N° 496 - Cicale (Replica dal passato)

Colonia Julia Felix Lucus Feroniae

Venti secoli fa era una cittadina da niente sulla via Tiberina, oggi è a un passo dalla barriera Roma Nord dell’autostrada del sole, con un piccolo museo e una brezza che soffia costante da ponente. Non più di qualche centinaio di abitanti, ma aveva il foro, le terme, il tempio, nonché cardo e decumano lastricati dei soliti pietroni, questa volta non di selce nera, ma chiari di calcare locale.

Profumo di mentuccia e cicale. Solitudine (in questi posti poco glamour ci accorgiamo di essere quasi sempre beatamente dimenticati dai turisti) e cicale. Mentre gironzoliamo per il prato da cui ogni tanto spunta una colonna, un muro smangiato, una soglia, ci chiediamo come doveva essere viaggiare sui carri del tempo o marciare con sandali scomodissimi su queste pietre.

A questo proposito, tempo fa, dopo una passeggiata sull’Appia Antica, ci è spuntata in testa una domanda che abbiamo girato ad amici architetti e ingegneri: un’antica strada romana è una fascia di massi di pietra adagiati uno accanto all’altro su un letto di sabbia e pietrisco. Questi massi non sono mai regolari, quando sarebbe tanto più razionale tagliarli, non sul posto ma in cava, tutti uguali: quadrati, rettangolari, non importa, ma con lati e angoli coincidenti (vedere le pavimentazioni ottocentesche delle città), così da poterli installare rapidamente, in modo industriale. Le migliaia di miglia di strade costruite dai Romani erano un’industria, quindi…

Invece, uno diverso dall’altro come sono, la loro messa in opera dev’essere stata un complicato lavoro di mosaico artigianale per far combaciare sporgenze capricciose con incavi accoglienti. Insomma un lungo e lento processo da reinventare a ogni colpo di scalpello. Perché?

Nessuna risposta dagli amici professionisti, dimostratisi incompetenti. Poi, a forza di cercare, ecco la spiegazione, forse buona. Quel sistema un po’ particolare non è altro che un metodo antisismico. La tecnica romana nasce in una zona dove la gente ha imparato presto a riconoscere i capricci della terra ballerina.

 

Non vogliamo spacciarci per scopritori della soluzione; l’abbiamo trovata su una monografia di “Archeo”, dove si fa un parallelo con le mura megalitiche costruite con lo stesso sistema a incastro di pietroni, apparentemente casuale, in realtà sapiente. I massi, proprio perché sono incatenati fra loro da sporgenze e incavi, durante un terremoto non scorrono lato liscio contro lato liscio, andando fuori posto. E sulle strade, il passaggio di ruote ferrate poteva certo paragonarsi a una serie continua di mini terremoti. Ci è parso convincente.

Il Porto di Roma.                                                                    

Pochi giorni prima, in piena calura, stavamo in giro per l’antico Porto di Claudio, poi ampliato da Traiano; oggi completamente interrato. Anche qui: solitudine e cicale.

Nell’ottocento tutta la zona apparteneva ai Torlonia, un altro dei tanti accaparramenti intesi a sollevare lo status di questa famiglia straricca e straingorda. Fra gli archeologi ancora oggi si mormora che il principe Torlonia, con la sua smania di scavare in cerca di statue per la collezione di casa, abbia fatto più danni di un’orda di tombaroli.

A guardarsi in giro affiora il senso di una grandezza, forse un po’ esagerata dal tempo, delle cui proporzioni fatichiamo a renderci conto. Se si pensa che era il porto commerciale della più grande città dell’antichità si sbalordisce alla piccolezza degli spazi, evidentemente proporzionati alle dimensioni delle navi da carico, in fondo, a misurarle, poco più lunghe di una gondola.

Le operazioni portuali, allora, dovevano essere una inarrestabile frenesia, che uno può solo immaginare: formiche umane al lavoro con il loro sacco o la loro anfora in spalla, mentre ora, nei nostri timpani, non c’è che il verso delle inoperose cicale.

Suggestivo è il serpentino intrico dell’edera sui muri dei magazzini. Certo, a guardare meglio si scopre che sono state proprio le sue radici, romantiche forse, ma mortali, che hanno sgretolato le volte e fatto precipitare gli archi.

Qualcosa d’altro, fra il frinire delle cicale, ci distrae dal viaggio grandioso e funereo nel passato in cui siamo immersi: il vivifico rombo dei jet in atterraggio e in decollo dal vicino aeroporto; suggestione di altri viaggi, altri porti (aerei e non), altre genti.

 

 

Tornati a casa e ripresa la solita dimensione domestica, ci balza all’orecchio (è il caso di dirlo) una considerazione di carattere più medico che artistico. In queste nostre passeggiate archeologiche noi ci troviamo sempre in mezzo alle cicale. Niente di più naturale in estate e sotto il sole. Però, una volta seduti alla tastiera a scrivere le nostre sciocchezze, il frinire perdura. Ecco la domanda: in centro città, senza un albero nei dintorni, quello che noi continuiamo a sentire non è che, invece del verso dei simpatici insetti, è solo un molesto umanissimo acufene?

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