Roma, 16 ottobre 2010. Associazione l’Architasto, concerto per clavicembalo. Alla tastiera il nostro, massimo solista al mondo dello strumento. Un nordeuropeo fisicamente sobrio al limite del funereo.
Benvenuto, benvenuta
nell'archivio del Cavalier Serpente. A questo punto puoi sbizzarrirti e andare indietro nel tempo (anche di anni). Gli articoli sono elencati in ordine cronologico al contrario: dal più fresco al più stantio.
Nasce in una modesta famiglia di commercianti di porcellane. Prende le prime lezioni di pianoforte da un’amica di famiglia. Il padre vorrebbe farne un ufficiale di marina, ma si fa convincere da questa amica (che è la suocera di Paul Verlaine) a fargli studiare musica e a iscriverlo al Conservatorio. Siccome il giovane ha bisogno di guadagnare, il Conservatorio stesso gli procura un lavoro come pianista accompagnatore presso la ricca baronessa russa Nadezda von Meck.
Poco dopo è presentato all’architetto Vasnier che lo prende sotto la sua protezione. Vasnier ha una bella moglie con cui il nostro giovane maestro, infischiandosi dei favori che il marito gli fa, nel 1886 intreccia una relazione, avviando così la sua brillante carriera di seduttore di pochi scrupoli e diremmo anche di pochissimo buon gusto.
Su suggerimento dell’architetto, ignaro delle, o indifferente alle corna, Debussy concorre al Prix de Rome, un soggiorno di due anni a Villa Medici, che lo stato francese assegna a studenti meritevoli nelle arti. Non lo vince la prima volta. Ci riprova. Non lo vince la seconda volta. Ci riprova ancora e, grazie anche al sostegno di Gounod, la terza volta ce la fa.
A dar retta alle sue lettere, Claude detesta il suo soggiorno a Roma, una città che non gli piace, costretto a convivere con colleghi con cui non va d’accordo e a sottostare a un regolamento che gli fa orrore. Sempre senza un centesimo, scrocca prestiti a tutti (una delle vittime è il conte Primoli, a cui chiede 500 franchi per pagare la cena di celebrazione della propria vittoria al premio).
I due anni passano; torna in Francia e, scioltosi dal rapporto con Madame Vasnier, si rimette ad abitare coi genitori. Passa le serate nei locali: al Chat Noir a Pigalle, dove conosce Erik Satie, che diventa suo amicone, oppure da Chez Pousset, dove artisti di ogni genere discutono fino a notte alta e dove incontra Paul Dukas ed Ernest Chausson. Insomma, fa la bella vita e nello stesso tempo si costruisce una ricca rete di amicizie.
Nel 1889 incontra mademoiselle Gabrielle Dupont, il secondo passo nella sua carriera di dongiovanni. Figlia di un sarto e bellissima ragazza, ci va a convivere. Vita di boheme: niente soldi, niente legna per il caminetto, poco da mangiare, litigate e rappacificazioni.
Breve intervallo di un paio di mesi nel 1894 con la cantante Therese Roger (racconta a tutti, mentendo, che Gabrielle lo ha lasciato), poi, come se niente fosse, ritorna da Gabrielle, con cui però le cose vanno sempre peggio, e quando lei scopre (1897) che Claude ha intenzione di lasciarla per la sua migliore amica, Rosalie Texier, detta Lily, indossatrice di rara bellezza, prende una pistola e si spara al petto.
Sbaglia la mira e il suicidio non riesce, ma Lily appena lo sa molla Claude, il quale le scrive una lettera in cui minaccia di uccidersi a sua volta se lei non ritorna da lui. La bella indossatrice si fa convincere e i due si sposano. Però per Claude, Lily, che piace a tutti gli amici, che è innamorata di lui, che è simpatica e anche molto bella, non è abbastanza intellettuale e interessata alla musica. Comincia a stufarsene.
Tutte belle eh, qualcuna anche bellissima; e non si sa come facesse perché lui certo non era un gran che: sulla fronte aveva grosse protuberanze ossee: probabilmente una forma tumorale benigna nota come osteoma eburneo, che lui per tutta la vita cercò di nascondere con frangette varie.
Insomma, aveva “una testa squadrata come una scatola, la fronte grande e sporgente e una barbetta rada che ricordava un lichene parassita”. Parlando balbettava un po’ e tendeva alla pinguedine. E in più non aveva mai un soldo in tasca. Da Chez Pousset era soprannominato “Le christ hydrocephale” mentre i figli della baronessa von Meck lo chiamavano “Le petit hippopotame”.
Nel 1903, colpo di scena! Debussy conosce Emma Bardac, moglie di un facoltoso banchiere e, al contrario di Lily, colta, raffinata; perfino musicista dilettante. In un batter d’occhio abbandona il tetto coniugale e si trasferisce da lei.
Nuovo tentativo di suicidio non riuscito. Rosalie si spara un colpo che va a piantarsi in una vertebra ma non la uccide.
Scandalo, riprovazione e allontanamento di molti amici. Doppio divorzio, dopo di che Claude ed Emma si sposano, hanno una figlia e vivono felici insieme fino al 1918, quando Debussy muore di un tumore, mentre i tedeschi bombardano Parigi con il loro supercannone a lunga gittata. Naturalmente, con la guerra in corso il suo funerale è ridotto al minimo: un frettoloso corteo di non più di venti persone
Per nostra fortuna in tutto questo andirivieni di ragazze e colpi di pistola, Debussy trova anche il tempo di fare il musicista e ci regala l’Apres-midi, La Mer, il Pelleas, opere scritte in un nuovo linguaggio, che naturalmente all’epoca non piacque alla critica, ma a noi, oggi, piace e molto.
Il suo paese lo ha onorato con un funerale ufficiale a fine prima guerra mondiale, e stampando il suo profilo, come abbiamo già detto non proprio bellissimo, sulla banconota da venti franchi.
In più, anche a lui gli astronomi hanno intitolato un cratere sul pianeta Mercurio.
Doveva essere una bella famigliola di musici vaganti: papà Leopold Mozart, vicekapellmeister presso la Corte di Salisburgo, ma soprattutto astuto (e talvolta implacabile) impresario e organizzatore della vita di sua figlia Nannerl, eccellente pianista bambina, e di suo figlio Wolfgang Amadeus, genio precoce, piccolo virtuoso e, come lo definiva suo padre, "il miracolo che Dio ha fatto nascere a Salisburgo".
Franz Joseph Haydn, unito a Wolfgang da amicizia e stima, malgrado ci fossero 24 anni di differenza, disse un giorno che i posteri non avrebbero visto un talento simile per i successivi cento anni.
Mozart aveva l’orecchio assoluto, naturalmente, e una memoria fantastica. Una sua prodezza: a Roma ascolta il Miserere di Gregorio Allegri, una monumentale composizione a nove voci considerata proprietà esclusiva della Cappella Pontificia (pena di scomunica a chiunque la portasse fuori del Vaticano per eseguirla) e riesce a trascriverlo a memoria dopo un solo ascolto. Gara fra geni: c’è un secondo aneddoto collegato a questo: Mendelssohn, in visita a Roma, per scommessa vuole ripetere l'impresa di Mozart e, dopo un solo ascolto, anche lui riesce a trascrivere la composizione. Però Mozart ha 14 anni, Mendelssohn più di 20. Conta la differenza?
Nei suoi concerti per pianoforte Mozart spesso lascia vuota in partitura la linea dello strumento solista che, con sprezzo del pericolo o pura incoscienza, suonerà lui stesso a memoria.
Una volta è addirittura preso per mago: a un concerto a Napoli un nobile nel pubblico attribuisce all'anello che porta al dito il merito della sua incredibile bravura; Wolfgang se lo toglie, lo posa sulla tastiera e continua a suonare magnificamente come prima.
Eterno bambino, Mozart era particolarmente bravo a scrivere da destra a sinistra, ma aveva paura del suono della tromba.
Si divertiva a cambiare il proprio nome latinizzandolo in Wolfgangus Amadeus Mozartus, italianizzandolo in De Mozartini, o capovolgendolo in Trazom Gnagflow.
Grafomane compulsivo, scriveva (specialmente alla sorella) lettere piene di parolacce infantili e insistiti riferimenti a flatulenze e funzioni fisiologiche. Si dilettava anche a comporre canoni e arie, alcune assolutamente squisite, sullo stesso argomento.
Nel 1777, a 21 anni, Mozart aveva un aspetto infantile e non aveva ancora bisogno di farsi la barba. Non era alto: uno e sessanta, esile di corpo, capelli biondi e fini, occhi azzurri, bei lineamenti. Aveva avuto il vaiolo in forma leggera e ne portava le tracce.
Malgrado la vita troppo breve scrisse 20 opere, 40 sinfonie, 30 concerti, 20 messe, 100 brani per pianoforte, 200 danze; più arie, serenate, canoni, eccetera eccetera.
Altrettanto infantile fu per tutta la vita il suo rapporto con il denaro. Bisogna anche capirlo e ricordare che quando girava con il padre e la sorella, anche se la vera star del trio era lui riceveva solo una paghetta.
Più tardi gli fece i conti in tasca, in una lettera del 1785, il suo amministratore dell’epoca, quel rompiscatole oppressivo, ossessivo e ricattatorio di papà Leopold. In quell’anno Wolfgang incassa circa 3.000 fiorini (a una famiglia con 2 figli ne bastavano 500 l’anno per vivere bene), ma lui ne spende 460 solo per l’affitto di un lussuoso appartamento, più altrettanto per vestiti, parrucche e gingilli e, ancora peggio, in maniera incontrollata e incontrollabile al tavolo da gioco e al biliardo, per il quale va matto; pur non essendo affatto bravo, ci scommette e perde.
Così entra in un vortice di prestiti e cambiali per rimborsare altri prestiti, di anticipi chiesti e non restituiti, di lettere fastidiose agli amici con richieste imbarazzanti anche di pochi fiorini e alla fine, pur essendo potenzialmente ricco, vive e muore da povero.
Tanto per farci un’idea (anche se è difficile fare un rapporto con oggi), negli anni ’70 a Vienna il direttore dell’ospedale generale prendeva 3.000 fiorini l’anno, il primario chirurgo 800, l’invidiato maestro Salieri 1.200, un professore universitario 300, un maestro di scuola 22 e la serva di Mozart, l’ultima pedina della società, 12.
I colleghi devono essere grati a Mozart perché la sua scelta di abbandonare il servizio presso l'arcivescovo di Salisburgo fu fondamentale non solo per lui, ma anche per la condizione dei musicisti in generale: era la prima volta (perlomeno nell'ambiente di lingua tedesca) che un compositore della sua statura si affrancava dalla sudditanza alla Chiesa o alla nobiltà e decideva di agire come libero professionista, legato solamente alle regole del mercato.
Il fatto che questa mossa a lui non riuscì del tutto è irrilevante: aprì la strada ai posteri, lasciando anche un’involontaria eredità al figlio Carl Thomas, che vivrà fino al 1858 e sarà l’unico a prendere diritti d’autore sul lavoro del padre.
Sempre a proposito di colleghi, Mozart non è tenero. Umilia quando può il potente Salieri; in un confronto pubblico alla tastiera con il venerando e rispettato Clementi, lo batte clamorosamente e poi ne scrive: "Clementi suona bene, fino a che guardiamo alla mano destra. A parte questo, non ha un centesimo di gusto o sensibilità; in pratica è solo un puro meccanico". Poi aggiunge: "Clementi è un ciarlatano, come tutti gli italiani".
In parecchi, anche fra i posteri, lo ricambiano: l’Imperatrice Maria Luisa di Borbone, presente alla prima, definisce La Clemenza di Tito “una porcheria tedesca in lingua italiana” e aggiunge che "la musica era così brutta che ci addormentammo tutti". Strawinskij chiama le sue messe “pasticceria rococò”. Debussy detesta i suoi concerti per pianoforte; a Prokofiev è talmente antipatico che non capisce come qualcuno possa amarlo. Berlioz, grande orchestratore sostiene che il suo a solo di trombone nel Requiem fa un effetto miserando.
E siamo arrivati alla leggenda del Requiem. E’ vero che gli fu commissionato, ma non da un misterioso personaggio che veniva ad annunciargli la sua morte. Il committente, che naturalmente aveva mandato un segretario, era, in carne ed ossa, il conte Franz von Walsegg, un signore ricco e conosciuto, ma anche in qualche modo patetico perché, vergognandosene un poco, comprava in gran segreto composizioni da famosi musicisti (anche Haydn fu un suo fornitore) e poi, spacciandole per proprie, le dirigeva nel suo castello davanti ai nobili amici, suonando anche le parti di flauto, che gli scrivevano appositamente semplificate.
Mozart si trovò nel dubbio se comporre il Requiem nel proprio stile, il che avrebbe reso molto difficile credere che fosse di Walsegg, o in una forma banalizzata, più appropriata al conte; ma questo gli ripugnava e quindi continuò a rimandare la conclusione del lavoro finché fu troppo tardi.
Morto Wolfgang, l’astuta moglie Constanze lo fece terminare dall’allievo Süssmayr, poi lo recapitò al conte facendosi saldare l’onorario. Ormai però ce n’erano in giro altre copie, tanto che alla fine venne pubblicato, naturalmente con il nome di Mozart.
Come salvare la faccia? Il conte ebbe una trovata assolutamente geniale. Raccontò ai suoi amici e cortigiani di essere stato allievo di Mozart per la composizione, e come tale di aver mandato i frammenti del Requiem al maestro man mano che li scriveva perché li correggesse. Le partiture erano rimaste nello studio di Mozart e, trovate dopo la sua morte, erano state pubblicate come sue.
Ultimo brandello di banale verità, fuori dal mito: Mozart morì normalmente nella sua casa a Vienna. Gli fecero un normale funerale di terza classe: il feretro era sostenuto da quattro portatori, preceduti da un crocifero e da quattro chierichetti con i ceri. Al seguito la vedova Constanze, la famiglia Weber, Süssmayr, altri allievi, alcuni amici e perfino (questo sì un colpo di scena) Antonio Salieri.
…E IL FIGLIO
FRANZ XAVIER WOLFGANG MOZART: 1791 – 1844
Era l'ultimo dei sei figli di Wolfgang e Constanze; solo lui e il fratello Carl Thomas arrivarono all'età adulta. All’epoca i bambini morivano come animaletti e con lo stesso effetto per i genitori e per la famiglia. Fu chiamato Wolfgang in omaggio a suo padre e Franz Xavier in omaggio a Franz Xavier Süssmayr, compositore, allievo e intimo amico di Mozart.
Voci girano sul fatto che, facendo i calcoli, risulta che fu generato in un momento in cui Mozart era lontano da casa, mentre Süssmayr era vicino a Constanze. Inoltre si dice che Süssmayr fece molta resistenza alla richiesta da parte della vedova di Mozart di completare il Requiem dopo la morte dell’autore. Sensi di colpa basati sui sospetti di una relazione fra lui e Constanze?
Franz Mozart nacque solo cinque mesi prima della morte di suo padre, quindi non lo conobbe; eppure visse sempre nella sua ombra, nella paura e nella consapevolezza di non poter raggiungere gli stessi vertici artistici. Fu allievo di Antonio Salieri e, proprio come il padre, iniziò a comporre da bambino; diede il suo primo concerto a 14 anni. Il suo carattere era molto diverso da quello di papà: introverso, timoroso, tendente all'autosvalutazione. Non si sposò mai e non ebbe figli.
Morì di cancro allo stomaco (qui forse si manifesta psicosomaticamente il rovello di essere figlio di un simile padre) a Karlsbad, dove è sepolto sotto una lapide che porta la seguente scritta: “Che il nome di suo padre sia il suo epitaffio, giacché la sua venerazione per lui fu l’essenza della sua stessa vita”. Chissà se Franz Xavier sarebbe stato d’accordo?
Nasce a Genova. Il padre Antonio, “ligaballe” al porto, intuisce il suo talento e lo mette subito a studiare da enfant prodige, come ha fatto Leopoldo Mozart con Wolfgang. A 8 anni scrive la prima sonata.
