N° 529 - Indignazione a Santa Cecilia

Giorgio Carnini è oggi il principe degli organisti italiani. Un principe indignato, e a ragione: la prima sala da concerto di Roma all’Auditorium non ha un organo!

Questo significa che per eseguire alcune composizioni del grande repertorio sinfonico, l’Orchestra di Santa Cecilia è costretta a usare una tastiera elettronica.

Contro questa indecenza il principe Carnini si è inventato una manifestazione che si chiama “Un organo per Roma” e che da un certo numero di anni, per sostenere l’idea che l’organo ci deve essere, porta sul palco una serie di concerti all’inizio dei quali il Maestro racconta al pubblico come, nel progetto di Renzo Piano dell’Auditorium di Roma, lo spazio per il grand’organo era previsto, e c’erano anche i soldi per comprarlo; però il sovrintendente dell’epoca per imperscrutabili capricci personali disse di no, e l’organo non si fece. Vergogna e indignazione.

Domenica otto, primo concerto della stagione, dopo due anni di stop da emergenza sanitaria: quattro organisti, un coro e un quintetto di ottoni. Tutto Bach (più un paio di compositori contemporanei con parafrasi e riferimenti al grande padre).

Carnini ha aperto suonando la famosissima toccata e fuga in re minore con una partecipazione vibrata e uno swing trascinante. Sì, perché anche Bach (mica solo il jazz) si può suonare con swing; anzi, così riesce ancora più bello.

Mentre si arrampicava sulla panca dell’organo, gli abbiamo guardato le scarpe, a Carnini: nere, affusolate e a pianta stretta. E ci è tornato in mente quello che ci aveva raccontato un suo collega, l’organista Luigi Celeghin a un concerto a S. Giovanni dei Fiorentini tempo fa: guai a sbagliare le calzature della serata. Con tutto lo sgambettare che fai alla pedaliera, un paio di scarpe a pianta larga significano incastri di piedi e catastrofe assicurata.

Mica solo alle scarpe abbiamo pensato durante il concerto; ci siamo anche accorti che ci mancava una cosa: l’eco della voce dell’organo quando lo si ascolta in chiesa. Che tecnicamente è un problema, soprattutto per la registrazione con gli altri strumenti; e infatti le sale da concerto come quella del Conservatorio lo hanno neutralizzato. Il che rende il suono degli strumenti pulitissimo e asciutto; ma vuoi mettere il fascino delle note che girano sotto le volte e fra gli archi e si moltiplicano e crescono e rimbalzano….

 

E qui è riemersa nel nostro ricordo (non eravamo distratti, era solo che la nostra mente andava in tante direzioni) la suggestiva teoria, non ci ricordiamo di chi, secondo cui la polifonia è nata proprio in una chiesa. Una nota di un frate cantore che si prolunga nel riverbero fra le navate, seguita da un'altra che si sovrappone alla sua coda e ancora da una terza, ed ecco creato l’accordo. Plausibile, non è vero?

Insieme all’organo era di scena l’ottimo coro “Soli Deo Gloria”, diretto da Giuseppe Galli, un ensemble di inappuntabili professionisti tutti rigorosamente in nero compatto, ma con il gradito, inaspettato strappo alla regola rappresentato dalla generosissima offerta delle gambe di una delle signore (soprano o contralto?)

Ascoltare un coro ci commuove sempre, quando poi cantano Bach l’emozione è garantita; stavolta però inquinata per noi da un certo dispetto esprimibile in una domanda che ci trapana il cervello.

Ma perché nelle chiese italiane, con l’infinito repertorio che abbiamo a disposizione, durante la messa l’unico momento di musica è rappresentato dalle patetiche canzoncine di un paio di suorine con le chitarrine, sostenute, quando va bene, da altrettanti chierichetti con i bonghetti?

 

P.S. Tanto per non lasciare niente in sospeso, il sovrintendente di Santa Cecilia all’epoca del misfatto era Luciano Berio, R.I.P.

 

 

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