N° 611 - Microbiografie Irrispettose - Erik, anzi EsotErik Satie 1860 - 1925

Erik Satie, anzi, EsotErik Satie, come lo chiamano gli amici: un rompiscatole di genio. Caratterizza con la sua personalità stravagante e scomoda il passaggio dall’Otto al Novecento, un periodo pieno di fermenti. Musicista, pittore, scrittore di teatro e cinema. Impressionista, simbolista, cubista, dadaista. Un tipo esoterico, appunto.

Gli muore la madre. Il padre si risposa con una maestra di pianoforte, la quale tenta di insegnare a Eric, dodicenne, lo strumento, ma lui si impenna e sceglie di detestare il pianoforte e la musica in generale.

Malgrado questo capriccio, da quel bastian contrario che è, nel ’79 entra al Conservatorio di Parigi, che battezza “una specie di prigione senza attrattive sia all’interno che fuori”. Dopo un paio d’anni i suoi professori lo giudicano un somaro e lo cacciano. Lui continua a studiare per conto suo e nel 1885 è riammesso ma il giudizio rimane lo stesso.

Deluso, si arruola in fanteria, capisce presto che l’esercito non fa per lui e una notte d’inverno rimane apposta fuori al freddo e alla pioggia; si prende una polmonite, ma insieme al malanno rimedia anche il congedo.

Capito il genere? Continua a sviluppare il suo carattere provocatorio, ruvido, imprevedibile. Che si ritrova nelle sue composizioni, per esempio “Ogives”, titolo bizzarro, scrittura senza segni di misura e di espressione e con annotazioni personalissime, difficili da seguire nell’esecuzione.

A 22 anni compone le tre famosissime Gimnopedie per piano solo. Ma fare l’autore non gli basta per vivere, quindi si deve trovare un lavoro come secondo pianista al “Le Chat Noir”. Naturalmente litiga subito con il proprietario e allora si trasferisce all “Auberge du clou” dove conosce il futuro amico di una vita, Debussy.

Dichiaratamente misogino, senza preavviso si fidanza con Suzanne Valadon, madre del pittore Utrillo, ma neanche questa faccenda dura e, finita la storia, Eric va ad abitare in una zona di Parigi miserabile e piena di zanzare. La notte continua il suo vagabondaggio fra i locali di Monmartre dove accompagna al pianoforte i cantanti.

Intanto ha composto i tre brani di commento per la pantomima “Jack in the Box”, ma al momento di metterla in scena non si trova più la partitura.  È sicuro di averla persa in autobus e il progetto naufraga. Invece, dopo la sua morte la scoprono sprofondata nella cassa del pianoforte.

Finalmente nel 1917, insieme al poeta Cocteau e a Picasso come scenografo mette in scena su commissione di Diaghilev, il famoso coreografo dei Ballets Russes, “Parade”, in cui la musica è farcita di innesti per allora audaci: sirene, macchine da scrivere, pistole e altri attrezzi non propriamente musicali. Poco apprezzata dal pubblico, ma non da uno spettatore d’eccezione: Marcel Proust.

Nel 1925, a forza di serate passate suonando e soprattutto trincando nei locali di Parigi, il fegato di Satie viene fulminato da una bella cirrosi che lo porta dritto alla tomba.

In fondo è durato più del previsto.

 

A proposito di bizzarrie, Satie abita per tanti anni in un appartamento che lui chiama “l’armadio”, composto da due stanze: in una vive, l’altra è perennemente chiusa a chiave. Dopo la morte la aprono e la trovano piena di ombrelli che lui colleziona. Scoprono anche una quantità impressionante di completi di velluto tutti uguali, nonché cappelli a cilindro e cravatte a fiocco che indossa quando siede al pianoforte.

È anche fissato con il numero tre, tanto che molte sue composizioni si presentano, appunto, in forma di trinità. Non finisce qui; Satie è anche famigerato per aver scritto il brano più lungo della storia: “Vexations”, composto da trentacinque battute da ripetere 840 volte; venti ore in tutto.

E i suoi titoli? ”Tre pezzi in forma di pera”, “Preludi flaccidi per un cane”, “Embrioni secchi”. Stravinskij racconta: “Satie mi suonò al piano molte sue composizioni. La parte più interessante erano i titoli dei pezzi”.

 

Il modesto numero delle sue opere lo metterebbe nell’angolo dei musicisti poco prolifici e di scarso peso. In realtà la sua importanza non sta tanto nella musica che ha scritto quanto nella sua modernità e nel suo riuscire a essere il cardine di tanti scambi (alcuni pazzi e altri forse inutili, ma comunque interessanti) fra i movimenti culturali dell’epoca.

 A proposito di modernità, ecco quello che un giorno, seduto in un caffè, disse al suo amico Fernand Leger: “Sai, bisognerebbe creare della musica d’arredamento, cioè che tenesse conto dell’ambiente in cui viene diffusa. Melodiosa abbastanza da coprire il suono metallico dei coltelli e delle forchette, senza però cancellarlo completamente. Da riempire i silenzi talvolta imbarazzati dei commensali e risparmiare il solito scambio di banalità”.

Suona familiare, anzi, proprio all’avanguardia, no?

 

                                                                                        

 

 

 

 

 

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