Studia e alloggia in collegio con i castrati che allora c’erano ancora e facevano furore.
Cerca in tutti i modi, e alla fine ci riesce, di sfuggire alla tutela paterna.
Comincia subito a viaggiare e da allora per tutta la vita girerà l’Europa in carrozza senza fermarsi mai.
A Lucca si innamora ricambiato della sorella di Napoleone, Elisa Bonaparte.
Nel 1816 finisce in galera e viene condannato a pagare 3.000 franchi per aver rapito e sedotto una ragazza. Una volta libero continua a sedurre implacabilmente chiunque gli capiti a tiro, ma si dichiara contrario al matrimonio.
Malgrado ciò, in vista delle nozze con Carolina Banchieri (che poi non si faranno), chiede al curato della sua parrocchia di correggere sull’atto la sua data di nascita, in modo di figurare più giovane dei 40 anni che ha, e raccomanda alla madre, analfabeta, di fingere una frattura alla mano per avere la scusa di non firmare, risparmiandogli una brutta figura.
Poi invece sposa una certa Antonia Bianchi, una donna collerica che gli fa continue scenate prendendolo a schiaffi davanti a tutti e distruggendo il mobilio di casa, compreso la custodia del violino (lo strumento è salvo per miracolo). Hanno il figlio Achille. Poi si separeranno.
La sua salute comincia a vacillare. Lui si cura come si usava all’epoca, con veleni e salassi.
Comincia a manifestarsi la sua avarizia.
Antonia sempre più bisbetica.
Sulla Revue de Paris il dottor Bennati pubblica un cervellotico articolo sulla struttura fisiologica del genio, prendendo come esempio Paganini, e ne descrive il non meglio identificato organo musicale, le bozze della melodia molto sviluppate, il padiglione dell’orecchio largo e profondo, la flessibilità dei legamenti di spalla, braccio, polso e dita. Oggi pensiamo che fosse affetto dalla sindrome di Marfan che rende, appunto, scioltissimi i legamenti e le giunture.
La sua avarizia è ormai diventata sordida. Vuole comprare un panciotto di lana. Si offrono di accompagnarlo da un sarto. “No - risponde Paganini - portatemi da un mercante di abiti usati”. E per tre quarti d’ora tratta per ottenere il ribasso di un franco.
Traffica con la compravendita di strumenti musicali Amati, Guarnieri, Stradivari. All’epoca se ne trovavano ancora in giro. Credendo di essere furbo, si mette negli impicci per un locale che apre con dei soci, il “Casino”, che poi fallirà e gli costerà un sacco di soldi.
Sempre più immerso in cure inutili di balsami e acque miracolose. Salute a picco.
In punto di morte rifiuta il prete; per questo Monsignor Galvano, vescovo di Nizza, gli nega la sepoltura in terra benedetta.
Finalmente nel 1875 arriva il perdono della Chiesa e il figlio Achille lo porta nel cimitero di Parma.
In gioventù un certo Monsieur Livron gli aveva promesso in premio un violino Guarnieri del Gesù se fosse riuscito a leggere a prima vista un concerto difficilissimo. Lui lo suona senza batter ciglio, vince il Guarnieri, che era chiamato “Il cannone” per la potenza del suono, poi lo lascia in eredità a Genova.
A diciannove anni compone i famosissimi 24 capricci.
Esplodono rivalità e gelosie con gli altri solisti che comunque vanno tutti a sentirlo suonare.
Compone per chitarra e violino, che suona egualmente bene. Esegue entrambe le parti alternandosi agli strumenti, la chitarra attaccata al collo con un nastro e il violino imbracciato.
Suona con lo spartito capovolto, su una corda sola, facendo ogni genere di acrobazie. A Londra la musica sul leggio prende fuoco da una candela. Gli orchestrali gridano che Paganini è il diavolo perché continua a suonare leggendo lo spartito in fiamme.
Tutto quello che lo riguarda diventa di moda: panini a forma di violino, guanti con sul dorso ricamato un violino a sinistra, a destra un archetto.
Ha l’aspetto di uno stregone: magrissimo, indossa un frak fuori moda con le spalle spioventi e i pantaloni ripiegati sulle scarpe.
E’ anche oggetto di contestazione. A Bristol, in tempo di carestia, appare un manifesto contro i compensi eccessivi di Paganini: “Perché tutti questi concerti in un tempo di miseria e di angoscia? Ovunque si fanno collette per venire in soccorso ai disgraziati; per quale ragione questo violinastro straniero viene a prosciugare il denaro destinato ai miserabili?”
Il 30 ottobre 1829 a Weimar concerto gremito, presente Goethe che scrive: “Ho udito qualcosa di meteorico”.
Incassi nel 1828 = Fiorini 68.300
Incassi nel 1829 = Fiorini 100.000. Cifre non quantificabili oggi, ma di sicuro enormi.
A Londra il prezzo dei biglietti per i suoi concerti è tri o quadruplicato, e le repliche si susseguono con le diciture “ultimo concerto”, “ultimissimo concerto”, “realmente ultimo”, “irrevocabilmente ultimo concerto”…
Una vittima: prima del padre, poi del marito, alla fine di sé stessa.
Clara nasce in un’epoca in cui per una donna il talento musicale era un semplice accessorio alla dote da portare al futuro marito.
Suo padre, Friederich Wieck, fabbricante di pianoforti, bravo insegnante di musica, ossessionato dal bisogno di veder confermate le sue capacità didattiche, riconosce immediatamente le doti di sua figlia e comincia a forgiarla, fin dai cinque anni con un metodo, certo duro, che però le dà una eccellente formazione. Il progetto è di farne una virtuosa di livello superiore, il che costituirà una ineccepibile testimonianza sulla bontà del suo sistema educativo.
A sette anni Clara passa già tre ore al giorno alla tastiera. A undici debutta con successo in concerto. Più o meno in quel periodo Robert Schumann, che ha nove anni più di lei, diventa allievo di Wieck padre.
Wieck accompagnava sempre la figlia; controllava i contratti, le sale, gli strumenti. Portava una borsa con gli attrezzi per accordare o riparare i pianoforti su cui avrebbe suonato Clara. Questo era indispensabile in un’epoca in cui i grancoda non viaggiavano e quindi spesso capitavano strumenti malmessi o scordati.
Nel 1835, anno importante, Clara trionfa nel suo primo grande concerto pubblico e lei e Robert si dichiarano amore eterno. Papà Wieck si infuria, caccia Robert e gli proibisce di rifarsi vivo. La sua preoccupazione di padre è probabilmente di non affidare la figlia a un giovane di talento ma squattrinato, mentre la sua paura di tutore (e tiranno) è certamente di perdere il suo investimento per il futuro, intuendo nel matrimonio, anche se felice, un ostacolo alla carriera dell’artista predestinata.
Il che puntualmente succederà.
I ragazzi, di fronte a questa incrollabile opposizione non possono fare altro che ricorrere al tribunale, che decreta per loro la possibilità di sposarsi senza il consenso paterno.
Ecco che Clara passa dalla schiavitù del padre a quella del marito.
La coppia possiede due magnifici pianoforti a coda. Quando compone, Robert esige assoluto silenzio, e allora, dato che le pareti di casa sono sottili, la povera Clara non può neanche pensare di avvicinarsi alla propria tastiera.
D’altra parte Clara è figlia del suo tempo e da una pagina del suo diario fa capolino la terza forma di schiavitù. Quella al costume dell’epoca e contro sé stessa: “Una volta credevo di avere talento creativo, ma sto cambiando idea: una donna non dovrebbe desiderare di comporre, mai una è stata capace di farlo, dovrei essere io quell’una? Sarebbe arrogante crederlo. Che sia Robert a creare, sempre! Questo deve rendermi sempre felice”.
E allora Clara si mette a dare lezioni, a occuparsi delle faccende domestiche e di tutti i figli che nel frattempo sono arrivati.
Finalmente cambiano appartamento; lì c’è lo spazio e l’isolamento acustico per i due pianoforti. La convivenza diventa più leggera, ma la sottomissione coniugale prosegue. Sempre dal diario di Clara: “Oggi ho iniziato per la prima volta dopo anni nuovamente a comporre; vorrei elaborare delle variazioni su un tema di Robert, per il suo compleanno”. Compone sì, ma come regalo per lui.
Dopo l’inferno che le ha fatto passare per tutte le manie, le depressioni, l’alcolismo, i tentati suicidi, gli attacchi di follia, Schumann muore lasciandola naturalmente senza un tallero, e Clara, che gli sopravvivrà di quarant’anni deve darsi da fare per mantenere i figli, quindi riprende l’attività solistica.
Così i 28 ottobre 1856, sistema i bambini qua e là, da parenti e amici e parte per il primo giro di spettacoli. Avanti così per anni: d’inverno concerti, d’estate bambini e preparazione del repertorio per la prossima stagione.
Per sua fortuna adesso ha un amico, Johannes Brahms, sempre presente con la sua devozione (da molti ci si chiede se questa devozione non sia anche un grande, discreto e incrollabile amore). Non si è mai saputo, tanta era, appunto, la discrezione.
Dopo qualche anno però cominciano a manifestarsi sempre più spesso grossi problemi di affaticamento, che poco alla volta diventano una vera e propria patologia, quella che i medici chiamano sindrome da sovraccarico, dovuta al continuo stress di mani, polsi e braccia nelle troppe ore di esercizi e di esibizioni alla tastiera.
Trova una cura che allevia ma non elimina il problema, per cui deve diminuire di molto la sua attività e soprattutto, con grande dispiacere, escludere dal suo repertorio i brani più faticosi anche se gratificanti, come i due concerti per pianoforte e orchestra del suo amico Brahms, che lei aveva contribuito a promuovere, ma che dopo l’esibizione la lasciavano sfinita.
Muore a settantasette anni ed è sepolta a Bonn insieme al marito Robert Schumann.
Robert Schumann nasce in Sassonia, in mezzo a quella natura che sarà così importante nella sua musica. E’ l'ultimo di sei figli di August Schumann, libraio, editore e scrittore. La madre, è una discreta pianista dilettante.
Robert a sette anni inizia a studiare musica con l’organista della cattedrale. Nel 1826 muore il padre lasciandogli (chi non vorrebbe avere un padre così?) diecimila talleri per terminare gli studi, risparmiandogli di entrare nella ditta di famiglia in cui già lavorano i suoi fratelli.
Va a Lipsia e si iscrive a legge, ma intanto prende in affitto un pianoforte. Conosce Friedrich Wieck, il più importante insegnante di musica della città, e diventa suo allievo. Come si usava all'epoca, si trasferisce in casa del maestro; qui suona spesso a quattro mani con la figlia bambina di Wieck, Clara.
Schumann vuole diventare un concertista e non un compositore. Quando nel 1832 Wieck parte per scortare la figlia, undicenne ma già pianista di talento, in un giro di concerti, Schumann decide di migliorare la sua tecnica collaudando su sé stesso un apparecchio che ha inventato per aumentare la divaricazione fra le dita e quindi l'estensione della mano. Un’idea che più scema e pericolosa non poteva farsela venire. Già in precedenza aveva avuto problemi con le mani; adesso naturalmente questi sono peggiorati.
Quando i Wieck rientrano, Schumann vuole fare ascoltare al maestro la nuova opera che ha composto in sua assenza: “Papillons”, ma il guaio è fatto e ormai ha due dita della mano destra paralizzate; l’opera dello sciagurato compositore, imparata in un attimo, a papà gliela suona Clara.
Cominciano ad aggravarsi le manifestazioni della sua instabilità mentale, già apparse in precedenza; soffre di amnesie, di allucinazioni sonore, resta assorto per ore.
"Ho sognato di affogare nel Reno": aveva annotato Schumann su un foglietto all'età di 19 anni. Il 26 febbraio del 1854 tenta di suicidarsi per davvero gettandosi proprio nel Reno; salvato dai barcaioli, su sua richiesta finisce internato nel manicomio di Endenich. Nel 1855 ha un lieve miglioramento, gli permettono di uscire, va a Bonn e lì rimane immobile ore e ore in piazza, in piedi davanti al monumento di Beethoven. La situazione si trascina ancora per un anno, con qualche lampo di lucidità e con l’assistenza di Clara, Brahms e altri amici che vanno spesso a trovarlo. Muore il 29 luglio del 1856.
I disturbi nervosi che hanno tormentato Schumann per gran parte della sua vita sono stati attribuiti a una sifilide contratta molto tempo prima. Si è anche pensato a un tumore cerebrale oppure a un disturbo bipolare. La morte forse provocata da avvelenamento da mercurio con cui sciaguratamente lo curavano. Distrutte le sue cartelle mediche per volontà della famiglia, la diagnosi è rimasta sepolta nel mistero.
La figlia di Wieck aveva appena quindici anni e Robert l'aveva conosciuta bambina. Il padre la voleva destinare a un futuro di grande concertista e quando intuì l'interesse di Schumann per lei, la costrinse a lunghe tournée pur di allontanarla. Clara era già una pianista affermata; ai suoi concerti assisteva Goethe. Nicolò Paganini la ascoltò più volte suonare e le regalò anche un frammento scritto apposta per lei.
Papà Wieck cercò in tutti i modi di tenere separati i due innamorati, perfino facendo causa a Robert per alcolismo e rimediando in cambio una bella condanna per calunnia. Alla fine la spuntarono loro e riuscirono a sposarsi, ma ormai Robert come pianista era finito, e la famiglia dovette basarsi per la sopravvivenza solo sul talento di Clara. I primi anni di matrimonio furono felicissimi, però presto arrivarono i problemi economici.
Schumann nel frattempo aveva iniziato a pubblicare una rivista musicale di cui era editore, direttore, redattore, insomma faceva tutto lui. Famosi alcuni suoi pungenti giudizi: “Cimarosa: magistrale nella tecnica, ma noioso e vuoto d’ogni pensiero”. “Donizetti, La Favorita: musica da teatro di marionette”; “Liszt: se non altro lo si è visto scuotere la criniera”. E il famoso bisticcio con Wagner. Wagner: “Schumann è un uomo impossibile, non parla mai”. Schumann: “Wagner è un uomo impossibile, non fa che parlare”.
Ma in seguito le sue passioni esagerate, i picchi di esaltazione e di depressione, gli insuccessi professionali e anche l’alcolismo lo misero fuori combattimento come marito, come giornalista e come musicista. Non si controllava più: una sera, in presenza di amici, mentre Clara stava suonando un suo pezzo (forse troppo veloce o troppo lento, chissà), corse come un pazzo al pianoforte e gridando: “Non è così che si suona Schumann!” chiuse il coperchio dello strumento sulle dita della moglie rischiando di fracassargliele.
Clara continuò la sua carriera di pianista e, grazie ai concerti nei quali eseguiva, insieme a Chopin e Beethoven, le musiche di Robert, fece crescere talmente la notorietà di Schumann che i suoi diritti d'autore arrivarono a superare quelli di quasi tutti gli altri autori contemporanei.
Peccato che per lui era troppo tardi.
“L’anno 1678, il 4 marzo, era una domenica. Venezia fu percorsa da un tremito che fece dare brividi sconnessi alla terraferma, illividire le lagune, offuscare il cielo: il terremoto! All’ora della messa grande: caduta una casa, sprofondato un arco, danni gravissimi”.
Lo stesso giorno nasce Antonio Vivaldi figlio di Giovanni Battista, violinista in S. Marco, gracile e per questo battezzato in casa.
“Chi nasce in un anno di terremoto è destinato a portare scompiglio a sé e gli altri.”
Infatti lui cresce di carattere focoso e combinaguai.
Appena ha l’età per farlo Vivaldi decide, d’accordo con il padre, di indossare la tonaca che, se non eri nobile, a Venezia serviva da garanzia e da lasciapassare per tutti gli ambienti. Una scelta decisamente carrieristica. Disciplinatamente il nostro segue tutti i gradi fino all’ordinazione a sacerdote a 25 anni. Da quel momento dimentica l’altare; rimane prete ma non dirà mai più messa.
