L'anno del maiale



Giovedì 7 febbraio. Tutti In fila con i nostri accrediti davanti al Museo Borghese al cui ingresso ci riceve questo marmoreo signore in atteggiamento non si sa bene se perplesso o sconsolato. Lo scopriremo.

Dentro si festeggia il capodanno cinese. Del quale siamo sicuri che, da queste parti, non importerebbe un fico secco a nessuno, se non fosse per il fatto che i turisti cinesi sono diventati improvvisamente i migliori clienti delle boutique del lusso di Roma, che sono, per l’appunto, le organizzatrici dell’evento.

Piccola parentesi indotta dalla lettura sul giornale di un trafiletto che annuncia, da parte dell’Emporio Armani, la dedica al maiale della nuova collezione, che si chiama “Chinese New Year”. Al maiale, che è l’animale del nuovo anno nella simbologia astrologica cinese, ci si riferisce come a un esempio di diligenza, compassione e generosità (testuali parole; e pensare che noi occidentali lo consideriamo da sempre solo buono da salsicce; che rozzi che siamo!) ed è “presente nella collezione, declinato in forme stilizzate e colori diversi e reinterpretato attraverso simboli tribali”. Armani dixit. Questo è il risibile linguaggio dei comunicati della moda. Ma risponde di sicuro a esigenze commerciali. Ci chiediamo con quali aspettative di successo Armani presenterà questa sua nuova linea all’altra metà dei suoi clienti ricchi: gli arabi, ai quale l’ animale che piace ai cinesi (e a noi) non risulta essere troppo simpatico. 



Torniamo a noi: dentro il museo c’è questo signor Liu Bolin, cinese; secondo i critici e il mercato un geniale artista contemporaneo; secondo noi un furbacchione che se n’è inventata una bella. Lui va in giro per il mondo, si piazza di fronte a uno sfondo ben riconoscibile: il Colosseo, un giardino, un quadro famoso, si fa dipingere vestiti e faccia con le stesse linee e colori dello sfondo (quindi con gli archi del monumento, la cornice e il soggetto del quadro, le foglie del giardino) fino a che, mimetizzato quasi completamente, diventa praticamente invisibile: un camaleonte.

A questo punto un suo assistente gli scatta la foto finale della performance, e questa è l’opera che poi lui firma e, ne siamo certi, i suoi mercanti vendono a suon di dollari, evocando in noi, e di sicuro in tanti altri, forti dubbi sulla sanità mentale dei collezionisti.

Naturalmente l’artista fornisce una sua spiegazione socio-filosofica: “Sparire non è il fine principale del mio lavoro, è solo un modo per trasmettere il mio senso di ansia per gli esseri umani e per l’ambiente, e la mia silenziosa protesta contro l’oppressione da parte del mio governo.”

 



Così ha fatto anche in questa occasione: si è piazzato nella sala dei Caravaggio, davanti al San Girolamo, e, indossati i vestiti e una mascherina di plastica trasparente, si è fatto dare gli ultimi colpi di pennello e finalmente è apparso, anzi scomparso davanti al quadro.

Indubbiamente una trovata d’effetto.

Noi siamo rimasti un po’ delusi in quanto ci aspettavamo che il molto onolevole maestlo Liu si facesse realmente ricoprire di vernice mani, corpo e faccia, ma poi abbiamo letto che per realizzare tutta la performance ci vogliono almeno dieci ore.

La nostra era pura ingenuità: non c’era abbastanza tempo per l’operazione intera, e ci siamo dovuti accontentare.

Anche perché l’organizzazione doveva trovare qualche minuto, prima della chiusura del museo, per offrirci un piccolo rinfresco a base di pizza e mortadella, quest’ultima di sicuro un modesto omaggio al protagonista della serata (il maiale, non Liu), e di ottimo prosecco.

Buon anno (del maiale, naturalmente) e poi tutti a casa.

Sì, tutti a casa, ma per arrivarci abbiamo dovuto percorrere di buon passo il viale alberato che va dal museo a Porta Pinciana nell’oscurità più profonda e inquietante, visto che i lampioni c’erano sì, ma spenti, e dietro i tronchi dei pini ci è parso di intravvedere qualche ceffo in agguato.

Un’altra manifestazione di efficienza di cui ringraziare l’attuale gestione della città.

 

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