trento Longaretti, Aldo Carpi. Di quest’ultimo vi presentiamo qui la “Preghiera nel cenacolo”.

No comment.

Talvolta il silenzio è peggio di un’invettiva. 

E proprio questo, lo confessiamo, è il nostro messaggio.



Il buio oltre l’arco.

In questo momento in cui la carta stampata annaspa pericolosamente sull’orlo della palude c’è un benemerito editore che continua a pubblicare a rotta di collo e a presentare con grande fantasia le sue produzioni presso conventi, ambasciate, istituti di cultura e soprattutto nel bellissimo spazio-libreria con sala incontri che possiede a Via Giulia.

Gangemi, si chiama l’editore.

Eravamo lì martedì quattro dicembre per il battesimo di “Bomarzo: guida al sacro bosco” di Antonio Rocca, padrini gli eminenti studiosi, prof. Ficacci e prof. Strinati, due signori dalla fluida eloquenza, capaci di trasformare un brodino insipido in una piccante creazione culinaria. Insomma, anche senza esagerare con l’entusiasmo, non c’era proprio da addormentarsi.

Il problema era ed è sempre stato un altro, che si ripresenta da quando noi frequentiamo quell’indirizzo. La messa in scena degli eventi.

Tutti i manuali di spettacolo definiscono il palcoscenico come lo spazio verso cui deve convergere l’attenzione del pubblico, il quale, a sua volta, è bene che si trovi in una condizione tale da non essere distratto e da non distrarre.

Come si arriva a questo risultato? Con una oculata regia dell’interazione fra i relatori (e qui ci siamo), con un arredo confortevole (e anche qui ci siamo) e soprattutto con un’illuminazione appropriata (e qui non ci siamo affatto).

Purtroppo da Gangemi latita sempre quest’ultimo importante elemento. Ed è un peccato perché le conversazioni sono spesso avvincenti, gli argomenti trattati interessanti, l’aria che circola stimolante e colta.

Si osservi la foto allegata: forti neon ardono sulle teste spesso pelate e quindi riflettenti (non fraintendeteci: non parliamo dell’elaborazione del pensiero che avviene all’interno, ma del rimbalzo della luce che si manifesta all’esterno dei crani) del pubblico, e questo può essere comodo per chi vuole prendere appunti; però lo spazio riservato ai relatori, il palcoscenico al di là dell’arco in fondo alla sala, dove si intravvede a stento la silhouette del prof. Strinati, è inghiottito dall’ombra, diventa un limbo immateriale e così rimane durante tutta la cerimonia. E’ un peccato.

In fondo basterebbero due faretti bene orientati. Più un interruttore o un semplice dimmer in sala, che magari ci sono, ma non c’è nessuno che li sappia o voglia adoperare.

 

Confermando la nostra ammirazione per la bontà delle iniziative, ci pare opportuno suggerire alla gestione questa semplice ed economica accortezza. Vedete voi.

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