A Venezia i trampolini per il successo erano la chiesa e il teatro.
A Venezia i costumi erano molto liberi. Con la scusa che uscivano spesso in maschera, i veneziani ne combinavano di tutti i colori.
A Venezia si faceva musica dappertutto: in casa, in chiesa, in teatro, in piazza.
Vivaldi comincia a interessarsi al teatro, un ambiente in cui regna la concorrenza, anche sleale. I proprietari delle tante sale, quasi sempre nobili, non pagano gli autori, i quali, non esistendo la tutela dei diritti, fanno causa ma con tempi lunghissimi e risultati incerti. A loro volta i gestori fanno causa ai cittadini che affittano i palchi e non li pagano.
Insomma, una gran confusione.
Intanto Vivaldi lavora al conservatorio della Pietà, una delle quattro istituzioni riservate alle ragazze povere. Insegnare lì è una grande responsabilità, ma anche un grande onore.
Quando porta le sue partiture alle Putte della Pietà, l’esecuzione è sempre una sorpresa per tutti. Lui è appassionato della sua scuola, e le ragazze di lui. La Pietà lavora molto: nel 1706 offre al pubblico 27 trattenimenti musicali.
Il primo bel colpo di Vivaldi è “L’Estro Armonico”, stampato in Europa dal grande editore Roger, che nasce dalla sua “indemoniata e furiosa febbre creativa”; pensato per la pubblicazione, ma anche per l’esecuzione e lo studio da parte delle Putte della Pietà, che erano brave e spesso anche carine, tanto è vero che, benché prete, Vivaldi se ne prende una in casa come segretaria.
Scandalo!
Lancia il concerto grosso; le sue innovative trovate musicali sono definite: “Istigazioni a delinquere contro il concerto grosso tradizionale”.
Parecchie di queste composizioni sono trascritte per cembalo da Bach, che è un suo estimatore.
Vivaldi ne compone una grande quantità. Stravinskij, che tanto tenero non era, diceva che Vivaldi aveva scritto 800 volte lo stesso concerto. Lui stesso dichiara di “saper scrivere un concerto strumentale, con tutte le sue parti, più velocemente di quanto ci metta a terminarlo un copista”.
Riceve l’incarico di insegnare violoncello alle putte, e questo lo spinge a scrivere anche per quello strumento, che all’epoca era ignorato da compositori ed esecutori.
Nel 1709 c’è una grande gelata. Le barche sono bloccate in laguna e la gente cammina sui canali. Grande festa e tanta musica. Arriva a Venezia Haendel. Si incontrano
1717: culmine della carriera di Vivaldi con la nomina a Direttore dei Concerti della Pietà, Musico di Corte del Conte Morzin e Maestro in Italia di Filippo d’Assia, con nientemeno che tre stipendi.
Pubblica con enorme successo “Le Quattro Stagioni”, che incorona definitivamente il suo nome e rimarrà, fino alla sua riscoperta, la sua opera più famosa, con la quale dà corpo definitivo alla musica descrittiva (in questo caso accompagnata da poesiole spesso derise dai critici, forse scritte da lui stesso, che usa per sottolinearne l’impostazione naturalistica): “Giunt’è la primavera e festosetti / la salutan gli augei con lieto canto, / e i fonti allo spirar de’ zefiretti / con dolce mormorio scorrono intanto /” …e così via primaverilmente cinguettando.
Vivaldi è ormai lanciato nel teatro. Fa tutto: allestimenti, scrittura, musica, assume cantanti e orchestre. Impresario di grande fortuna, va a Roma per l’Anno santo 1725 e viene presentato a Papa Benedetto XIII.
Ma torna presto a Venezia, dove incontra Goldoni, ma dove in questo periodo ha parecchi fastidi dai propri fratelli che sono dei mezzi imbroglioncelli, fanno pasticci e piccole truffe e gli creano imbarazzo.
E’ un periodo di splendore per Vivaldi e di enormi guadagli teatrali, tali che fanno scrivere a un cronista veneziano dell’epoca: “L’abbate don Antonio Vivaldi, eccellentissimo suonatore di violino, detto il Prete Rosso, stimato compositore di concerti, guadagnò ai suoi giorni 50.000 ducati, ma per sproporzionata prodigalità morì miserabile a Vienna”.
Proprio così: a un certo punto parte per Vienna e lì, non si sa come e perché (mancano notizie su questo brutto finale), muore il 28 luglio 1741 nella più assoluta miseria e viene sepolto come un pezzente con un funerale da 19 fiorini e le campane a metà, quelle da povero.
Franz Peter Schubert nasce povero (e muore povero a soli 31 anni) ma in una famiglia civile e nel paradiso della musica: Vienna.
Dodicesimo di 14 figli, di cui solo 5 diventano adulti; a quel tempo tanti bambini morivano prima di crescere, fra l’indifferenza di tutti: considerati poco più che gattini da rimpiazzare con il prossimo parto che spesso andava male, e allora si perdeva il bambino e anche la mamma.
Il padre è maestro di scuola in un’epoca in cui l’insegnamento della musica è obbligatorio in tutte le scuole dell’Austria.
Franz impara presto pianoforte, violino, organo e viola. A casa suonano tutti insieme, in quartetto o in trio.
E’ tanto precoce che uno dei suoi maestri dichiara: “Ogni volta che cerco di insegnargli qualcosa di nuovo, lui la sa già”.
Entra nel Regio Imperiale Convitto, esaminato e ammesso da Antonio Salieri, all’epoca ancora perseguitato dalle maldicenze sulla morte di Mozart, ed è così bravo che presto riceve un encomio solenne dalla segreteria dell’imperatore.
Al convitto si mangia poco e male e si dorme al freddo, ma ogni sera i ragazzi suonano una sinfonia e un paio di ouverture. D’estate i vicini si affollano sotto le finestre aperte per ascoltarli.
Conosce e corteggia Therese; il matrimonio non si fa perché lui è troppo povero. La ragazza sposa un panettiere non certo ricco ma con un mestiere, non come Schubert.
Dal 1814 al ‘16 fa anche lui il maestro di scuola, soprattutto per evitare il servizio militare, da cui la benemerita categoria è esentata, ma rimane povero come prima.
Sa scrivere lettere amabili e comincia presto a manifestare il suo carattere allegro e compagnone e la sua inclinazione per il bicchiere e il buon cibo.
Organizza spesso le “schubertiadi”, riunioni a base di bevute, musica e lettura di poesie fra amici, tutti maschi, di cui alcuni hanno fama di omosessuali: tolleranti e tollerati.
E’ festaiolo, beve molto ed è sempre in cerca di ragazze. Che lo evitano perché è malvestito, sporco e puzza.
E’ basso, tozzo, viso rotondo, naso largo, labbra tumide, mani grosse e dita corte. Lo chiamano “Schwimmerl”, funghetto.
Tira avanti con l’aiuto di un gruppo di amici che gli pagano la stampa della musica, (lui non è proprio capace di proporsi agli editori) e che poi gli pagheranno anche il funerale.
Nel 1818 è assunto per insegnare pianoforte alle due figlie del conte Esterhazy, a Zseliz. Non abita al castello ma nell’alloggio della servitù: “un posto tranquillo, tranne per quaranta oche rumorose, ma con una domestica molto graziosa”.
Probabilmente una delle poche avventure della sua vita, magari concausa della sifilide che Franz si prende fra le quaranta oche schiamazzanti o in uno dei bordelli che frequenta.
Fatto sta che ne muore, nel 1828.
Ha composto moltissimo. E’ considerato il maestro indiscusso dei lieder. Ne ha scritti seicento, molti su testi di Goethe, il quale peraltro ignorava regolarmente gli spartiti che Schubert gli mandava. Melodie che cantano l’amore deluso, disperato, appassionato, inespresso, focoso, struggente, ingenuo, impossibile.
Da tutti apprezzate, anche se con qualche dissenso, per esempio di Scriabin che giudicava i suoi pezzi “roba buona per essere pestata sui pianoforti dalle signorine”.
Ha scritto sei opere, nessuna eseguita o pubblicata. Ce n’è una che avrebbe potuto avere successo: “Claudine von Villabella”, se non che ne rimane solo il primo atto perché il secondo e il terzo furono usati dai domestici del suo amico Hottenbrenner, che custodiva l’unica copia del manoscritto, per accendere il fuoco nel camino.
Di lui Beethoven disse: “In questo ragazzo c’è la fiamma divina”; e lui lo venerò: fu addirittura fra quelli che ne portarono la bara al funerale.
Ci rimane la cronaca di un suo disastroso incontro, proprio con Beethoven, nel 1822.
“Accompagnato da Diabelli era andato a trovarlo portandogli una copia delle Variazioni per pianoforte a quattro mani che gli aveva dedicato. Timido e senza parole, davanti al grand’uomo si trovò in difficoltà. Quando Beethoven gli chiese di scrivere personalmente le risposte alle sue domande (il maestro era già sordo e corrispondeva con gli altri attraverso un taccuino), la sua mano paralizzata rifiutò di muoversi. Intanto Beethoven aveva dato un’occhiata alle Variazioni e, scoperta un’inesattezza, la segnalò con garbo al giovane, aggiungendo che si trattava di piccola cosa.
Schubert perse completamente il controllo, si precipitò fuori e, come un pazzo, cominciò a prendersi a pugni in testa e a insultarsi”.
Mai più trovò il coraggio di ripresentarsi al suo mito.
Il merito è tutto suo. O forse stiamo esagerando un po’?
Di Mozart stiamo parlando. Quando decise di mollare la sua posizione alla corte dell’Arcivescovo di Salisburgo di sicuro non si rendeva conto che stava cambiando il destino di tutti noi. Era la prima volta che un compositore del suo livello si scrollava di dosso quel vincolo di sudditanza alla Chiesa e ai nobili e decideva di lavorare come libero professionista, legato solo al mercato.
Di lì a poco questa nuova posizione sarebbe diventata il presupposto indispensabile per l'affermarsi in musica dell'individualismo romantico.
Ma non di questo vogliamo parlare, bensì del forse banale ma socialmente determinante meccanismo del compenso per la creatività artistica.
Fino all'epoca di Mozart, infatti, musicisti come lui e come suo padre Leopold, che non fossero suonatori da strada, trovavano una sistemazione solamente impiegandosi in pianta stabile presso una delle molte corti o istituzioni collegate; il loro ruolo era subalterno all'aristocrazia, equiparato a quello del personale di servizio. Leopold Mozart si era adattato a questo tipo di sistemazione e si aspettava che anche suo figlio facesse carriera come musicista di corte, magari in una corte più grande e più ricca di quella di Salisburgo; ma Wolfgang, quando fu maggiorenne, si ribellò alla schiavitù dei preti, dei nobili (e già che c’era anche a quella di suo padre).
Si può anche dire che perse la partita, ma intanto aveva aperto la strada.
Perché fino alla fine del ‘700 la musica, a parte quella di chiesa, era mero intrattenimento. L’artista autonomo che si affidava per il successo al pubblico non esisteva. I concerti a pagamento, le accademie, erano all’inizio. Per tradizione tutti i musicisti preferivano basarsi sullo stipendio di un principe. Era inconcepibile che un compositore potesse sopravvivere grazie al mercato, anche perché il diritto d’autore ancora non esisteva.
Il compositore di un’opera o di una sinfonia era pagato solo per la prima esecuzione, e da quel momento non vedeva più un centesimo per le repliche. Se il prodotto aveva successo, allora partiva un piccolo commercio di arie e brani staccati, ma la loro diffusione era un problema perché tutta la musica era copiata a mano. I veri padroni del mercato erano i copisti che spesso riuscivano a intercettare gli incassi. Talvolta erano anche compositori e completavano le partiture lasciate a metà dagli autori, (anche da Mozart, che così riusciva a comporre più velocemente, tanto le parti mancanti rientravano in modelli standard, facili da integrare). Leopoldo stesso fu copista per suo figlio.
I primi veri diritti d’autore arrivano grazie a Napoleone, a fine secolo. L’unico Mozart che vede due talleri è Carl Thomas, che nel 1844, 53 anni dopo la morte del padre si può permettere di acquistare un piccolo podere in Brianza con i diritti di alcune rappresentazione delle Nozze di Figaro in Francia.
Poi, con Beethoven, comincia ad affermarsi seriamente il compositore autonomo; e via, sempre meglio, fino a una data importante per gli italiani, il 1882, in cui viene fondata la Società degli Autori da Verdi, De Amicis, Carducci, Sonzogno, e altri importanti personaggi della cultura e dello spettacolo.
In seguito la leggenda di un Mozart morto in miseria fu smentita da studi che chiarirono come il compositore guadagnasse in realtà, nei suoi anni viennesi, cifre considerevoli; ma questo ricco, anche se non impetuoso fiume di denaro finiva sui tavoli da gioco e in un vortice di spese sconsiderate al quale, insieme a lui, partecipava allegramente e attivamente anche la Signora Mozart, Constanze.
Ecco il perché del funerale da poveri e della fossa comune.
Il Puntatore. Da anni, anzi decenni frequentiamo il mondo della musica, leggera e classica, e mai ci era capitato di incontrare questa figura: il puntatore.
Siamo a cavallo fra il sei e il settecento e dovunque fiorisce una quantità di cappelle musicali che oggi neanche ce le sogniamo. Cantare in un coro è ambizione di molti e soprattutto è un’attività che garantisce un salario sicuro in quei tempi difficili, anche perché, non essendo ammesse le donne, c’è posto pure per i ragazzi (e forse per qualche castrato in incognito).
La cappella musicale è composta dall’organista, dal coro e dal Maestro di Cappella. Accanto a questi, nominato a turno fra i cantori c’è il nostro personaggio, oscuro ma di grande potere: appunto il puntatore. Il suo ruolo è segnalare tutti coloro che trasgrediscono le regole e darne nota al camerlengo, il quale, “avanti di pagare il mese”, detrae l’ammontare della multa dal salario.
E le trasgressioni possono essere tantissime in un regolamento rigido e minuzioso. Rileggiamone alcuni articoli nel linguaggio pomposo e un po’ ridicolo del tempo, sempre tenendo presente che “se alcuno per domandar gratia a un prencipe mondano studia di compor se stesso & le sue parole con habito onesto, gesti decenti, parlar moderato, distintamente e con attentione, con tanta maggior diligenza in luogo sacro ciò convien di fare in pregare l’onnipotente Iddio”. Perciò:
“Non cominciar il versetto sin che l’altro non sia finito, et quelli che contrafaranno saranno multati in baiocchi cinque per ciascuna volta”.
“Nessuno dovrà tenere le labbra serrate, ma tutti nei salmi, hinni et cantici con allegrezza spirituale mandar voci di laude al signor Iddio, sotto pena di esser multati come absenti”.
“Quando si dice il Gloria Patri ogn’uno si cavi la beretta et inchini divotamente il capo”.
“Nessuno di essi cantori o cappellani debba partirsi di Choro (mentre durano li divini uffitij) senza espressa licenza, et al puntatore che altrimente concederà tal licenza, in giulij due per ciascuna volta”.
“Non vadino né stiano senza cotta et veste longa et habito clericale, etiam che fosse il giorno over la settimana sua vacante, sotto pena di giuli due per ciascuna volta; et stiano con quella gravità che si richiede, non confabulando o parlando insieme, sotto pena d’un giulio per ciascuna volta; et finiti gli uffitij divini ritornino a spogliarsi senza tumulto ne i luoghi loro ordinarij, sotto pena di baiocchi cinque per ciascuna volta”.
E c’è anche un premio per la delazione:
“Per la lor fatica i detti puntatori habbino, oltre la rata loro, a ragione del cinque per cento”.
Il Castrato. Gli amici gastronomi non ci fraintendano: non è a loro che ci rivolgiamo per descrivere le delizie di un gustoso animale che spesso frequenta le nostre tavole: braciolette, carrè, sella. Non a loro parliamo, ma agli amanti dell’opera; e le delizie a cui ci riferiamo non sono per le papille gustative ma per i timpani.
