Il Lumacactus

Se anche voi, dopo queste settimane di pioggia noiosissima, nel primo giorno di sole vi foste accorti di avere in terrazza questo meraviglioso lumacactus con i suoi fiori-cornini siamo certi che sareste rimasti tutte le ventiquattr’ore a fotografarlo, come abbiamo fatto noi, nelle diverse luci: alba, mezzogiorno, tramonto.

Trascurando indegnamente l’impegno di proporvi ogni settimana un nuovo uovo avvelenato.

Ma siccome non vogliamo farla troppo grossa, riteniamo di cavarcela ripubblicando il primissimo articolo del Cavalier Serpente, corredato da quella che allora era la foto di presentazione: una tosta immagine di corrispondente di guerra in bianco e nero.

Il nostro, riletto dopo tanto tempo, nello scrivere è un po’ troppo stizzoso, un po’ troppo moralista e anche un po’ troppo formalista ma, tutto sommato, ci pare che abbia ancora ragione.

Sono passati nove anni!

 

 

                             IL CAVALIER SERPENTE

                                                   N°1                                                                                     Perfidie di Stefano Torossi

                                           2 settembre 2010                          

 

      JAZZ, VESTITI E BUONA EDUCAZIONE


       

       Che dire? Non c’è dubbio che Gino Paoli sia l’autore di tre o quattro canzoni fra le più belle della nostra generazione.

Lo abbiamo verificato ancora una volta al suo “Un incontro in Jazz” del 25 agosto 2010 nel Festival “Odio l’Estate” a Roma. E certamente di livello altrettanto alto era l’accompagnamento. Un formidabile quartetto: Danilo Rea piano, Flavio Boltro tromba, Rosario Bonaccorso contrabbasso e Roberto Gatto batteria, il meglio del jazz in Italia.

Bene, sulla qualità della musica niente da obiettare. Applausi.

E’ sul modo in cui questa ottima pietanza ci è stata servita che abbiamo qualcosa da dire.

Il concerto di cui vi parliamo lo usiamo naturalmente solo come esempio. Vogliamo proprio generalizzare a molti, troppi eventi jazz.

Non ci sembra giustificato che la star della serata (come qualunque comprimario) entri in scena con l’espressione di chi non ha nessuna voglia di lavorare, non accenni neanche un minimo saluto verso il pubblico, confabuli con i colleghi musicisti voltando la schiena alla platea, attacchi la sequenza dei brani senza una parola di presentazione, sempre con un atteggiamento di annoiato disgusto. Forse è timidezza, forse è la sua espressione di tutti i giorni, ma dal momento che uno sale sul palco, un minimo di obblighi ci sarebbero, tra cui indossare la faccia di scena.

Certo, ci sono i rockettari violenti che sputano sul pubblico, o gli tirano le chitarre, ma è un comportamento prevedibile, anzi previsto, anzi addirittura pregustato, e soprattutto è viva azione scenica. Quello che invece smoscia le esibizioni di molti jazzisti è proprio questo tono di distacco, di noia (snob?), di chissenefrega. Ma perché? Come mai non hanno l’aria di divertirsi, visto che fanno una cosa che il resto della gente gli invidia? Che ci vuole a prepararsi una battuta, quattro movimenti coordinati? Perché alla gente non basta ascoltare; al concerto si è portata anche gli occhi e vuole usarli.

A proposito: ma come si vestono i jazzisti! Ma ci si può presentare con jeans sformati e consumati, camicie stazzonate, magliette di quel tono indefinibile, ma con suggestioni di sporco, fra il marroncino, il viola scuro e il nero, soprattutto quando si hanno superato i sessant’anni, o gli ottanta chili, e madre natura, generosa con il talento musicale, non lo è stata altrettanto con la presenza?

Non diciamo che i componenti di un gruppo dovrebbero essere tutti in smoking, anche se ci piacerebbe: ricordiamoci (pur se spesso sottolineata da un filo di noia) l’eleganza suprema del Modern Jazz Quartet. Però un minimo di decenza, un pantalone con la piega, una giacca che copra rotoli e panze; forse, estrema audacia, perfino una cravatta. Oppure, naturalmente anche una follia di lustrini, ma con dietro un progetto. Sempre per il rispetto dovuto al pubblico, che, lui sì, può essere malvestito, anche se sarebbe meglio di no, ma comunque ha pagato.

 

Insomma, perché non dedicare un minimo pensiero a quello che ci si mette addosso? Proprio così: che il vestito dica al pubblico che l’artista lo ha scelto dopo averci pensato, e anche parecchio, e non come se fosse sceso di casa a portare fuori la spazzatura.

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