N° 493 - Le Vie del Comune sono infinite (specialmente l'Appia)

Il complesso archeologico di Capo di Bove si trova in Via Appia Antica 222, un po’ più in là di Cecilia Metella. Il posto è di straordinaria bellezza, circondato da un grande giardino. Terme private in epoca romana, casale dal medio evo fino al 1945, poi moderna villa di lusso; finalmente sede dell’Archivio Cederna e museo dell’Appia Antica. I ruderi del piccolo stabilimento termale, abbandonati nei secoli, coperti di terra e poi scavati la dicono lunga sul cambiamento di alcuni fondamentali costumi dall’epoca classica in poi: prima ci si lavava spesso e con piacere, poi, avanzando nei secoli bui e con il repressivo contributo della chiesa, l’igiene diventò un’abitudine molto sospetta, addirittura peccaminosa. Alla fine su questa sana pratica cadde l’oblio, con trionfo di pulci, cimici, e pestilenze. 

Non lontano da qui c’è l’Appia Antica Caffè, un delizioso locale rallegrato da un ulivo secolare sul davanti e da una dozzina di pini sul retro. Saporiti spuntini, birra gelata e venti secoli di storia sotto gli occhi. Noi ci andiamo spesso a leggere il giornale, bere un boccale e mangiarci una pizzetta con alici e fiori di zucca.

Nn lontano da qui c’è l’Appia Antica Caffè, un delizioso locale rallegrato da un ulivo secolare sul davanti e da una dozzina di pini sul retro. Saporiti spuntini, birra gelata e venti secoli di storia sotto gli occhi. Noi ci andiamo spesso a leggere il giornale, bere un boccale e mangiarci una pizzetta con alici e fiori di zucca.

Da pochi giorni a Capo di Bove si è inaugurata la mostra: “Un atlante di arte nuova – Emilio Villa e l’Appia Antica”. E’ chiaro che, dopo la pizzetta e la birretta ci sta bene la bottarella di cultura, quindi in marcia per l’esposizione.

All’ingresso del giardino, seduta sotto una tendina, una signorina gentilissima (a Roma, la grande inefficienza si accompagna spesso alla grande gentilezza – recentemente, poi, il colpevole di ogni cosa è diventato il Covid, quindi siamo tutti innocenti) ci esorta a sanitarci le mani, ma dichiara di non essere autorizzata a prenderci la temperatura.

Per quello bisogna entrare nel giardino e arrivare alla postazione deputata. Procediamo: trentasei e cinque. Autorizzati al terzo step: la biglietteria. Che naturalmente si trova all’ingresso del museo.

Il tutto fra tubare di tortore, frinire di cicale e un gran benessere, forse effetto birra, comunque meravigliosamente archeobucolico.  La villa è rimasta (giustamente) nel suo stile archeo-cafoncello-nuovo ricco anni 50/60, con inserti forzati di capitelli, cornicioni e frammenti vari, autentici o forse no. Nel giardino i sentieri sono marcati da basoli di sicuro presi dalla pavimentazione originale dell’Appia ma ricollocati a caso e quindi, senza la sequenza dei solchi dei carri che li segnavano non hanno nessuna storia da raccontare.

“Ma lei non ha il biglietto!”

 

“No, certo. E’ per questo che sono qui in biglietteria”.

“Ma noi non siamo autorizzati a emettere il biglietto.  

Deve andare alla tomba di Cecilia Metella. Lì c’è la biglietteria; lo compra, torna qui e noi glielo controlliamo”.

Ci facciamo due calcoli: dal caffè al museo saranno trecento metri (già percorsi); dal museo a Cecilia Metella un chilometro e mezzo fra andata e ritorno, sui basoli romani che non sono il massimo della comodità; e poi comunque bisogna tornare al caffè dov’è parcheggiato lo scooter: altri trecento metri.

Ci assolviamo per la pigrizia (fa pure caldo) e decidiamo di saltare la mostra, tornare alla base e magari farci un’altra birretta sotto l’ulivo secolare.

“Il biglietto lo vendiamo anche noi” ci fa Roberto, l’amico proprietario del Caffè.

“Grazie, troppo tardi”. Ovviamente lui non ci aveva detto niente perché non conosceva le nostre intenzioni, e noi non avevamo pensato di chiedere perché la possibilità di questo tipo di dis-organizzazione bizantina non ci era neanche venuta in mente, avendo noi due un cervello rispettivamente da normale gestore e da normale turista. Solo quello di un burocrate comunale poteva partorirla. Saranno anche regole sacrosante, ma avvertire il visitatore prima, no, eh!?

 

Morale della favola: la birra supplementare ce la siamo bevuta e poi via a casa, ondeggiando un po’ sulle ruote, ma comunque felici; e siamo qui a raccontarla.

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