Si chiamavano Farinelli o Pacchierotti, erano stati evirati da piccoli in modo da bloccargli la muta della voce, ma non la crescita del corpo. Così da grandi sviluppavano un’emissione imitabile con il falsetto, ma certamente ineguagliata come timbro e potenza. Insomma, uno strumento fra la voce bianca e quella femminile, ma servito dal potente mantice dei polmoni di un uomo adulto. Erano amati, ammirati, applauditi dappertutto. Le rockstar del settecento. Nessun solista ha mai raggiunto la fama e la ricchezza di questi personaggi, che però, per arrivarci, avevano dovuto pagare un prezzo, diciamo così, un po’ salato. E non smettevano di pagarlo, facendo talvolta la triste fine dei fenomeni da baraccone.
Questo intervento era deciso non certo dal ragazzo, ma dai suoi genitori, nonni, tutori. Ed è umano che, una volta diventati famosi, tutti cercassero di spiegare, nella vita o nelle autobiografie, una situazione scabrosa come la loro con storie di cure mal condotte o accidenti fantasiosi se non addirittura inverosimili.
D’altra parte, pensiamo a quelle migliaia di ragazzini che, per colpa dei genitori, lo stesso prezzo lo pagavano ma senza avere in cambio il successo. E’ che all’epoca, per molte famiglie povere con un figlio minimamente dotato per la musica, questa era una delle poche speranze di sistemarsi.
Col tempo questa pratica incivile è stata abolita. Però, da appassionati, a noi rimane lo scontento di non aver mai potuto ascoltare direttamente quei fenomeni. Pazienza.
Detto questo, venisse a qualcuno la perniciosa idea di andare a sentire l’unica registrazione esistente (inizio ‘900) di un castrato, su You Tube c’è Alessandro Moreschi, l’ultimo sopravvissuto della categoria. Ammesso che sia autentica, è orripilante. Sembra di ascoltare una comare di mezza età, ubriaca e anche un po’ stonata. Forse è colpa dell’arcaicità dell’incisione, comunque consigliamo vivamente di soprassedere se si vuole tenere vivo il mito.
E invece è tutto vero
San Crisogono a Trastevere è una grande chiesa arcaica nei cui sotterranei si sgomitola tutto un groviglio di scale, pozzi, saloni e salette, muri di precedenti chiese con affreschi mezzo sbiaditi, scrostati mosaici romani, frammenti di colonne e sarcofagi vuoti.
Vuoti? Tutti tranne questo. Ci saranno dentro omeri e femori di almeno una dozzina di chissà quali morti. Proprio così: un mucchietto d’ossa buttate lì come in un bidone della spazzatura.
Fa un certo effetto, ma forse dovremmo prenderlo come un segno dell’insignificanza della vita nei tempi lunghi. E del fatto che prima o poi diventiamo tutti polvere (anzi, immondezza).
Al di là del fiume, a Sant’Agostino, ci imbattiamo in un Cristo, tutto il contrario del giovanottone nordico, biondo e muscoloso, che era l’iconografia del periodo.
Guardiamo questo, invece: bruno, bruttino, rachitichello e per niente maestoso, ma dolente, proprio come ce lo ha raccontato anni fa Pasolini nel suo Vangelo.
C’è da chiedersi come mai i committenti si siano accontentati di un’opera quasi blasfema come questa, con Gesù sorprendentemente accessoriato di un gran barbone nero, di peli sul torace, sotto le ascelle e perfino sull’addome.
E invece che dire di questo vezzosissimo Cristo in minigonna col pizzo, dalla chiesa del Domine quo vadis?
E non finisce qui.
Dalla profonda cripta di Santa Maria dell’Orazione e Morte a Via Giulia, una confraternita che si occupava di recuperare e dare sepoltura ai cadaveri degli annegati e dei morti ammazzati, all’epoca abbondanti, a quanto pare, sulle sponde del Tevere e per le strade di Roma, ecco un documento un po’ inconsueto.
Si tratta di un certificato di decesso stilato non su una vecchia pergamena o su un polveroso registro parrocchiale, ma direttamente sul defunto, anzi, più precisamente inciso sul suo cranio.
Per concludere, a Santa Maria della Vittoria, sul pavimento della Cappella Cornaro, sotto gli occhi estatici della Santa Teresa del Bernini, ci sono due mezzi morti (letteralmente) che se la ballano con stile.
O forse pregano? L’incertezza è d’obbligo con uno come il Cavaliere Gian Lorenzo che si faceva beffe degli interdetti del Concilio di Trento e ritraeva i suoi soggetti come gli pareva.
Sante preda di un rapimento potenzialmente equivoco e scheletri tagliati a metà, ma scatenati in mosse di danza.
Qualche giorno fa sulla stampa è uscito un succulento articolone intitolato: “Pranzo al Museo, e l’Arte è servita”. Si tratta di una esplorazione di tutti i ristoranti, bar o a nche tavole calde, aperti nei musei di Roma. “Caspita! - ci siamo detti, colpiti anche se un po’ diffidenti - ecco un tema che risveglia il nostro appetito e che vogliamo gustare con i nostri lettori”.
Però, fra collezioni irraggiungibili per riallestimento e nostri problemi di organizzazione, alla fine ci siamo trovati a non avere ancora niente da raccontarvi.
Ci scusiamo, vi promettiamo un indennizzo e vi proponiamo in sostituzione un articolo di tempo fa che ci sembra ancora attuale e interessante.
Roma, centro storico, domenica. Appena fuori da casa, ecco la grande colonna di granito grigio che sostiene l’angolo dell’edificio, sprofondata nel terreno fino alle cantine. Un salto dal giornalaio e contiamo una decina di colonnine usate come paracarri. Un cappuccino al bar che ha al centro della sala una colonna di meraviglioso marmo color crema lisciato da secoli di carezze; e finalmente una capatina in chiesa, dove c’è il meglio del meglio.
Questo, in una normalissima passeggiata di pochi metri. Colonnone e colonnine riutilizzate, magari dopo essere state sepolte per qualche secolo sotto la sabbia del fiume. Perché è così che sono spariti, e si sono salvati, un’inondazione dopo l’altra, i resti della magnifica architettura, e soprattutto dei magnifici materiali usati da Roma (un pezzo di cemento vecchio di venti anni è sbriciolato, scrostato, brutto; un pezzo di marmo vecchio di venti secoli è solo impolverato. Una sciacquatina e ridiventa splendido).
Bene, le colonne grandi, belle e in buono stato si sono trasferite nelle chiese, e sono centinaia; quelle rotte sono diventate paracarri e guardaportoni, e sono migliaia. Di tante altre siamo riusciti, con una piccola indagine, a ritrovare la destinazione.
Per esempio il pavimento di S. Agostino. Bellissimo, variopinto, lussuoso, ornato di losanghe, rombi e quadrati al centro dei quali ci sono perfette circonferenze di splendido marmo. Che non sono altro che fette di colonne tagliate come fossero salami e inserite nelle geometrie su cui si cammina.
E poi ci sono i portoni dei grandi palazzi nobiliari, papali, cardinalizi, che naturalmente hanno una soglia in cui sono scavati i solchi per le carrozze che entrando nel cortile dovevano seguire quelle guide per non andare a raschiare gli stipiti con i mozzi delle ruote.
Bene, quei monoliti su cui noi poggiamo i piedi meravigliandoci del bellissimo granito rosa o grigio di cui sono fatti, sono anche loro colonne (di qualche tempio, salone o peristilio), solo che invece di essere fatte a fette, sono tagliate per il lungo, in modo che la parte arrotondata vada adagiata sul terreno, mentre quella dritta rimanga a vista con, scalpellati nel fusto originale, i piccoli solchi antiscivolo per le pantofole dei cardinali e quelli grandi per le ruote delle carrozze.
E il meccanismo di questo recupero si capisce andando a cercare questo bellissimo frammento rilavorato di granito grigio, in cui si vede bene la curva della colonna nella parte di sotto e la lavorazione per la nuova destinazione in quella di sopra.
Lo trovate buttato a terra insieme ad altri marmi lungo il sentiero che porta alla Casina delle Civette di Villa Torlonia.
Siamo in piena era Pistoletto: commemorazioni, celebrazioni, mostra al Chiostro del Bramante; certo, quando si arriva a novant’anni…
Con l’occasione emerge dalle profondità del nostro archivio (2016, sette anni fa), bella impolverata, una cronachetta che facemmo in occasione di un evento alle terme di Caracalla intitolato “La Mela Reintegrata di Pistoletto”. Eccola:
In un profondo recesso nei sotterranei delle Terme di Caracalla, che non avremmo mai visto non fosse stato per questa occasione, eccolo, questo masso di marmo statuario di Carrara, non monolitico, come ci avevano fatto credere nella presentazione, ma assemblato. Che va bene lo stesso, intendiamoci, anche se qualunque forma scolpita in un unico blocco fa più effetto. Ancora di più se è molto grande (due metri e mezzo di diametro). Il contrasto fra i mattoni rosicchiati dai millenni, e il purissimo marmo bianco è di gran scena.
La mela è morsa e poi ricucita. Da Eva? “…partendo dal morso che rappresenta il distacco del genere umano dalla natura, la Mela Reintegrata rappresenta l’entrata in una nuova era nella quale mondo artificiale e mondo naturale si ricongiungono producendo un nuovo equilibrio planetario”. Pistoletto dixit.
Spiegazione non necessaria perché la mela è comunque bella per come è e per dove è stata piazzata, e non ha bisogno di aria fritta di supporto.
Sette anni dopo siamo di nuovo nei sotterranei di Caracalla, per un’altra mostra, stavolta con performance, di Yuval Avital.
Urla, lamenti, buio e dolore. L’artista multimediale (pittura, scultura, foto, suono, luce e buio) con “Lessico animale – Mysterion” crea un’opposizione fra la lussuosa quiete dei bagni e dei giardini superiori e la bestiale sofferenza degli schiavi che a centinaia lavoravano qui sotto.
E il giro, di grande emozione, (e diciamo anche a rischio d’inciampo, data l’oscurità) nel labirinto underground termina alla mela di Pistoletto, nel suo profondo recesso, un bel po’ più sporca e polverosa di quando l’avevamo vista sette anni fa.
Adesso usciamo dall’atmosfera claustrofobica dei sotterranei e andiamo a respirare sotto la chioma balsamica del magnifico cedro che riempie il cortile del Museo di Roma in Trastevere.
Qui troviamo il secondo grande vecchio: Armando Trovajoli (all’anagrafe Trovaioli, come specificato varie volte; chissà il perché di quella j aggiunta?) onorato con una mostra intitolata: “Una leggenda in musica”.
Spesso (anche in questo caso) le mostre sulla musica e i musicisti si risolvono in pareti cosparse di vecchie fotografie di colleghi musicisti, di vecchie immagini di registi e vecchie locandine dei loro film, di vecchie partiture e vecchie copertine di dischi; e quella che dovrebbe essere la protagonista, cioè la musica, che non si può mostrare ma bisogna ascoltare, diventa un confuso brusio di fondo in uscita da cuffie, altoparlanti o monitor TV.
In più questa volta abbiamo trovato discutibile il testo dell’invito all’evento diffuso da Zetema: “A dieci anni dalla scomparsa, Roma presenta la prima mostra che ricostruisce la lunga carriera artistica del maestro di musica leggera Armando Trovajoli (Roma 1917 – 2013), pianista, compositore e direttore d'orchestra italiano ecc. ecc.”
Ma perché una definizione così riduttiva come “maestro di musica leggera”? A guardare questa locandina, ci viene da dire che con quell’orchestrona sinfonica, quel fior di direttore e in più Santa Cecilia in persona sullo sfondo, tanto leggero Trovajoli non doveva essere.
E’ un periodo che amici, conoscenti, colleghi, tutti più o meno coetanei cominciano ad andarsene. La cosa un po’ ci preoccupa e allora ci siamo messi a consultare qualche statistica.
Nel mondo, di ultracentenari ormai ce ne sono a bizzeffe. Per restringere il campo andiamo a vedere i supercentenari, quelli con più di 110 anni, e loro sono circa mille (in Italia sono 3). Ce lo testimonia il Dottor Robert Young (eh? quando i cognomi ci si mettono anche loro!) capo del Centro di Ricerca Gerontologica di Los Angeles.
A marzo del 2018 ci ha lasciati il nostro campione nazionale di lunga vita (maschio, quindi ancor più meritevole) Gillo Dorfles, critico d’arte, pittore, scrittore e parecchio altro ancora. Essendo nato nel 1910, ne ha avuto di tempo per fare un bel po’ di cose.
Naturalmente, come era successo con la Levi Montalcini, quando muore un ultracentenario, e non uno di quei vecchietti rimbambiti che si vedono ogni tanto nei Tg regionali, ma un Premio Nobel o un intellettuale famoso, ci rispunta questa speranza di immortalità che in fondo è il mito di tutti noi umani.
Tanto forte è il nostro desiderio di arrivarci che da sempre e con grande successo, leggende, studi scientifici di dubbia serietà, ricerche geografiche viranti al new age e adesso anche la nostra grande mamma informatica, la rete, ci forniscono storie di popoli che hanno scoperto la formula della vita infinita.
Abbiamo i centenari del paesello sardo, quelli del villaggio del Caucaso e gli altri del pueblo sulle Ande.
Ma i più in gamba di tutti sono gli Hunza. Gli Hunza vivono in una inaccessibile vallata dell’Himalaya. Secondo i testi in rete, un’abbondante percentuale di questa brava gente campa come minimo un secolo. Alcuni arrivano ai centotrenta, e c’è chi ha raggiunto i centoquarantacinque anni. Per non parlare delle loro indomabili signore, capaci di generare fino a tarda età.
La formula? Naturalmente andare sempre a piedi, mangiare poco e sano, frutta e verdura non trattata, bere acqua dei ghiacciai, niente carne, fumo o alcool. Niente stress. Fare per tutta la vita un lavoro per il quale non serve il cervello: zappare, seminare, raccogliere.
Tranne questa trovata del cervello in pausa che ci vede un po’ scettici, tutto sacrosanto. Forse un tantino noioso, ma di sicuro sano.
Noi che il cervello cerchiamo di farlo andare, magari non sempre con successo, abbiamo un’altra teoria per spiegare tutti questi miracolati. Si sarà notato che, contrariamente a Dorfles che era di Trieste, perciò solidamente documentato, i vecchietti ultrasecolari abitano sempre in angoli sperduti del mondo, su vette irraggiungibili, o in fondo a vallate sconosciute.
Bene, la spiegazione del fenomeno è una sola, secondo noi: l’anagrafe. Nel senso che da quelle parti non ce n’è, e non ce n’è mai stata una.
Come si fa a certificare l’età di un anziano che dichiara di avere centoquarant’anni, quindi è nato, diciamo, nel 1883, in una sperduta valle del Karakorum? Facile inventarsele, le date, anche in buona fede. Il tempo, si sa, se è un concetto relativo per noi, figurarsi per quei signori che ne avranno di sicuro un’idea piuttosto fluida.
Però, siccome del mito abbiamo tutti bisogno, allora ce lo teniamo così: razionale o no.
Per ora. Poi, i futuri progressi della medicina, chissà…
La primavera sta per arrivare (così ci si illude di solito in questo periodo, proprio quando spesso capitano dei colpi di freddo da distruggerti il terrazzo) e con lei i primi richiami pubblicitari a viaggi e vacanze: tutto facile, economico, veloce e tranquillo. Oggi.
Invece, secoli fa, ecco a cosa andava incontro uno sconsiderato come Montaigne, che aveva deciso di raccontare i suoi viaggi non in territori inesplorati, ma dalla Francia all’Italia, due paesi civili della civile Europa del tempo.
