N° 486 - Viva la Modernità

Il Cavalier Serpente sogna, immerso nei suoi ricordi.

Associazione Architasto. Roma, concerto per clavicembalo; alla tastiera il vecchio Gustav Leonhardt, massimo solista al mondo. Un nordeuropeo fisicamente sobrio al limite del funereo. All’applauso, immancabile perché lui è perfetto, il maestro china il capo di un quarto di pollice, e su uno zigomo gli si intravede un guizzo che potrebbe passare per un sorriso dal Polo Nord. Un amico, andato a prenderlo alla stazione, aveva preparato come sottofondo per il tragitto in macchina un CD di Beethoven. Appena l’ha messo su, il maestro gli ha fatto una faccia strana e poi ha chiesto di spegnere quella roba troppo moderna.

Quando suona, con le mani coperte da mezzi guanti di lana nera, dalla tastiera promana un torpore sublime. Ma non per la musica o per come la suona: è solo perché il clavicembalo è uno strumento che parla senza mai cambiare umore. Il piano e il forte verranno dopo; noi ora lo sappiamo, ma loro, all’epoca, no. Il clavicembalo è una pacata conferenza, il pianoforte è una recita appassionata. Mozart aveva cominciato a scrivere i suoi concerti per cembalo, poi è passato al fortepiano (che in realtà è un pianoforte finto), ma quando finalmente gli hanno consegnato il primo pianoforte vero, ci si è buttato sopra e non l’ha più mollato: aveva trovato l’attrezzo giusto.

 

La stessa associazione ci ha regalato il giorno dopo un ottimo concerto per quartetto di flauti dolci. Qui nessun torpore sublime, ma una sublime leggerezza. Certo che pure i pifferi, definiti dallo stesso presentatore strumenti imperfetti, lasciano a desiderare come intonazione. Non c’è niente da fare: se un utensile diventa obsoleto, vuol dire che è stato sostituito da qualcosa di migliore.

 

Da qualche altra parte abbiamo sentito suonare (bene) una ghironda medievale. Anche qui: arnese suggestivo, ma attenti a non lasciarla al sole, sennò le corde di budello si allentano e calano. Ma neanche troppo all’ombra, perché, si sa, l’umidità... Certo, l’acciaio armonico sarà meno                          corretto, ma al meteo regge molto meglio.

 

 

Tuttavia noi non siamo contrari a queste operazioni di ripresa di strumenti e modi dell’antico: le esecuzioni con il la abbassato a 432 Herz, le corde di budello, gli arciliuti, le tiorbe e i cornetti, il recupero di tecniche dimenticate. L’importante è che la precisione filologica non diventi una mania. Sarebbe come rifiutarsi di vedere la cappella Sistina con la luce elettrica perché Michelangelo l’ha dipinta a lume di candela. Fissarsi sul passato è, secondo noi, pericolosissimo. Con una magia che funziona sempre, il tempo sfuma tutto, cancella i difetti, esalta i pregi. E ti frega.

A proposito di passato, ci siamo trovati domenica, sotto il leggero sole del primo pomeriggio a Villa Borghese, testimoni di uno spettacolino messo su in omaggio a San Francesco. A vedere quegli attori vestiti da frati che saltellando sull’erba cantavano le lodi di fratello sole e sorella luna ci siamo chiesti come mai tanto teatro e tanta tradizione popolare sentano il bisogno di rappresentare i seguaci del Poverello d’Assisi come degli infantili, ridanciani dementi.

Perché in un’epoca in cui anche loro, come tutti, erano pieni di pulci e di cimici, mangiavano si e no mezza pagnotta alla settimana, e avevano un’aspettativa di vita di ventitré anni, non si capisce proprio cosa ci fosse da stare allegri e “laudare lo mi’ signore”.

Ci sarà pure stato qualcuno arrabbiato, no? Macché! Tutti felici a zompettare, a gettare le braccia in aria e a parlare coi lupi e con gli uccelli. Mah!?

 

 

Trilla la sveglia e il sogno finisce. E fuori del sogno, certo, qualcosa è cambiato: il maestro Leonhardt ci ha lasciati, le ghironde sono in via di estinzione e temiamo che la fede francescana sia meno saltellante di prima. Quello che non cambia è il Cavaliere, sveglio, vivo (per ora) e sempre pronto a mordere con i suoi denti avvelenati.

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