N° 523 - Mezzo secolo fa

“Jesus Christ Superstar”. Una meravigliosa avventura di mezzo secolo fa che ci è tornata in mente leggendo il Trovaroma di questa settimana, dove si annuncia il ritorno del Musical al Sistina, messo in scena da Massimo Piparo.

Colpiti da subitanea nostalgia, ci siamo chiusi in casa a rivedere il film, a riascoltare le canzoni, e ci è franato addosso il mezzo secolo passato.

Noi c’eravamo, allora, e non è che non ci fossimo accorti di vedere e ascoltare qualcosa di nuovo, di bello. Eccome se ce n’eravamo accorti, anche perché gli attori erano come noi, magri, capelloni, giovani. Il macigno che ci schiaccia è sapere, adesso, che stava accadendo la storia, e noi invece, allora, credevamo che fosse solo la vita.

Non ci si accorge di viverla, la storia, mentre succede. Ci vuole del tempo e qualcuno che poi te lo dica. Solo a quel punto te ne rendi conto. E naturalmente è troppo tardi per dare ai giorni passati la stessa emozione che provi adesso a ripensarli. Tu qui, come uno scemo, perché solo ora ti accorgi del momento fantastico che hai vissuto; e guardi il te stesso di allora, sempre lo stesso scemo, perché lo stavi vivendo, quel momento, e non te ne accorgevi. E allora magari viene fuori il solito: “Ah, se potessi rinascere...” che è la cosa più stupida che si possa dire.

 

 

Invece ci sarebbe da dire qualcosa sulla musica. “Jesus Christ Superstar”, “Evita”, “My Fair Lady” sono sempre lì, collocate dalla critica colta un gradino più giù nella scala della rispettabilità musicale. La vera Opera che conta, finisce più o meno con Puccini. Seguono cosette, tipo “Il telefono” di Menotti o “Il cappello di paglia” di Rota, comunque considerate opere a pieno titolo. Un paio di cosone che invece si chiamano “Porgy and Bess” o “West Side Story”, non siamo mica sicuri in quale categoria le piazzino i professori.

Se ci sediamo un momento ad ascoltare “Don’t cry for me Argentina” e poi passiamo a “Un bel dì vedremo”, vorremmo sapere che differenza c’è. Sono tutte e due bellissime canzoni operistiche, con la stessa identica dignità musicale. Per noi l’opera continua a vivere, ormai con lo pseudonimo di musical, anche dopo essere emigrata in America; ma è sempre opera, cioè uno spettacolo popolare pieno di (belle) canzoni.

Stiamo ancora pagando le conseguenze di quella fasulla separazione, nata chissà quando e perché, fra musica seria e musica leggera che ha permesso ai parrucconi di guardare dall’alto in basso i musicisti pop (che c’erano, c’erano anche allora.)

 

I quali, appena capito come funzionava il mercato, si sono abbondantemente rifatti del disprezzo degli accademici rastrellando, alla faccia loro, soldi, successo e ragazze.

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