
Nel ‘500 un gentiluomo anche di medio livello non si sarebbe mai sognato di abbassarsi a fare il musicista, e se mai gli fosse capitato di scoprirsi questo talento sarebbe stato ben attento a far passare la sua arte per un passatempo e non un mestiere.
Carlo Gesualdo, principe di Venosa, Grande di Spagna, ultimo discendente di Roberto il Guiscardo, nipote di Carlo Borromeo, pronipote di Papa Pio IV, nonché proprietario di immensi latifondi e sterminate ricchezze, a essere conosciuto come musico invece ci tiene, e ancora di più ci tiene a pubblicarli, i suoi bellissimi madrigali; ci tiene così tanto che a un certo punto installa una tipografia nel suo castello e assume il celebre stampatore Giacomo Carlino.
Forse Carlo avrebbe voluto essere solo un musico per poter condurre la vita semplice e senza obblighi di un uomo comune. Invece era un principe, come abbiamo visto, di antica e nobilissima stirpe, quindi carico di altrettanto antichi e pesantissimi obblighi. Era sposato per calcoli dinastici con una signora alla quale evidentemente non prestava la dovuta attenzione, tanto che a un certo punto lei, Maria d’Avalos, nobilissima anche lei, l’attenzione era andata a cercarsela nel letto di un terzo personaggio, Fabrizio Carafa, Duca d’Andria, altrettanto nobile e uomo insolente e spregiudicato.
La notte del 16 ottobre 1590, nel suo castello di Napoli, il principe, non potendo più ignorare le corna, ormai sulla bocca di tutta la nobiltà del circondario e una macchia sul nome della famiglia da lavare col sangue, chiama il suo servitore, Bardotto, il quale sale nella sua camera e lo trova tutto vestito da caccia e armato. “Non è l’ora giusta per uscire a caccia” gli osserva. “Vedrai che caccia faccio io!” Gli ordina di seguirlo verso gli appartamenti della moglie: “Voglio andare ad ammazare el Duca de Andria et questa bagascia de donna Maria”.
Dalla testimonianza di Silvia, cameriera della signora che dorme sulla soglia: “Viddi passare Don Carlo, Bardotto e tre fedelissimi, buttare giù la porta et entrare urlando: ammaza, ammaza questo infame et questa bagascia!” Poi escono ma Carlo sulla porta ha un dubbio perché grida “Non deve essere morta ancora!”, torna indietro e infierisce con il pugnale sul corpo della moglie.
Per l’ordine penale dell’epoca è perfettamente legale ammazzare la moglie infedele e il suo amante, quindi il brevissimo processo scagiona completamente Carlo. Ma non per l’ordine cavalleresco, secondo il quale l’uccisione degli adulteri dev’essere operata solo dal marito offeso, senza l’aiuto di servi che non possono sporcarsi le mani di sangue nobile. Perciò questo sgarbo ha insultato la famiglia Carafa (quella del traditore), che ha il diritto di organizzare la vendetta.
E allora, quella stessa notte Carlo, scagionato dalla legge, ma poco tranquillo per l’errore di essersi portato dietro nel massacro Bardotto e i tre bravi, scappa e si rifugia nel suo castello di Venosa, dove si barrica protetto dal suo piccolo esercito personale e da dove non si muove per un anno.
Forse roso dal rimorso per quello che ha fatto precipita in una forte melancolia da cui cerca di liberarsi con la musica, che già era una passione forte prima del delitto e che adesso si manifesta come una necessità a cui si dedica giorno e notte. È in questo periodo che Torquato Tasso gli manda più di un testo che lui metterà in musica. Un po’ Gesualdo ci ricorda un altro personaggio dell’arte, come lui un genio fuori del tempo e un assassino, Caravaggio.
Gesualdo, forse guarito dopo questo ritiro a Venosa, rientra nel mondo e si risposa con Eleonora d’Este, con la quale va a vivere a Ferrara dove trova un terreno ben più favorevole della sua selvaggia Irpinia ai contatti con la cultura europea, e pubblica i suoi primi due libri di madrigali presso la corte ducale. Alfonso d’Este di lui dice: “Ragiona molto e non dà segno alcuno di malinconico, e di musica m’ha detto tanto ch’io non ne ho udito altrettanto in un anno”. Bene la musica, male i rapporti coniugali con Eleonora, che degenerano fino a esaurirsi.
Ormai Gesualdo è vecchio, è tornato a Venosa e vive in solitudine una vita di espiazione per i peccati commessi. Si punisce con penitenze severe, atti di dolore e quotidiane fustigazioni per mano di un gruppo di ragazzi da lui assoldati per questo scopo.
“Carlo Gesualdo fu assalito da gran moltitudine di demoni li quali non lo feron per molti giorni mai quetar se non dopo che dieci o dodici giovani che ei teneva a posta per suoi carnefici non lo caricavano (ed ei sorrideva) tre volte al giorno di asprissime battute.
Sprofondato in questo suo purgatorio maniacale, ottiene da suo cugino, il cardinale Federico Borromeo una reliquia dello zio, San Carlo Borromeo. “Non potevo aspettarmi di ricevere da Vostra Signoria una grazia più preziosa del sandalo che il glorioso San Carlo usava indossare”.
Continua anche la sua immersione nella musica. Ha composto e fa stampare la “Tenebrae Responsoria” a sei voci un’opera macerata e solenne sul martirio di Cristo.
Il 20 agosto il suo unico erede maschio Emanuele muore cadendo da cavallo, proprio come era successo anni prima a suo fratello maggiore. Carlo, ormai schiantato dalla vita, si rinchiude nella “camera dello zembalo”, la sala da musica, dove diciotto giorni dopo “si spegne per essersi lasciato andare”.
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