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A Palazzo Altemps si inaugura una mostra di Filippo De Pisis, pittore della prima metà del ‘900, ormai quasi dimenticato. Da sempre curiosi degli artisti minori, e ricordandoci quanto ci
piacevano le sue Venezie e le sue scarne nature morte, decidiamo di andare a ficcare il naso per capire a che punto stanno le cose.
Un custode del museo a cui ci eravamo rivolti per informazioni il giorno prima ci aveva avvertiti: “Servirebbe la prenotazione, ma siccome c’è poca affluenza, non si preoccupi”.
Non ci siamo preoccupati: infatti c’è il deserto, ma la prenotazione serviva lo stesso. Cioè: arriviamo all’ingresso, mascherina indossata, fatta l’abluzione antibatterica delle mani e presa la temperatura (36,4°), il cassiere (gentilissimo, come sono quasi tutti in emergenza virus): “Lei dovrebbe prenotarsi collegandosi con il suo cellulare sul sito del ministero, ma non le basterebbe mezz’ora. Facciamone a meno, ma mi deve due Euro lo stesso, per la prenotazione”. Mano in tasca e fuori la moneta. Eh no! Non si può pagare in contanti. Solo col bancomat. Fatto. Finalmente si entra. Come già detto, deserto, qui e in tutto il museo. Per fortuna siamo in Italia e meglio ancora a Roma, dove se manca l’efficienza funziona la tolleranza. Certo, come promozione delle arti in tempo di pestilenza non ci siamo proprio.
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In mostra ci sono dei begli olii: un bel Ponte di Rialto e bei fiori e verdure, che ci confermano nel nostro buon ricordo.
In coda, una serie di disegni rappresentanti languidi giovanotti, per la maggior parte gondolieri, di cui, come tutti a Venezia in quel periodo sapevano, il maestro andava ghiotto.
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Tutto molto garbato, tutto di buon gusto, però (come eravamo stati costretti ad annotare in occasione di una mostra di Medardo Rosso che visitammo nelle stesse sale l’anno scorso a ottobre) il percorso si conclude, oggi come allora, con l’uscita impreparata e devastante in una sala, che in realtà fa parte del museo di scultura romana, dove, in agguato, ci aspettano due pezzi così potenti da sbriciolare qualsiasi altra opera e trasformare, al confronto, in pittore della domenica un artista altrimenti di buon livello e universalmente stimato.
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Un errore di prospettiva organizzativa? E’ giusto così? E’ prudente? Certo il visitatore dovrebbe riuscire a concludere il discorso cominciato e poi aprirne un altro senza creare confronti, o magari gli si dovrebbe evitare il rischio di incontri così chiaramente pericolosi.
O forse non preoccuparsi di chi guarda e lasciare che l’arte parli per sé, senza bisogno di balie, traduttori, organizzatori?
domenica un artista altrimenti di buon livello e universalmente stimato.
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