N° 551 - S. Ivo e i muraglioni

Eccola, sulla sinistra, la meravigliosa chiocciola di S. Ivo alla Sapienza: sublime torta bianco panna di Borromini, e laggiù a destra, sul tetto, un incongruo casotto arancione alla Carrà.

E’ mezzogiorno del 27 novembre; anche oggi tutto si aggiusta come sempre, amalgamato meravigliosamente dall’azzurro di questo incredibile cielo di Roma.

 

Saliamo lo scalone dell’Archivio di Stato; avanti lungo il portico al primo piano, e finalmente, tanto per cambiare, un altro miracolo barocco: la Biblioteca Alessandrina, dove si inaugura la mostra “La sistemazione del Tevere urbano” che documenta la necessità, l’idea e la faticosa realizzazione dei muraglioni sul fiume.

Sono brutti, lo diciamo tutti, ma se ci trovassimo, come in passato, con i pantaloni a mollo nell’acqua due o tre volte ogni inverno, crediamo che il giudizio estetico passerebbe in secondo, se non ultimo piano di fronte alla situazione pratica.

E più di una volta, durante le grandi alluvioni non si trattò solo di salvare i pantaloni, ma anche la pelle, e furono in molti a rimettercela. Nella peggiore di tutte, quella del 1598, 20 metri sopra il livello medio, “una poderosa corrente traversò la Via Flaminia entrando in Roma per la Porta del Popolo. Al sopraggiungere delle acque che correvano difilate per la Via del Corso e quella di Ripetta, l’evento prese la proporzione di un disastro”. Decine di case abbattute, centinaia di persone affogate. Con l’ultima, nel 1870: l’acqua quasi alla stessa altezza, ma meno morti e danni, la giunta di Roma appena liberata, rischiò nuovamente di infradiciarsi i pantaloni e all’unisono decretò la costruzione dei famosi, brutti muraglioni.

Non staremo a raccontare quello che si può vedere su vecchi dagherrotipi e mappe nella mostra: bisogna andarci, anche perché siamo sicuri che la maggior parte dei romani a cui questa iniziativa si rivolge, non hanno la più vaga idea di chi abbia promosso il progetto (Garibaldi), di quando siano cominciati i lavori (dopo il 1870), di quanto siano durati (una quarantina d’anni), di quanto siano costati (uno sproposito), degli incidenti (crollo di una parte dell’opera non finita) e di come siano stati utili nell’ultimo secolo e mezzo per tenerci i già citati pantaloni all’asciutto.

 

Quindi, la mostra è davvero utile per soddisfare molte curiosità; ma attenzione! 

Mica è così facile.

Perché chiunque ha curato l’allestimento non ha considerato un elemento, appunto, elementare.

I pannelli, dove tutto è spiegato piuttosto bene, talvolta in modo perfino avventuroso e appassionante, bisogna poterli leggere.

Ma, e si vede nella patetica foto, i visitatori sono costretti, per compiere questa fondamentale, semplice operazione, a illuminare con il telefonino le scritte. Le quali, malgrado la luce del sole che entra a fiotti dalle finestre del salone, sono immerse in un buio profondo. 

Una sistemazione diversa, un faretto, un qualunque altro trucco da elettricista sarebbero stati un pensierino gentile per noi ospiti in visita.

Va bene, facciamo finta di niente; se ne accorgeranno, speriamo, e dopo l’inaugurazione troveranno un rimedio.

 

In fondo noi romani siamo, sì, cialtroni per definizione, ma cialtroni d’ingegno e buon cuore.

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