La durata: non ore o giorni, ma mesi, anni. I mezzi: a piedi, a cavallo, oppure, massimo del lusso, una carrozza, ma solo per brevi percorsi perché le strade erano poche e cattive. Il resto, sentieri. E si viaggiava solo di giorno: il mondo era buio, fuori e nelle case.
Oggi ci piacciono le cene a lume di candela che ci isolano in un cerchio magico, tutto intorno la penombra. Ma quello che funziona adesso per i momenti romantici, non era affatto comodo allora per la vita quotidiana delle famiglie. Si andava a dormire al tramonto e ci si alzava all’alba. L’unica luce era quella del camino. I pochi che leggevano col moccolo ci rimettevano gli occhi e la salute (vedi Leopardi).
In viaggio un gentiluomo, come appunto Montaigne, si portava dietro, oltre al proprio cavallo, un mulo per il bagaglio, un cameriere, un mulattiere e due lacchè a piedi. Più, molto spesso, materassi, biancheria e coperte, stoviglie e provviste. Perché le locande erano infami, gli osti imbroglioni, e non c’era da scegliere. Finestre senza vetri, piatti di legno o terracotta sporchi, tavolacci su cui era meglio dormire senza lenzuola, federe o pagliericcio, perché così si evitavano cimici e pulci.
Brevi tappe percorse ogni giorno, per di più calcolate in misure diverse da luogo a luogo: lega di Guascogna, lega di Francia, lega tedesca; miglio italiano (ce ne volevano 5 per farne uno tedesco), spanne, piedi, braccia, cubiti, lance, passi.
Si viaggiava con il contante in borsa, scambiandolo in una girandola di valute locali: scudi, fiorini, soldi, lire, talleri, reali, giuli, zecchini, paoli, grossi, denari, baiocchi. Niente assegni o carte di credito, quindi continui rischi di rapina.
E naturalmente ognuno degli innumerevoli staterelli da attraversare richiedeva passaporti, bollette di alloggio con il numero di signori, servitori e bestie in transito, senza le quali non si trovava da dormire e da mangiare. Qualche volta servivano anche le bollette di sanità, se si arrivava da dove c’era o si credeva che ci fosse qualche pestilenza. E nel bagaglio erano attentamente controllati e al caso sequestrati anche i libri, oggetti rari, costosi e all’epoca molto sospetti, soprattutto di eresia.
Una parola sull’igiene: “Nelle città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame e rifiuti, i cortili interni di urina e feci, le scale di legno marcio e sterco di topi, le cucine di cavolo andato a male e grasso rancido, le camere da letto di lenzuola bisunte e vasi da notte. La gente puzzava di sudore e di vestiti sporchi, le bocche di denti fradici e i corpi di pustole e scabbia; il contadino puzzava come il prete, puzzava tutta la nobiltà. Perfino il re puzzava come un animale e la regina come una vecchia capra, sia d’estate che d’inverno. Insomma, non c’era attività umana che non fosse accompagnata dalla puzza” (Süskind: “Il profumo”).
Ma poi, arrivato a Roma, Montaigne riferisce (con uno stupore che conferma essere i fatti precedentemente citati la normalità) di una cena al palazzo di un cardinale, in cui “tutti si sono lavati le mani prima del pasto!”
Chiudiamo con una sua segnalazione, tanto per sapere come regolarsi, della migliore locanda d’Italia, che è “La Posta” di Piacenza, e la peggiore: “Il Falcone” di Pavia, dove si paga a parte la legna per il camino, la biancheria e il materasso.
Forse, essendo passati diversi secoli, non sono più indicazioni tanto attendibili.
21 febbraio 2023, tardo pomeriggio, temperatura mite, Roma amabile; ci troviamo a salire i centotrentasei gradini della scalinata di Piazza di Spagna, per poi girare a sinistra e, raggiunta Villa Medici, farcene un’altra sessantina per arrivare alla saletta cinema dove, preceduta dall’esecuzione di un brano per viola del compositore Giacinto Scelsi, ci è stata offerta la proiezione del docufilm “Il primo moto dell’immobile” di Sebastiano D’Ayala sulla vita e la musica dello stesso Scelsi.
Impossibile giudicare la qualità dell’esecuzione della musica di apertura, da parte di Francesca Verga: priva (la musica stessa, non Francesca) di un filo narrativo, di una melodia, perfino di apparenti esigenze di intonazione. Cosa se ne può dire (al di fuori di una eventuale godimento esclusivamente sonoro)? O piace o non piace.
Il filmato, fatto di normali immagini, idee e parole ci è parso bello ed emozionante.
E in più il nome del suo protagonista ci fornisce l’aggancio per andare a recuperare un articoletto, direttamente collegato a lui, da noi pubblicato l’otto giugno del duemilaquindici con il titolo INVIDIA. Eccolo:
Proprio così, l’invidia è stata il primo inconfessabile sentimento che ci è salito in gola quando, giovedì, siamo approdati sulla terrazza della Fondazione Scelsi a Via San Teodoro. E non è difficile capire perché.
Quello che appare nelle foto è solo metà del panorama che si vede da lassù. A sinistra, niente di meno che il tempio di Antonino e Faustina, quello dei Dioscuri, quello di Romolo e la Basilica di Massenzio.
A destra, niente di meno che la chiesa di San Teodoro e la rupe del Palatino, con mura dirute e cipressi.
L’altra metà del panorama è dietro le nostre spalle, e comprende, sempre niente di meno che, il Campidoglio, l’Altare della Patria, e poi il Foro e la colonna di Traiano, l’arco di Settimio Severo, tetti, cupole, campanili, terrazze fiorite.
In più il sole tramonta nel quadrante giusto e così facendo illumina i monumenti di quella speciale luce dorata di Roma.
E con loro illumina il relatore Giancarlo Schiaffini, esimio compositore, trombonista e tubista, da sempre compromesso con la Musica Contemporanea.
Ci aspettava per parlarci di “Improvvisazione per scrivere, scrivere per improvvisare, improvvisare per improvvisare”. L’uomo è un paradossale (come si può dedurre dal titolo dell’incontro), garbato e interessante affabulatore. Ci ha tenuti incatenati alle sedie per due ore, certo con l’aiuto del panorama, ma anche della “sua capacità di snocciolare con semplicità tutta la sua conoscenza ed esperienza”: dichiarazione della direttrice nel presentarlo.
Ci ha offerto un bel ripasso di storia dell’improvvisazione nella musica colta occidentale: dalla pratica sei-settecentesca del basso numerato con il solista al timone di comando, poi decaduta e passata dalla totale libertà di prima all’imbalsamazione di tutto l’ottocento; alla rinascita a inizio novecento nel jazz, al definitivo riemergere, a metà del secolo, nella Contemporanea.
Da buon maestro ci ha ricordato che anche in musica puoi avere grandi idee, ma se non hai la tecnica in mano non farai certo grandi cose. Tanto meno se improvvisi.
E poi, per tornare al nostro argomento di partenza, Schiaffini ha imbracciato un euphonium (una specie di basso tuba in formato ridotto) e ci ha suonato “Maknongan” un brano di Giacinto Scelsi, il padrone di casa da tempo dipartito, a cui la fondazione è dedicata.
Il glorioso tramonto romano, sui colori del quale ci siamo già soffermati, avvolgeva il solista abbracciato al suo lucido strumento. Il quale, e non ce ne voglia l’amico Schiaffini, per sua natura (dello strumento, non di Schiaffini), e specialmente come solista (sempre lo strumento), non può che emettere, sollecitato dal soffio dell’esecutore, sonore, talvolta vellutate, magari anche melodiose pernacchie.
Tutto intorno alla terrazza, nel dorato tramonto, volteggiavano sghignazzando i gabbiani.
E’ chiaro che il verso del gabbiano non ha alcuna connotazione critica. E’ nella sua natura emettere un richiamo che alle nostre orecchie suona come uno sghignazzo. Lui, ne siamo certi, non se ne rende conto. E soprattutto è garantito che non ha alcuna competenza sull’improvvisazione nella musica contemporanea.
A fine esecuzione si è alzato l’atteso ponentino, altra pregiata esclusiva di Roma, e la fondazione Scelsi, oltre al panorama, di cui non ci stancheremmo mai di parlare, che nel frattempo si era tinto di lilla, e poi di ombre azzurre, ci ha fatto omaggio di un calice di ottimo prosecco ben gelato. Non volevamo più andarcene.
Il Circo Massimo è sempre presente nella vita dei romani, nella normalità e nell’emergenza; la normalità è il traffico, l’emergenza è sempre il traffico, che però si spalma tutto intorno, senza perdere di viscosità, quando ci sono i concertoni: di Capodanno, di Ferragosto, e di altre feste comandate. A questo proposito, l’ultimo pettegolezzo, ormai superato, che ci ha tenuti con il fiato sospeso è stata la trepidazione sulla presenza, il 31 dicembre scorso, della cantante Madame, una poveretta che si era fatta coinvolgere in qualche piccola truffa sulle vaccinazioni anticovid. Una no vax scandalosa, poi perdonata e riammessa sul palcoscenico. Robetta.
Però, che caduta di stile rispetto ai vecchi fasti.
Certo il mattone invecchia meglio del cemento, i millenni danno dignità a qualunque struttura; vedere queste rovine rosseggiare nel sole del pomeriggio al di là della fossa del Circo Massimo riempie gli occhi di chi passa con la maestà della grande architettura imperiale. Eppure quella fila di doppi archi che si stagliano impettiti sulla destra, sono ciò che resta di una vera a propria violenza al paesaggio da parte dell’imperatore Settimio Severo.
Il quale, essendosi fatto venire la voglia di ampliare il complesso dei palazzi di abitazione e rappresentanza imperiali che già coprivano diversi ettari, evidentemente non abbastanza per lui, ed essendo ormai esaurito lo spazio sul colle Palatino, pensò bene di prolungarlo, il colle, e sostituire il terreno mancante con questa pesante quinta di mattoni: una piattaforma sulla quale poi edificò effettivamente la sua nuova ala.
Tutto il marmo, i bronzi e gli altri materiali preziosi se ne sono andati, rapinati dagli straccioni del medio evo, ma anche da illuminati papi del Rinascimento, come Sisto Quinto, che non si fece scrupolo di scippare le ultime colonne rimaste in piedi per riutilizzarle nel Fontanone; bene, certo, ma senza rispetto per la loro storia.
Oggi di quel gran corpo solenne rimane lo scheletro, in origine destinato a starsene nascosto, che ancora ci affascina con la sua molto restaurata imponenza. Ma sempre un ecomostro è.
Il Claudio è di sicuro il più maestoso e bello di tutti gli acquedotti romani. Anche se è lui il secondo ecomostro vintage che vogliamo raccontare. O meglio, non è lui nella sua versione originale: una infinita fila di archi, perfetta opera d’arte ingegneristica messa insieme senza neanche un cucchiaino di calce, con massicci conci di tufo tagliati tanto bene che ancora adesso sembrano saldati.
L’ecomostro nasce quando il capolavoro originale, insieme all’Impero, comincia a vacillare. Passa un secolo, ne passa un altro, gli archi, per quanto ben costruiti, cedono ed ecco apparire i rinforzi in mattoni e malta che, d’accordo, ne rovinano l’estetica ma almeno li tengono in piedi.
Con gli acquedotti ormai senz’acqua, quei macigni tagliati così bene, si sono trasformati in un ghiotto bottino per tutti. E allora inizia lo smantellamento: i rinforzi di mattoni, inutilizzabili, rimangono ma i bei massi di tufo, assolutamente non ottenibili con la misera tecnologia del tempo, cominciano a scomparire.
E così miglia intere di quella maestosa opera svaniscono, ma lasciano un’immagine precisa, come in questo tratto vicino a Tor Fiscale, dove i grandiosi archi di tufo non ci sono più, ma ne è rimasta la traccia, nella forma dei sostegni che non sostengono più niente, residua massa smozzicata di mattoni e calce.
E finalmente ecco la perfetta testimonianza finale della grande rapina: questo rudere ancora in piedi a Porta Furba.
Che è un arco isolato dell’Acquedotto Claudio. Cioè, lo sarebbe, perché l’arco non c’è più. E’ rimasta la sua impronta in negativo: i muri di emergenza in mattoni costruiti a sostegno dei pilastri, che mostrano ancora l’impronta dei famosi tufi così ben tagliati, e la curva, sempre in mattoni, su cui poggiava l’arco a sostegno del condotto dell’acqua.
Praticamente l’ombra di un lavoro di giganti sbriciolato da insolenti implacabili formiche.
Ma l’idea è ancora lì, intatta e maestosa.
Gli spettacoli non sono più quelli di una volta!” Battuta da nonno davanti al televisore. Ci è quasi scappata dopo esserci sorbiti le troppo lunghe serate del Festival di Sanremo.
Tranquilli, non abbiamo intenzione di lanciarci in una approfondita o superficiale analisi musicale o anche solo spettacolare del prodotto presentato quest’anno, in gara e fuori, sul palcoscenico più famoso della nazione.
I cronisti non lesinano in drammaticità quando commentano le battaglie fra concorrenti, le sorprese, i colpi di scena, spesso così bene orchestrati che c’è da sospettare un’accorta regia al losco fine di aumentare la presa sul pubblico.
Effettivamente al Teatro Ariston la tensione si spreca, le carriere sono a rischio, la possibilità di perdere la faccia e i contratti è concreta…
Vediamo, a proposito di situazioni spettacolari un po’ più intense, il programma di un altro teatro, di un genere diverso: più grande, più bello, ancora più famoso, tutto marmi e bronzi; in un tempo lontanissimo da noi, con la certezza per i partecipanti all’evento di perderci non solo la faccia, ma anche la pelle.
Dunque, ecco la locandina di un giorno di festa al Colosseo.
Mattino: combattimenti di animali selvaggi, uno contro l’altro o a gruppi, e battute di caccia in grandiose scenografie. I numeri degli animali sterminati per il divertimento del pubblico sono terrificanti.
Sotto Pompeo, venti elefanti, seicento leoni, quattrocentodieci leopardi, e scimmie a non finire. Con Augusto, tremilacinquecento bestie da preda. Per l’inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio, in tutto novemila. Undicimila sotto Traiano. L’estinzione di parecchie specie asiatiche e africane è cominciata negli anfiteatri dell’Impero.
Alla fine della mattinata l’arena trabocca di bestie (e uomini) sbudellati in mezzo a un fetore di sangue e interiora.
Presto tutto deve essere ripulito per la seconda parte del programma: le esecuzioni dei condannati a morte. Che sono spettacolari, per dare l’esempio certamente, ma anche per soddisfare il gusto sadico della folla.
Uomini messi a duellare e ammazzarsi fra loro, crocefissi, cosparsi di pece e bruciati, fatti divorare vivi dalle belve, addirittura costretti a rappresentare i miti della tradizione (quelli senza lieto fine, naturalmente), indossando il costume del personaggio per concludere la recita ammazzati in modi molto pittoreschi e molto graditi al pubblico.
Dopo di che un simpatico personaggio con la maschera di Caronte va in giro per l’arena menando gran colpi di mazza in testa ai caduti per accertarsi che siano morti per davvero, e solo allora un suo compare aggancia i corpi con un uncino e li trascina fuori. Anche loro a centinaia.
A questo punto, di nuovo l’anfiteatro è pieno di sangue, viscere e cervelli.
Ancora una veloce pulizia, perché è ormai pomeriggio e devono cominciare i duelli dei gladiatori, pezzo forte del programma, che vanno avanti fino al tramonto. Inutile continuare la descrizione della carneficina. Basti dire che per gli spettacoli importanti erano parecchie centinaia, se non migliaia le coppie che combattevano; e molto, ma molto pochi quelli che riuscivano a salvare la vita. Altri cadaveri a mucchi nell’arena.
In pratica i bravi cittadini romani andavano allo stadio per vedere ammazzare. Uomini e bestie. Che bella, civilissima festa della morte.
Piccola nota di colore: pare che parecchi imperatori, fra cui Commodo e Settimio Severo si divertissero a combattere (in tuta sicurezza, ovvio) anche loro nell’arena.
