
Furbo per necessità, potremmo dire, e senza altri fini se non sopravvivere: l’unico dei grandi russi a essere vissuto dalla nascita alla morte fra le braccia del regime.
Mica da tutti la sua capacità di convivere con la pesantissima realtà politica del paese e riuscire a seguire il proprio itinerario artistico senza dare troppo nell’occhio. Abile la sua scelta di rifarsi ogni volta che può ai cori, ai canti, al folklore nazionale, ricetta infallibile per avere il beneplacito del potere. Per chi non si adegua è pronta l’accusa di usare un linguaggio musicale decadente, reazionario e non comprensibile dalle masse.
Malgrado la sua prudenza si prende due denunce ufficiali, nel ’36 e nel ’48, più una bella serie di censure finché finalmente Stalin muore, e Dmitrij non solo è riabilitato, ma entra nel Soviet Supremo e diventa ambasciatore della cultura dell’URSS nel mondo.
Entra al conservatorio di Leningrado a tredici anni e subito tutti si accorgono di avere sottomano un bambino prodigio. Gli danno una borsa di studio. Nel ’23 si diploma in pianoforte con il massimo dei voti. Muore il padre e la famiglia piomba in miseria. Per arrotondare Dmitrij lavora come pianista accompagnatore di film muti, un mestiere che detesta, ma che poi gli servirà come gavetta per la sua lunga e brillante carriera di autore di colonne sonore.
Nel ’25 la Filarmonica di Leningrado gli esegue la Prima Sinfonia (composta da studente) con un successo clamoroso e il Conservatorio lo ammette al corso di composizione al cui esame di diploma Shostakovich presenta la sinfonia stessa ottenendo il massimo dei voti. L’opera entra subito nel repertorio internazionale e fa il giro del mondo, diretta anche da Toscanini.
Sarà il suo unico successo ufficiale per anni perché nella sua vita mette lo zampino, anzi lo zampone la stupidità del regime che gli dà il benvenuto criticando pesantemente il suo lavoro successivo, l’opera “Il Naso” da Gogol, che definisce formalista, per poi proibirla come “il prodotto di un borghese decadente”. E’ il blocco di una carriera. Lui continua a scrivere, certo, ma tiene segrete le sue composizioni da camera, mentre figura allineato alle direttive del partito con la produzione di colonne sonore trionfalistiche per i film di regime.
Intanto è pronta la sua seconda opera “Lady Macbeth” che debutta in Russia e all’estero con uno strepitoso successo, forse da interpretare anche come una ribellione del pubblico alle direttive del partito, ma quando nel ’36 viene presentata al Bolshoj cominciano i guai.
Stalin, presente alla serata, secondo una versione se ne va al primo intervallo, secondo un’altra rimane per tutto lo spettacolo chiacchierando con i suoi cortigiani; comunque alla fine non invita il compositore nel suo palco per commentare l’opera come è sua abitudine. Brutto segno. Qualche giorno dopo infatti, la Pravda con un articolo anonimo (certo ispirato dallo stesso Stalin) intitolato “Caos invece di musica” stronca la rappresentazione come non rispondente ai canoni del realismo socialista e a tutti gli affetti accusa Shostakovich di “crimine artistico”.
Scoppia la guerra, il Reich invade la Russia e Shostakovich ha una nuova apertura verso la fama con l’esecuzione, sotto i bombardamenti delle truppe tedesche che assediano la città (dalla quale non ha voluto allontanarsi malgradi il pericolo), della sua settima sinfonia, la “Leningrado”. Applausi e commozione accolgono quest’opera che viene immediatamente replicata in tutta la Russia e nel mondo.
Ma nessun risultato è definitivo per la mente sbilenca di una dittatura capricciosa. Infatti l’Ottava che Dmitrij compone subito dopo, non altrettanto trionfalistica, viene messa all’indice e sepolta in una tomba burocratica da cui risorgerà solo quindici anni dopo. E Shostakovich, accusato insieme a Prokofiev e altri di formalismo, perde il posto di professore al conservatorio ed è costretto a fare pubblica autocritica, a promettere di seguire le direttive del partito e a scrivere più “musica per il popolo”.
Questi processi punitivi partono naturalmente dal partito, ma tocca agli artisti stessi giudicare e condannare i loro colleghi, dopo discussioni farsa e ascolti pilotati. Per un certo periodo Shostakovich aspetta la squadra che venga ad arrestarlo per deportarlo in Siberia. Intanto ha organizzato il suo lavoro su tre livelli: Musica per il cinema per pagare l’affitto; Musica conforme alle direttive per farsi riabilitare; Musica “sua sua” da nascondere nel cassetto in attesa di tempi migliori.
Il 5 marzo 1953, fine dell’incubo. Stalin è morto. Shostakovich lo seppellisce sotto le sonorità terribili della Decima Sinfonia. Stavolta il successo è mondiale e definitivo: esecuzioni a Londra, Parigi, Lipsia, NY, Tokyo, Vienna.
In patria diventa “Artista del Popolo” e riceve l’Ordine di Lenin.
Riprendono (anche se con qualche contestazione) le rappresentazioni trionfali della sua “Lady Macbeth”. Il successo è indiscutibile e inarrestabile per tutta la produzione di Shostakovich, il quale ormai gira libero per il mondo seguendo la scia della sua fama, senza più le pesanti catene che lo avevano bloccato per tutta la vita costringendolo alla doppia morale obbligatoria per la sopravvivenza in una dittatura.
Grande fumatore, accanito bevitore di vodka, maniaco della pulizia, paranoico della puntualità, tiene perfettamente in sincrono tutti gli orologi di casa, si spedisce regolarmente cartoline e lettere per controllare l’efficienza del servizio postale; la sua faccia è una maschera di tic e smorfie.
A emigrare non ha mai pensato, anche perché non conosce nessuna lingua straniera e poi è troppo legato alla Grande Madre Russia.
Nel 1975 ricco, famoso e riconosciuto finalmente anche dal suo paese, muore in un ospedale della stessa zona di Mosca in cui ventidue anni prima se n’era andato il suo eterno nemico, Stalin.
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