N° 525 - Attoniti e increduli

Martedì 12 aprile; ci sono da vedere ai Musei Capitolini un paio di quelle piccole mostre che servono a ricordare al pubblico che la grande vecchia casa che le ospita esiste e respira ancora: “I co-lori dell’antico” e “Cursus honorum”.

E’ una bella giornata e lungo la cordonata che sale al Campidoglio (alla quale siamo arrivati rischiando la pelle) ci accolgono la statua di Cola di Rienzo, la facciata dell’Aracoeli, il palazzo dei Conservatori, sede del museo, un rigoglioso glicine in fiore e un ombù, che è l’albero nazionale argentino, di cui non riusciamo a spiegarci la presenza sul primo colle di Roma. E non è l’unico fatto che non riusciamo a spiegarci, ma ci ritorneremo.

Piazza Venezia, centro della città, imbuto e sfiatatoio di importanti percorsi turistici e commerciali, come tale sede di un infernale carosello di traffico che si avvita in un flusso terrificante, è molto grande e isola come il fossato di un castello i principali monumenti della Roma antica, medievale e moderna.

Il fatto è che per arrivare alla chiesa dell’Aracoeli, per arrivare al Campidoglio, dove c’è il Comune di Roma, per arrivare ai Musei Capitolini, per arrivare all’Altare della Patria, per arrivare al Museo del Risorgimento, per arrivare al Foro Traiano bisogna attraversare questa violenta slavina di traffico, oltretutto male illuminata di sera.

 

E non c’è un solo semaforo che rallenti i veicoli e dia una minima sicurezza ai pedoni. E ci sono pochissimi attraversamenti su strisce che definire scolorite è poco. Il resto è terra di nessuno.

E allora si assiste allo smarrito raggrupparsi di turisti (e anche di cittadini altrettanto impauriti) i quali, usciti dai musei o dalla chiesa o semplicemente a spasso per affari loro, con gli occhi pieni di arte e magari, come è loro diritto, con la testa fra le nuvole, ai piedi della scalinata e della cordonata si serrano come gruppi di antilopi terrorizzate dalla carica del bus-rinoceronte che rischia di travolgerli.

 

L’unica possibilità è un atto di supremo sprezzo del pericolo e buttarsi, sperando che il mondo su ruote abbia un po’ d’attenzione per te.

Certo, sopravvivendo, quello che si trova nei saloni in cima al colle merita il rischio: da quanta roba bella c’è, esposta a volte con quella mancanza di solennità ufficiale che rende la visita un’avventura personale, intima, emozionante.

Ma questo perché deve succedere?

Ci troviamo in un luogo che concentra tutto il capitale di bellezza, di arte, di storia di Roma. Una miniera d’oro, letteralmente, il cui sfruttamento non richiederebbe particolari capacità, o grandi investimenti economici, o lampi di genio, perché è tutto lì a disposizione di tutti, sotto il sole e il famigerato ponentino.

Basterebbe solo renderlo meno pericoloso, ovvero più civile.

E siccome nessuno lo fa, ci nascono in testa due pensieri opposti, e sono quelli che ci rendono attoniti e increduli.

Il primo, di tipo complottistico-mafioso, ci dice che ci dev’essere sotto una qualche manovra che serve a portare in tasca a qualcuno qualcosa, frutto di questa perseverante immobile cialtroneria. Sconsolante e francamente quasi inaccettabile, ma almeno dà spazio a un, anche se perverso, ragionamento.

Il secondo, che annulla il primo, è più tragico perché non offre salvezza. Eccolo condensato in una sconsolante citazione, non ricordiamo da chi, ma terribilmente aderente alla nostra situazione e a chi ne deve essere responsabile.

 

Mai attribuire alla malizia ciò che può essere spiegato con la stupidità.

 

 

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