Sarebbe un po’ come immaginare, oggi, Amadeus che scende al centro dell’anfiteatro per presentare l’ultimo gladiatore, circondato da un branco di leoni affamati.
La Crypta Balbi è un museo di scultura, storia e artigianato interessantissimo ma poco frequentato, dove è esposto (anche se in maniera piuttosto maldestra) il più bel capitello che ci sia mai caduto sotto gli occhi.
In un recente paginone di Repubblica si annuncia un progetto di restauro milionario e il ripensamento dell’intera struttura, che dovrebbe portare alla creazione di baretti e ristorantini, insieme ad aree di sosta, incontro e riflessione; insomma tutte quelle civili comodità che per ora in questo, come in quasi tutti gli altri musei di Roma, non ci sono; infatti spesso una visita perde la sua piacevolezza e diventa una via crucis.
Chissà perché, hanno deciso di farci un dispetto. Vuoi sederti un attimo a riposare? Mai: in piedi e trottare! Vuoi confortarti con qualcosa di caldo? In castigo: niente cappuccino! La cultura è fatica. Giusto ogni tanto, vicino ai gabinetti, c’è qualche macchinetta a gettone per farsi passare la sete.
Andiamo al Maxxi, un museo più moderno, dove qualche giorno fa abbiamo deciso di punirci con una capatina alla mostra di pittura e scultura di un certo Bob Dylan (che secondo noi farebbe bene a limitarsi all’altra sua attività).
Il bar c’è, e anche bello, ma guai a pensare di ordinare qualcosa di più interessante che un solitario tramezzino. Chissà perché un’attività di ristorazione dentro un museo non è pensata come un esercizio che deve, e può, funzionare bene, fornendo al pubblico merce di buona qualità, guadagnando il giusto come avviene nel resto della città. Anche questo è un dispetto.
E le fioriere per strada? Qualunque tipo di pianta, anche la più tosta, ingiallisce e poi muore in poco tempo. Che strano: evidentemente i giardinieri non si ricordano che, se non innaffiate, le piante fanno questa fine; anche, appunto, le più toste.
Dispetto ai nostri danni, ai danni della città, delle istituzioni (qui siamo al Senato) e anche ai danni loro, dei giardinieri, che le tasse comunque gliele trattengono sullo stipendio; ma, è chiaro, questo pensiero neanche gli passa per la proverbiale anticamera del cervello.
Stanno sistemando gli scavi di Torre Argentina per renderli accessibili in futuro. Cosa ci sarebbe di più divertente (e innocuo per l’ordine pubblico) di potersi affacciare alla balaustra e osservare i lavori dall’alto?
Niente, il Comune ha deciso di farci un altro dispetto: tutto è nascosto da un telone alto un paio di metri, imperforabile perfino con quella chiave puntuta che tutti noi abbiamo attaccata al mazzo che portiamo in tasca.
Ma quale segreto c’è da proteggere? Perché un passante benintenzionato non può guardare? E infatti in questa tristissima immagine (siamo in pieno giorno e in pieno Centro Storico di Roma) quello che potrebbe essere un divertente balcone sull’archeologia e un punto di incontro di cittadini interessati o di turisti curiosi diventa uno spazio sprecato, occupato da un monopattino, due persone distratte sedute di spalle, un netturbino al lavoro e basta.
Sconsolati entriamo in una delle tante chiese di Roma. Sono quasi tutte barocche, alcune barocchissime; e che musica ci arriva dagli altoparlanti nascosti dietro le colonne? Un arcaico canto gregoriano che più medievale non si può, altro che barocco. Dispetto della Curia? del Vaticano? del parroco?
In compenso se ce ne andiamo a zonzo per il Palatino, palcoscenico della memoria di Roma antica, il commento sonoro, che arriva anche qui da fonti nascoste nei prati, è affidato a squisite frivolezze vivaldiane che richiamano le loro brave atmosfere settecentesche, decisamente fuori epoca rispetto ai marmi e alle colonne imperiali. Dispetto.
Forse in realtà non c’è cattiva volontà da parte delle istituzioni o dei privati. Allora ci tocca dar la colpa alle pessime abitudini della città, alla mancanza di cultura; magari, peggio, alla diffusa stupidità di chi decide e sceglie.
Nei giorni scorsi si è affacciata sulla stampa la notizia che Steven Spielberg si dichiara pentito di avere provocato con il suo film di grandissimo successo la paura e l’odio degli umani con relativo stupido sterminio di tanti squali innocenti.
Abbiamo cercato di soffocare il sospetto in agguato nel profondo della nostra anima malfidata, che questa non richiesta manifestazione di buonismo sia solo un rigurgito di narcisismo camuffato, tanto per far parlare ancora un po’ di sé (e davvero non ne avrebbe bisogno).
Speriamo di sbagliarci. In ogni caso questa riflessione sui danni provocati alla natura dalla stupidità umana ci ha immerso in una ricerca che ci ha portati a scoprire la potenza della stupidità stessa, soprattutto se antica e contrabbandata per sapienza.
Appunto. Avranno anche una delle più antiche civiltà del mondo, ma su certi argomenti sono proprio degli stupidi creduloni.
Parliamo dei cinesi e delle loro antiche fissazioni mediche e alimentari. Che mettono a rischio un numero esagerato di infelici bestie, molte delle quali hanno ormai una zampa nella fossa.
Sono i poveri rinoceronti, quasi sterminati, il cui corno tritato, secondo i creduloni farebbe passare la febbre e le convulsioni. Ed è afrodisiaco. In realtà si tratta di normale cheratina; come dire che mangiarsi le unghie fa bene alla virilità.
E sono i poveri orsi, tenuti per tutta la vita in gabbie dove non possono neanche alzarsi in piedi, con infilata nella pancia una cannula aperta in permanenza per raccogliere la bile, che gli stupidi anti-chi credono faccia passare la congiuntivite e l’epatite. E in più, alla fine, gli tagliano i piedi, a questi orsi condannati, e se li mangiano in guazzetto contro l’artrite e l’impotenza.
E sono i poveri pescicani, a cui i pescatori tagliano le pinne e poi li ributtano in acqua dove affogano dato che non riescono più a nuotare dritti, perché ai superstiziosi gastronomi creduloni piace la zuppa con cui pensano di curare il cancro e recuperare la virilità.
E sono le povere tigri, le cui ossa tritate servono contro le infiammazioni e l’osteoporosi, e il cui pene seccato, fritto e sgranocchiato i creduloni cretini credono che aumenti la virilità.
E giù con scorpacciate di testicoli di caproni, membri di alce, scroti di non si sa chi altro. In-somma la tradizionale superstizione per cui se mangi qualcosa o qualcuno, incorpori le sue qualità.
Una teoria davvero all’avanguardia, non c’è che dire.
Insomma, la infiacchita virilità dei maschi cinesi è da sempre un pericolo letteralmente mortale per un sacco di animaletti e animaloni che, senza le smanie di questi incivili, se ne starebbero tranquilli per conto loro e non darebbero fastidio a nessuno.
Notizia di qualche tempo fa: un articolo allarmatissimo denuncia che al mondo rimangono solo 30 focene della California. E per colpa di chi? Dei creduloni dall’altra parte del mondo.
Non perché gli piacciano i filetti di focena. No, la faccenda è un po’ più complicata. Ai cinesi piace la vescica natatoria essiccata dei totoaba, pesci che vivono nello stesso mare delle focene, per loro sfortuna (delle focene).
Li pescano con reti di profondità in cui, oltre a loro, anche le focene rimangono impigliate e affogano: mammiferi della famiglia dei delfini, ogni tanto devono risalire per respirare.
E come mai questa vescica natatoria dei totoaba sul mercato clandestino vale più del corno di rinoceronte? Ma naturalmente perché è afrodisiaca.
Per fortuna (sempre delle focene) la California è in USA, dove ogni tanto c’è qualcuno che apre il portafoglio e le imprese umanitarie vanno a buon fine. Hanno organizzato una grande battuta (con la collaborazione di quattro delfini addestrati), per radunare le poverette in via di estinzione e portar-le in una zona sicura. Con tutti i dubbi sulla riuscita del raduno e sulla capacità di questi sfortunati animali di sopravvivere a una prigione, anche se dorata, in cui li rinchiuderanno per salvarli.
Però almeno ci provano. E a quei dementi che ancora sguazzano nel loro medioevo di cucina e medicina mescolate con magia e superstizione, cosa possiamo dire?
Niente, sono più di un miliardo e non di buon carattere: è meglio stare attenti a come si parla.
Roma, chiesa di S. Maria dell’Anima. Scolpiti nel marmo, intagliati nel legno, modellati in stucco o dipinti: 2 teschi con femori, 7 teschi semplici, 2 teschi alati dall’aria mansueta, 1 scheletro intero, 1 clessidra (tempus fugit).
S. Agostino: 3 teschi semplici, 2 teschi alati con riccioli ribelli, corona d’alloro e aria strafottente.
S. Lorenzo in Damaso, la chiesa più buia di Roma: un immenso scheletro alato che si libra fieramente tutto bianco su un fondo di marmo nerissimo. Impressionante.
S. Maria sopra Minerva: anche qui un bello scheletro che abbraccia l’ovale con il ritratto del caro estinto. Più quattro teschi semplici, tre teschi con femori e ben sei femori incrociati senza teschio.
S. Pietro in Vincoli, due scheletri accompagnatori del caro estinto.
S. Maria Maddalena: uno scheletrone (vero, non di marmo) completo.
E così via in un allegro inventario cattolico apostolico romano.
Vale la pena di soffermarci un po’ a cercare di capire il ruolo che l’arte funeraria, soprattutto quella barocca dà allo scheletro nella messa in scena della sepoltura.
E’ ovviamente il personaggio principale della rappresentazione della vita e della morte. Un attore che, per come viene presentato sulla ribalta e grazie alla sua tradizionale caratterizzazione macabra fa riflettere.
Non ci si era mai pensato prima del barocco, a questo tipo di simbolo, e non ci si è più pensato dopo. Ma durante quel tempo del superfluo, dell’eccesso, del teatrale è stato un grande protagonista.
Dunque, agli scheletri di servizio in chiesa viene affidato l’incarico di stupire, informare, educare i fedeli a non prendere troppo alla leggera la morte e il peccato: c’è sempre in agguato la punizione. Tutto attraverso la fantasia, davvero scalpitante, degli artisti dell’epoca.
Santa Romana Chiesa per un lungo periodo ha tenuto nascosti i suoi scheletri nei cimiteri. Poi non ce l’ha più fatta e a un certo punto (forse per far rabbia a Lutero, ai tempi della Controriforma), ha cominciato a piazzarli sulle tombe in chiesa, sotto gli occhi di tutti, a scopo dimostrativo, ammaestrativo e, diremmo, anche terroristico.
Scheletri, mezzi scheletri e quando non c’era abbastanza spazio, teschi con tutti i ghigni possibili, coi femori incrociati o no, e coi simboli del tempo che passa e della fine che incombe: clessidre, falci e ossute dita puntate.
Per non trascurare le tante macabre reliquie, che, sotto forma di reperti fisiologici più o meno incartapecoriti promettevano la salvezza eterna ai fedeli dell’abbazia e succulenti incassi agli osti e agli albergatori dei dintorni.
Insomma: non dimenticate, o fedeli, che questa bella punizione tocca a tutti.
Per fortuna non sono mai mancati gli artisti che, magari alle spalle del committente si divertivano a infilare in queste rappresentazioni punitive imposte dall’alto qualche trovata irrispettosa, anche blasfema, ma sicuramente sempre teatrale.
E’ un po’ un richiamo alla burla di Bernini ai danni della Chiesa quando riuscì per ben due volte a gabellare un’estasi chiaramente profanissima per qualcosa di mistico e spirituale.
Bravo Gian Lorenzo!
La nudità nell’arte è sempre stata un problema di esibizione che andava controllata a seconda dei periodi, dei costumi e soprattutto delle implicazioni religiose.
Lo hanno fatto tutti. E come? Nell’epoca classica, senza scandalo, riducendo, per i nudi maschili, la dimensione dei genitali a ridicole taglie infantili, anche su omoni dalla muscolatura imponente. Per le signore è sempre stato molto più facile: bastava rappresentare la zona incriminata completamente glabra, scansando ogni suggerimento esplicito.
Poi, dopo il momento di pudicizia del medioevo (tutti infagottati in tonache e cappucci), col rinascimento sono tornati i nudi, spesso obbligati a calzare i famosi braghettoni del povero e da allora sempre vituperato pur essendo anche un buon pittore, Daniele da Volterra.
Ma la vera arma letale è stata la foglia di fico, abile trucco di facile installazione sulle vergognose anche se miniaturizzate pudenda delle statue antiche: una toppa di bronzo, magari dorato, e via. Poi, in casi particolarmente scabrosi, entrava in funzione lo scalpello.
Questa faccenda dello scandalo è cominciata appena qualche vecchio prete complessato si è seduto al posto di comando. Il committente delle braghe sul Giudizio fu appunto un vecchio prete, Pio IV, appena uscito dal funesto Concilio di Trento, che dichiarò la visione di quegli organi, anche se resi infantili, un grave pericolo per la sensibilità di ogni buon cattolico.
Anche la bellezza più casta faceva infuriare i talebani cristiani dei primi tempi, quando Roma Imperiale non era ancora svanita. Un profondo dolore ci annienta ogni volta che capitiamo nella sala di Palazzo Altemps dove è esposta questa meravigliosa Lucilla, figlia di Marco Aurelio ma soprattutto donna e bella, quindi veicolo di Satana, quindi debitamente sfregiata a colpi di mazza da qualche fanatico, di quelli che, appena diventata abbastanza forte la loro mortificante religione, si erano scatenati a distruggere tutto ciò che ricordava il passato pagano, e soprattutto rappresentava il bello.
L’intervento sugli omaccioni di Michelangelo, benché sottodotati, poteva anche avere un senso.
Perplessi, invece, lo siamo quando a essere colpiti sono i pubi innocenti di putti e angioletti (sempre maschi; putte o angiolette non erano previste?), la cui attrezzatura tutto è tranne che stimolatrice di turbe sessuali.
Un perfetto esempio e una campionatura completa di questo accanimento si trova a San Pietro in Montorio.
Le cappelle principali ai lati dell’abside sono precedute da magnifiche balaustre di marmo, ornate ognuna da due coppie di putti di squisita fattura, devastati da ambigue ferite che risalgono non sappiamo bene a quando, ma che hanno lasciato immonde cicatrici.
Otto innocentissimi angioletti. Poveri bambini: chi violato da osceni impacchi di gesso, chi con macchie di ruggine colate da perizomi di metallo, chi con tamponature scure, chi addirittura con i peccaminosi pisellini raschiati via e ridotti a foruncoli arrossati.
Una nudità che più innocente di così non poteva essere, ma veleno per qualche malpensante.
Si è inaugurata qualche giorno fa alla Galleria d’Arte Moderna di Roma una mostra su Domenico Morelli, pittore napoletano dell’800, il cui capolavoro di grande formato “Le tentazioni di S. Antonio” riempiva una parete.
E’ un bellissimo quadro, dicono gli storici dell’arte; e noi aggiungiamo che è anche molto chiaramente indicativo di quello che la Chiesa intende quando parla di tentazioni.
Non oro, non potere, ma sesso. Sex and the Church; basta guardare la fanciulla discinta e popputa che fa capolino sotto la stuoia del povero Santo, accovacciato lì accanto, spaventatissimo. E quell’altra, sullo sfondo, furbetta in attesa di vedere come va a finire…
Certe poppe sono peccaminose, altre no. Ci riferiamo naturalmente a quelle che servono per allattare; possibilmente Gesù Bambino, ma anche altri santi neonati, perfino neonati non santi, la cui presenza neutralizza quella del maligno, che su ogni centimetro di pelle nuda, specialmente nei dintorni di zone sensibili, è capace di imbastire una deriva malandrina.
Quindi a questo proposito, visto che non si possono ignorare, parliamo di quelle della Madonna, parliamo del lattante e, già che ci siamo, di anatomia.
