N° 482 - Il Bello del Funerale

15 aprile. Piazza del Popolo ci riceve con questo cielo minacciosissimo, che fra poco si scioglierà in un acquazzone da inzuppo. Entriamo nella Chiesa degli Artisti per l’ultimo pubblico evento di un caro amico, il musicista Amedeo Tommasi.

Eccolo lo spettacolo al quale sempre più spesso, per intuibili ragioni anagrafiche, siamo invitati ad assistere, con sempre meno numerosi vicini di banco: il funerale.

Naturalmente la circostanza è triste, non si discute, ma quanti elementi di recupero umano si porta dietro questa cerimonia. Il primo è la stima per la stupefacente grinta con cui spesso il titolare del lutto: vedova/o, figlia/o, compagna/o, mentre noi ci sciogliamo in lacrime, recita il suo ruolo di primattore con piglio da protagonista e spesso a occhio asciutto. Ha avuto il tempo di entrare nella parte; noi no. La rappresentazione assorbe tutta la sua energia: non gliene rimane altra per commuoversi.

Poi la meravigliosa libertà che ci permettiamo nell’esporre, affettuosamente intendiamoci, i difettacci del defunto perché, tanto, ora non si può più offendere; e comunque è inteso che abbiamo in mente quella fantastica espressione popolare “parlandone da vivo” che tutto autorizza.

E finalmente: l’eccezionalità della circostanza (non si muore mica tutti i giorni) è un passaporto per ristabilire i contatti con i vivi, gente che non si vedeva da anni, chissà perché, altri con cui una vecchia ruggine aveva immobilizzato i cardini e non si riusciva a sbloccarli, o conoscenti che semplicemente non capitava di incontrare. Ecco che adesso, sospesi in questo appuntamento coagulante con il lutto, ci si parla, ci si aggiorna sul passato e sul quotidiano e, senza dirselo, ci si congratula reciprocamente e tacitamente per essere ancora qui, oggi, a raccontarla.

 

Insomma, “parlandone da vivo”, tante grazie all’amico morto che stiamo salutando, il quale ci lancia questo salvagente per continuare a galleggiare. Senza, saremmo già tutti affondati.

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