Questa non è un’analisi artistica, è solo il resoconto dello stupore che ci prende all’osservare le Maternità della pittura prerinascimentale. Rappresentazioni in cui l’anatomia, addirittura la semplice osservazione dal vero, decollano verso orizzonti sconosciuti.
Sì perché i Bambinelli (spesso dipinti come adolescenti ben oltre l’età dell’allattamento, ma sempre miniaturizzati alla taglia di un poppante), stanno attaccati a sacre mammelle che, fra drappi e manti, fanno capolino da una spalla, da un’ascella, da una clavicola, da punti del corpo dove nella realtà c’è tutt’altro.
Forse questa indifferenza verso la correttezza anatomica serviva a rendere irreale, e quindi non pericolosa per il fedele uomo la visione di una ghiandola che, papi o non papi, manteneva ben saldo il suo richiamo più terreno che spirituale.
Tanto è vero che, qualche anno più tardi, questo concetto che all’epoca non era ancora chiaro né agli artisti né ai loro ecclesiastici committenti, fu codificato dal Concilio di Trento, lo stesso che poi decise di far mettere i mutandoni alle figure di Michelangelo nel Giudizio Universale.
E da allora, nell’arte sacra, addio ai richiami sessuali; se non quelli astutamente contrabbandati da qualche artista malizioso come estasi mistica.
A chiarire l’argomento bastano le espressioni di due famosissime primedonne della santità, Teresa d’Avila e la Beata Albertoni, che ci fanno l’occhiolino (di marmo) da quattro secoli, forse per farci capire che per una volta quel furbacchione di Bernini gliel’ha fatta a imbrogliare Santa Madre Chiesa.
L’ultima parola (non nostra) la lasciamo al diario di Santa Teresa. “In un'estasi mi apparve un angelo tangibile nella sua costituzione carnale et era bellissimo; io vedevo nella mano di questo angelo un dardo lungo; esso era d'oro e portava all'estremità una punta di fuoco. L'angelo mi penetrò con il dardo fino alle viscere e quando lo ritirò mi lasciò tutta bruciata d’amore per Dio…”
Nella speranza di non finire così,
vi manda tanti auguri di un ottimo 2023
IL CAVALIER SERPENTE
Siamo nel periodo in cui gli editori, nella speranza sempre più fioca di vendere qualche copia, promuovono le loro pubblicazioni.
Ci hanno invitati a due di questi eventi; il primo al Centro Culturale Francese per il battesimo di “Sorprendente Roma”, una guida all’arte nelle chiese con forte accento sul significato religioso delle opere, di Anne Cecile Brame, francese, della Comunità della Fraterna Domus, a cui (al testo, non all’autrice) è mancata prima della stampa una certa attenzione che avrebbe rilevato ed eliminato i francesismi che lo affliggono (fra gli altri quello, molto comune, di appioppare il genere maschile a una parola che in italiano, invece, è femminile, come “arte”). Lo stesso problema che appesta i pannelli illustrativi di Caravaggio nella chiesa lì accanto.
Per l’altra presentazione siamo andati sul profano, scendendo nei sotterranei dello stadio di Domiziano (Piazza Navona) a conoscere “Roma, bella da vedere, magica da raccontare”, un itinerario laico nella storia, nel quotidiano, nella poesia, nelle canzoni e nelle pentole della cucina casereccia romana, anzi romanesca.
Belle foto, begli aneddoti, bei suggerimenti.
Bene, né questi due nuovi nati, specialmente il primo che avrebbe dovuto, né tante altre guide che abbiamo letto accennano a quello che ora vi andiamo a raccontare.
Il Gesù è la chiesa madre dei gesuiti qui a Roma e il prodigio barocco è qualcosa che accade tutti i giorni alle 17.30 nella cappella di Sant’Ignazio di Loyola.
Mettiamo che un pomeriggio d’inverno un viaggiatore, forse diretto a prendere un bus per la stazione, decida di entrare in chiesa, spinto da un impulso mistico, o anche dal semplice desiderio di riposarsi un attimo.
Si trova, smarrito, in un antro buio (il tramonto è già lontano). Naturalmente si avvia all’altar maggiore fiocamente illuminato. Si siede in uno dei primi banchi.
Sono le cinque e mezzo; dal transetto sinistro parte una musica, qualcosa di barocco per coro e orchestra. Il nostro viaggiatore si gira in quella direzione; c’è un altare su cui si intravvede a stento, nella penombra, un quadrone seicentesco con S. Ignazio assunto in cielo. A un certo punto il quadro si illumina e con lui tutta la sontuosa macchina barocca che lo incornicia (alabastro, marmi, onice, ametista, cristallo, bronzo). Entrano trombe e tromboni che annunciano il trionfo, ma ancora non sappiamo cosa succederà.
Invece le luci si abbassano e così la musica. Tornati al buio dell’inizio, intuiamo sull’altare un fatto meccanico che fatichiamo a identificare, ma qualcosa si muove. Bisogna strizzare gli occhi (e seguire lo sprofondare graduale di un elemento vistoso del quadro: per esempio lo stendardo rosso triangolare che fa da sfondo alla figura di S. Ignazio) e ci si accorge che la pala è diventata una saracinesca che piano piano cala nel pavimento.
Questa discesa è quasi impercettibile; il trucco funziona proprio per questo; un esempio della grande sapienza scenica barocca (bisogna pensare che a suo tempo lo spettacolo era senza elettricità, senza riflettori, senza musica registrata. Giusto un paio di chierici appesi a due carrucole e qualche moccolo acceso; eppure con le sole candele e un probabile coretto di confratelli doveva funzionare molto bene anche allora).
Dopo questo intervallo di penombra, carico di suspense, le fanfare e i cori raddoppiano all’improvviso, si accendono tutti i fari, e dietro la paratia sprofondata appare il prodigio: una nicchia scintillante di gemme e lapislazzuli in cui domina in trionfo una prodigiosa, è il caso di dirlo, statua di S. Ignazio, tutta d’argento.
Per la precisione: la statua era d’argento massiccio fino all’arrivo dei francesi di Napoleone, fine ‘700. Poi deve essere successo qualcosa perché da allora non è più risultata d’argento, ma di stucco (argentato).
Insieme alla nicchia s’illumina tutta la chiesa che, da buia, diventa anch’essa splendente di ori e stucchi. Musica a palla con il sostegno del naturale eco delle volte (sempre cori e orchestrona barocca) e il miracolo si compie in gloria.
Siamo convinti che dopo un’emozione del genere, il viaggiatore che per la meraviglia si sia trattenuto più del previsto, sarà anche contento di aver perso il treno.
Al nostro tavolino del bar, tutte le mattine c’è “La Repubblica”, che ci tiene compagnia insieme al cappuccino e ci dà le informazioni politiche e culturali del giorno.
Con alcune impennate che il cappuccino ce lo fanno gustare meglio.
Così oggi 9 dicembre, che bei titoli! Finalmente qualcuno, non uno qualsiasi: il presidente del FAI, che manifesta a chiare e grandi lettere una posizione ragionevole, non faziosa, non catastrofista, semplicemente ragionevole.
Sono anni che ripetiamo, certo con minore autorevolezza, ma con lo stesso buon senso, le stesse cose.
Ed essendoci sentiti negli stessi anni rimproverare dai parrucconi di nostra conoscenza per le nostre idee ragionevolmente moderne, abbiamo deciso di fare (e farvi fare) un bel salto all’indietro, cercando di ricostruire, con un solo esempio, ma di peso, quello che poteva essere allora lo stesso tipo di atmosfera vecchieggiante.
Da sempre ci affascinano i quadri della paesaggistica romantica del sette-ottocento, e poi le fotografie seppia del primo novecento con le immagini della campagna romana, e sullo sfondo quella serie di archi barbuti di felci, estesi fino all’orizzonte.
Cosa ci può essere di più profondamente intrecciato con la natura di questi ruderi, di più gratificante per gli occhi e per l’immaginazione, di più evocativo della grandezza imperiale, e soprattutto di più classicamente radicato nella tradizione confermata dal tempo?
Eppure tutto questo è stato modernissimo. Venti secoli fa.
Eccoci, appunto venti secoli fa, di fronte a queste romantiche rovine, oggi; in realtà fastidiosi manufatti industriali, allora.
Li sentiamo protestare, esattamente come adesso, gli ambientalisti dell’epoca, contro quelle moderne barriere, ingombranti e volgari, che gli costipavano il panorama e facevano calare il valore degli iugeri quadrati; e i fattori imprecare contro quegli archi che gli spaventavano i maiali e facevano seccare il latte alle capre, che impedivano la vista dei colli vicini e con la loro altezza bloccavano il ponentino rinfrescante del pomeriggio.
Naturalmente senza un pensiero sulla moderna utilità dell’acqua per tutti, che dava alla città le terme, le fontane, l’igiene e il benessere.
Si tratta in fondo di una considerazione banale, ma non per questo meno vera: quello che è bello (e in questo caso bello è sempre uguale a funzionale) se non è distrutto da qualche fanatico sopravvive nei secoli e rimane bello.
Per caso questa turbina eolica è meno elegante di un arco dell’acquedotto Claudio?
Eccola, sulla sinistra, la meravigliosa chiocciola di S. Ivo alla Sapienza: sublime torta bianco panna di Borromini, e laggiù a destra, sul tetto, un incongruo casotto arancione alla Carrà.
E’ mezzogiorno del 27 novembre; anche oggi tutto si aggiusta come sempre, amalgamato meravigliosamente dall’azzurro di questo incredibile cielo di Roma.
Saliamo lo scalone dell’Archivio di Stato; avanti lungo il portico al primo piano, e finalmente, tanto per cambiare, un altro miracolo barocco: la Biblioteca Alessandrina, dove si inaugura la mostra “La sistemazione del Tevere urbano” che documenta la necessità, l’idea e la faticosa realizzazione dei muraglioni sul fiume.
Sono brutti, lo diciamo tutti, ma se ci trovassimo, come in passato, con i pantaloni a mollo nell’acqua due o tre volte ogni inverno, crediamo che il giudizio estetico passerebbe in secondo, se non ultimo piano di fronte alla situazione pratica.
E più di una volta, durante le grandi alluvioni non si trattò solo di salvare i pantaloni, ma anche la pelle, e furono in molti a rimettercela. Nella peggiore di tutte, quella del 1598, 20 metri sopra il livello medio, “una poderosa corrente traversò la Via Flaminia entrando in Roma per la Porta del Popolo. Al sopraggiungere delle acque che correvano difilate per la Via del Corso e quella di Ripetta, l’evento prese la proporzione di un disastro”. Decine di case abbattute, centinaia di persone affogate. Con l’ultima, nel 1870: l’acqua quasi alla stessa altezza, ma meno morti e danni, la giunta di Roma appena liberata, rischiò nuovamente di infradiciarsi i pantaloni e all’unisono decretò la costruzione dei famosi, brutti muraglioni.
Non staremo a raccontare quello che si può vedere su vecchi dagherrotipi e mappe nella mostra: bisogna andarci, anche perché siamo sicuri che la maggior parte dei romani a cui questa iniziativa si rivolge, non hanno la più vaga idea di chi abbia promosso il progetto (Garibaldi), di quando siano cominciati i lavori (dopo il 1870), di quanto siano durati (una quarantina d’anni), di quanto siano costati (uno sproposito), degli incidenti (crollo di una parte dell’opera non finita) e di come siano stati utili nell’ultimo secolo e mezzo per tenerci i già citati pantaloni all’asciutto.
Quindi, la mostra è davvero utile per soddisfare molte curiosità; ma attenzione!
Mica è così facile.
Perché chiunque ha curato l’allestimento non ha considerato un elemento, appunto, elementare.
I pannelli, dove tutto è spiegato piuttosto bene, talvolta in modo perfino avventuroso e appassionante, bisogna poterli leggere.
Ma, e si vede nella patetica foto, i visitatori sono costretti, per compiere questa fondamentale, semplice operazione, a illuminare con il telefonino le scritte. Le quali, malgrado la luce del sole che entra a fiotti dalle finestre del salone, sono immerse in un buio profondo.
Una sistemazione diversa, un faretto, un qualunque altro trucco da elettricista sarebbero stati un pensierino gentile per noi ospiti in visita.
Va bene, facciamo finta di niente; se ne accorgeranno, speriamo, e dopo l’inaugurazione troveranno un rimedio.
In fondo noi romani siamo, sì, cialtroni per definizione, ma cialtroni d’ingegno e buon cuore.
Fra i ruderi del palazzo imperiale di Elagabalo, poi passato a Costantino e a sua madre Elena, nei secoli è stata fondata, costruita, risistemata e ancora ricostruita la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, una delle chiese di Roma peggio riuscite.
E’ un edificio che, malgrado la storia che lo accompagna, la dovizia di maestose colonne che lo sorreggono, l’abbondanza di splendidi pavimenti cosmateschi, riesce a essere di una freddezza e di una cupezza tale che l’unico desiderio quando ci si entra è scappar via il più presto possibile. Guardare per credere.
Per fortuna, proprio lì di fianco c’è un posto molto più allegro: il Museo degli strumenti musicali.
Che, come abbiamo scoperto il pomeriggio del 18 novembre, è anche un laboratorio di restauro di clavicembali, due dei quali erano parcheggiati sul palcoscenico dell’auditorium del museo, pronti a essere cavalcati per un concerto di collaudo.
Prima si è affacciato il cembalaro che li ha guariti, e ce ne ha raccontato il meccanismo: niente martelletti come nel pianoforte, ma una penna tagliata a linguetta, fissata al salterello, che a ogni pressione di tasto salta su (destino di un nome!) e pizzica la corda.
Penna di gabbiano, caduta spontaneamente e non strappata all’uccello, ha precisato. Grazie: immaginiamo il mite cembalaro alle prese con uno degli enormi e ferocissimi gabbiani che infestano il cielo di Roma.
Lo avremmo perso: lui, non il gabbiano.
Ottima l’esecuzione di Rossella Policardo alla tastiera dei due strumenti resuscitati ed Enrico Onofri alle prese con un violino dalla voce formidabile.
Programma di autori semisconosciuti fine 500 e pieno ‘600: Virgiliani, Fontana, Rognoni, Uccellini e altri, che, ancora una volta, con nostro sempre rinnovato stupore ci hanno messi di fronte all’inquietante constatazione di quanto la musica fosse arretrata all’epoca.
Uno scarno balbettio quasi infantile di fronte al discorso pienamente maturo di tutte le altre forme d’arte contemporanee: architettura, pittura, scultura, letteratura. Dante, Raffaello, Michelangelo, Bernini…
A questo punto vogliamo divertirci un po’, sempre con rispetto, naturalmente.
Il maestro Onofri, imbraccia il violino, comincia a suonare (benissimo, lo ripetiamo) e parte la vaporiera. All’attacco di un tema, in una pausa, nel pieno di un’arcata: una serie di respiri, soffi e sbuffi che neanche il lupo cattivo con i tre porcellini.
Ci torna in mente un’esperienza di anni fa (citiamo una nostra cronaca dell’epoca). “Institutum Romanum Finlandiae, ottima esecuzione di alcune suite di Bach per violoncello. Allo strumento Vito Paternoster. O meglio: allo strumento e all’apparato otorinolaringoiatrico.
Dal bel violoncello antico escono suoni rotondi, corposi, appassionati, ma contemporaneamente in gola al solista funziona a tutta pressione una locomotiva: rantoli, ansimi, profondi sospiri.
In camerino ne abbiamo parlato e Paternoster ci ha convinti che questa intensa partecipazione respiratoria non solo non turba l’ascolto, ma aggiunge tensione e patos”.
Verissimo. Anche l’aria compressa di Onofri a contorno della splendida, potente sonorità del suo strumento non ci ha creato il minimo fastidio, anzi, ci ha coinvolti di più.
D’altra parte basta ascoltare qualche disco di Casals, di Rubinstein, perfino di Errol Garner: è tutto un borbottare, un canticchiare, un ansimare, che di certo non toglie niente alla qualità della registrazione.
A proposito di attività extramusicali durante l’esecuzione, mai guardato la faccia di un chitarrista mentre suona? L’attenzione del cervello è tutta sulle dita, e così i muscoli dell’espressione, non più in controllo, tirano, spingono, ammiccano, sorridono, strabuzzano, spalancano e trascinano il volto in ridicole e talvolta preoccupanti smorfie.
Per non parlare delle boccacce dei cantanti lirici spalancate nei do di petto, sottolineate da un trucco esagerato pensato per le distanze teatrali e impietosamente esposto dai primi piani tv. Grotteschi mascheroni.
Ma sono inezie: quello che conta, naturalmente, è la musica che quando è buona sopporta qualunque interferenza.
Seconda metà dell’ottocento. Un giovane di belle speranze, si chiama Gennaro Evangelista Gorga, debutta nel mondo della musica come accordatore di pianoforti. Ma è inquieto: non gli basta. Scopre di avere una voce, si mette a studiare e diventa così bravo da essere chiamato da Puccini nel 1896 al Regio di Torino per il ruolo di Rodolfo alla prima mondiale de “La Boheme”, diretta nientedimeno che da Toscanini.
Successo trionfale: da quella sera è il tenore alla moda.
Però il ragazzo, che ormai ha preso il nome d’arte Evan Gorga, non solo è inquieto, ma anche un po’ squilibrato, tanto è vero che, solo tre anni dopo, cede al demone che evidentemente lo possedeva da sempre, molla la musica e diventa collezionista, anzi accumulatore: di antichità, per fortuna, e non di spazzatura, come vediamo in certe morbose trasmissioni televisive, ma comunque a un livello di assoluto squilibrio, prima mentale, e poi, inevitabilmente finanziario.
Quando muore nel 1957 a più di novant’anni, braccato dai creditori, ha raccolto in tutto centocinquantamila pezzi antichi che tiene stipati in dieci appartamenti in Via Cola di Rienzo, di cui naturalmente non riesce a pagare l’affitto.
Mania ossessiva compulsiva. Con questa diagnosi il collezionista viene riconosciuto malato inguaribile (qualunque collezionista, mica solo lui). L’ultimo pezzo per completare la raccolta non esiste, così la caccia non finisce mai.
Perché parliamo di Evan Gorga? Perché il museo di scultura antica a Palazzo Altemps gli dedica una bella mostra permanente.
Apriamo una parentesi. Secondo noi tutti i musei dovrebbe essere come l’Altemps. Un magnifico palazzo rinascimentale, belle sale con pochi pezzi strepitosi e la certezza per il visitatore di arrivare in fondo al suo festino artistico senza l’indigestione che inevitabilmente ti paralizza, per esempio ai Musei Vaticani, dove, già alla terza sala gremita di capolavori, arriva il coccolone da bulimia e cominci a non capire più niente.
In mostra ci sono milleottocento pezzi antichi: una minima percentuale del totale raccolto dal povero Gorga, che però esprimono con assoluta precisione il quadro clinico della sua malattia: bronzetti, marmetti, intonaci, stucchi, ex voto, avori, giocattoli, ceramica, terracotta, piastrelle, lucerne, specchi, armi, vetri, monete; si rimane senza fiato.
Immaginare l’oppressione in quegli appartamenti di Via Cola di Rienzo nei quali, nascondendosi dagli strozzini che gli davano la caccia, sicuramente il nostro squilibrato passava giorni e notti di beatitudine e di angoscia.
Anche noi, bisogna ammetterlo, abbiamo avuto delle fitte di piacere guardandoli, perché gli oggetti accumulati dalla buonanima e astutamente ammonticchiati nelle vetrine dal curatore, così numerosi e stretti per trasmettere l’affanno maniacale del collezionista, presi singolarmente sono tutti molto interessanti.
A noi, allora, il bello; la patologia la lasciamo a Gorga.
Leggiamo sul Venerdì di Repubblica di questa settimana un gustoso articoletto sull’imminente sfratto di uno dei tanti personaggi che ormai fanno parte di quel panorama artigianale-contadino che sopravvive sempre più stentatamente intorno ai confini della città, mentre questa si dilata come una vescica, tutto soffocando.
Si tratta di Gaetano Palisano, un vivaista un po’ sui generis che bivacca da anni su un terreno forse del comune, forse di un privato, forse comprato da lui stesso anni fa con un contratto forse non valido; insomma un precario suburbano.
Si sta progettando una sistemazione del Parco della Caffarella, e quando cominceranno i lavori (conoscendo i tempi del Comune, crediamo che possano stare tranquilli lui e i suoi eredi) se ne dovrà andare.
Quattro anni fa eravamo passati a trovarlo e avevamo buttato giù le nostre impressioni. Eccole. (Dall’articolo del Venerdì apprendiamo che oggi ha anche un allevamento di tartarughine, specie protetta e per legge intoccabile, soprattutto durante il letargo. Sembra una di quelle storie neorealiste, con la contrabbandiera, Sophia Loren, sempre incinta, che i carabinieri non possono arrestare).
23/4/2018. Pochi passi sull’Appia Antica, fuori Porta San Sebastiano e poi, quasi al bivio con l’Appia Pignatelli, davanti alla Cartiera Latina, ci fermiamo a uno sciccosissimo vivaio.
Ma è una finta perché lì non ci entriamo per niente; proprio a sinistra dello sciccosissimo ingresso dello sciccosissimo vivaio, segnalato da uno sgangherato cartello “Piante grasse da collezione”, parte un viottolo altrettanto sgangherato che dopo qualche curva ci porta a un cancello. Ci infiliamo in una jungla di erbacce alte due metri, capannoni di bandone e serre coperte da stracci, e ci viene incontro, scortato da un bastardino, Gaetano dei Cactus, piccolo, con la scoppola e uno stuzzicadenti che gli sta piantato in bocca come se proprio lì fosse germogliato dalle radici dei denti caduti.
Vendere, sì, le venderebbe anche, su nostra insistenza, le sue amate creature, ma in realtà gl’interessa di più parlare delle succulente che coltiva, dei danni dell’ultima gelata, di un cereus che gli è cresciuto tanto da costringerlo a fare un buco nel tetto della serra, come se quel piccolo squarcio rovinasse la linea purissima della costruzione, sgangherata come il resto.
Ci accompagna in giro per la sua proprietà (?), affascinante guazzabuglio di materiali vari (orgoglio di raccoglitore), vegetazione di ogni genere (orgoglio di coltivatore), perfino una vasca con carpe ornamentali, la più grossa e vecchia delle quali sale a galla per rubargli dalla mano dei granelli di cibo (orgoglio di allevatore).
Insomma, abbiamo di fronte un raro esemplare sulla cui peculiarità non ci sono dubbi. Come non ce ne sono sul fatto che potrebbe avere la stessa veneranda età dei basoli dell’Appia. Merita una visita archeobotanica.
11/11/2022. E noi l’abbiamo rifatta questa visita, non solo archeobotanica, ma anche maliziosa. Perché conosciamo la nostra città incapace di entusiasmi, di slanci, di iniziative o di ribellioni: una palude spesso infetta, comunque sempre inerte, come d’altra parte si conviene a una palude.
E abbiamo voluto metterla alla prova alle 16 di oggi, venerdì, giorno di uscita del supplemento di Repubblica in cui si racconta la storia di Gaetano.
Siamo riandati sull’Appia Antica, davanti alla Cartiera Latina, un po’ prima del bivio con l’Appia Pignatelli.
Come temevamo, ma avremmo sperato di no, il cancello d’ingresso al vivaio di Gaetano era sbarrato e nel parcheggio lì davanti, neanche una macchina ferma, eppure era l’orario giusto.
Sfruttare (in fondo è un esercizio commerciale) la popolarità, anche se effimera, dell’articolo su un giornale che arriva a un buon numero di romani per guadagnare due bajocchi? Ma stiamo scherzando? Tocca lavorare!
E i romani che ci aspettavamo di vedere in massa sul posto, se non altro per curiosità? Troppa fatica arrivare fino all’Appia. Magari domani, o domenica, o un altro giorno…
I nostri fedeli lettori, se fedeli lo sono davvero, avranno ormai capito che la conclusione dell’escursione archeobotanica non poteva che essere il baretto verso Cecilia Metella con le sue irresistibile pizzette a mozzarella, alici e fiori di zucca annaffiate, come si scrive nei romanzi di avventura, da un boccale di birra freschissima. Prosit!
Una mattina settembrina, anzi potremmo benissimo essere nel pieno dell’ottobrata romana; diciamola tutta: è il 3 novembre e fa caldo come in estate, ci troviamo a Palazzo Cesi per la presentazione del Ventunesimo Festival di Musica e Arte Sacra.
Svolazzi di tonache e baci di anelli cardinalizi. Gran discorsi in italiano ma con sonorità internazionali.
C’è il tedesco, fondatore dell’iniziativa, con la parlata sobria e un accento ben bene spigoloso, macchiettato di tanto in tanto dalla scomparsa di intere parole italiane dovuta a vuoti di memoria, Dott. Hans Albert Courtial.
C’è lo spagnolo, Monsignor Pablo Colino, notissimo e prolifico compositore e didatta di musica, orgogliosamente sul margine dei novant’anni, che invece scatena un brillantissimo e molto colorito fiume di parole piene di accenti corretti o personalizzati, ma sempre molto fluidi e naturalmente musicali.
E c’è anche la pittrice russa Natalia Tsarkova, fotografata mentre coglie l’occasione per presentare con un accento questa volta di quasi comica esagerazione, roba da barzelletta, un suo grande “Retratuo di Santo Padrie Benedetuo Diecimo Sestuo”.
Il Festival consiste, oltre alla realizzazione di quadri e sculture, in una serie di sontuosi concerti di musiche di Brahms, Bruckner, Bach e un contemporaneo, Andrea Mannucci, nella terza settimana di novembre, a S. Paolo, S. Giovanni e S. Maria Maggiore, le Basiliche Papali.
Da quanto abbiamo capito il sostegno finanziario viene da sponsor privati; il Vaticano non ci metterà il denaro, ma ci mette i palcoscenici, e bisogna riconoscere che più belli di così non se ne possono trovare.
Diamo un’occhiatina di passaggio a un’altra iniziativa musicale che usufruisce nello stesso modo degli spazi ecclesiastici, il Roma Festival Barocco di Michele Gasbarro che tiene tutti i suoi concerti, molto spesso con interessantissimi recuperi di capolavori dimenticati o ritenuti perduti del cinque e seicento in tutte le più belle chiese barocche del centro di Roma.
Anche altre simili iniziative sono ospitate nelle chiese qui a Roma: Il Festival dell’Architasto, Le Cinque Perle del Barocco; e abbiamo addirittura, diamante di comportamento virtuoso, Santa Maria dell’Anima, una chiesa cattolica che serve la comunità tedesca di Roma e impiega addirittura, miracolo, un kapellmeister: l’amico Flavio Colusso.
Ecco, qui per esempio (sarà perché è tedesca?), la musica è parte importante e soprattutto quotidiana della liturgia e così il fedele si gode, possiamo dirlo, la messa insieme a una bella esecuzione di Palestrina, Gabrielli o Bach.
A questo punto lasciamo perdere per un momento festivalini o festivaloni, che sono comunque degli eventi eccezionali, e limitiamoci al quotidiano, alla parrocchia, alla messa domenicale, ai matrimoni, ai funerali, alle cresime, alle prime comunioni.
A eseguire il repertorio immenso di musica sacra composto nei secoli, ogni parrocchia potrebbe festeggiare con un capolavoro tutti i giorni, feriali compresi, per una cinquantina d’anni. Mettendo al lavoro orchestre, cori, organisti, tenori, baritoni, soprani e contralti.
E invece cosa ci tocca sentire normalmente alle messe? Un paio di suorine con le chitarrine e, quando va bene, tre chierichetti coi bonghetti che eseguono insulse canzoncine con testi da asilo infantile.
Questo vero e proprio miracolo dello spreco non riusciamo a spiegarcelo. Spreco di un capitale di musicisti e di musica, e anche di occasioni (per la Chiesa) per attirare il popolo alle funzioni, che in fondo, come accennavamo prima, sono spettacoli, e quindi devono piacere agli spettatori, cioè ai fedeli.
Chissà perché questa realtà è invisibile per chi dovrebbe avere occhi. E’ come quei barboni che hanno i milioni nel pagliericcio e poi vivono sotto i ponti. Forse è solo un fenomeno cattolico apostolico romano, perché ci dicono che le chiese protestanti mantengono in vita l’abitudine.
Ma qui da noi la mancanza di tradizione, di attenzione, di preparazione ci ha portati al punto che in chiesa non si trova più un organista decente, e quando serve bisogna chiamare il collega musico.
Quante volte, a proposito della nostra città, abbiamo raccontato un evento di scarsa qualità, di eccessiva presunzione, di pochissimo interesse, per concludere che il basso livello dell’iniziativa era comunque riscattato dall’eccezionalità del luogo, dal pregio estetico dell’edificio, dall’unicità del panorama: insomma, collocarla a Roma salvava comunque la baracca.
Qui vogliamo raccontare il contrario: quando l’evento, magari piccolo ma interessante, che quindi non avrebbe nessun bisogno di essere soccorso, viene inquinato dalla bellezza stessa di Roma, che in questo caso fa da guastafeste.
Palazzo Altemps: “Virginia Woolf e Bloomsbury”. Una snobbissima mostra su quello che lo snobbissimo gruppo di quegli intellettuali, artisti, omosessuali, ma soprattutto gente snob scrivevano, dipingevano, scolpivano, creavano per confrontarsi fra di loro ma anche per vendere agli altri.
Alle pareti notevoli ritratti dei membri del gruppo, nelle bacheche prime edizioni di romanzi e poesie, in fondo una sala piena dei prodotti artigianali del loro Omega Workshop: piatti, teiere, zuppiere. Tutto molto elegante, raffinato e snob.
E proprio in questa sala, eccolo il primo guastafeste: un nudo romano, mutilato ma talmente potente da trasformare il resto in cianfrusaglia senza nerbo.
Palazzo di San Silvestro: “Poste Italiane, la storia”. Vecchie bici da postino, vecchi telegrafi a contrappeso, bollatrici, posta militare, cartoline e libretti di risparmio.
C’è anche un reparto per far giocare i bambini; insomma un allestimento tra il familiare e il didattico, ma comunque curioso e nostalgico.
Colpo di scena! Distrattamente, attraverso uno dei tanti finestroni, buttiamo l’occhio sul bellissimo cortile del Palazzo delle Poste e questo stesso occhio viene attratto irrimediabilmente da un maestosissimo ciuffo di banani che neanche Salgari.
Siamo immediatamente trasportati dal centro storico di Roma alle selve di Mompracem, dove inevitabilmente timbri, francobolli e telegrammi scivolano via dalla nostra attenzione per lasciare il posto a tigri, coccodrilli e dayaki.
Di nuovo all’opera il guastafeste, stavolta esotico.
Museo dell’Ara Pacis: “Lucio Dalla - anche se il tempo passa”.
Qui siamo sulla nostalgia pura. Lucio era un amico che abbiamo seguito nella sua straordinaria mistura di inarrivabile autore e interprete di musiche sempre più belle e intense; e di persona fisicamente brutta, ma di intelletto così ricco e bizzarro da trasformare la sua presenza in una continua esibizione di genialità inventiva, fra parrucchini, orpelli e mascherate di ogni tipo.
Certo, a parte la memoria quando è un fatto personale, la celebrazione di un musicista fatica a riempire una mostra, anche se bella: quattro foto, due costumi di scena, l’immancabile pagella di scuola (a leggerla ci è sembrato un alunno di scarso rendimento) l’ascolto di qualche canzone e poco più.
Ecco che allora Roma guastafeste si fa viva attraverso le vetrate con l’immagine del Mausoleo di Augusto, un’affascinante rovina di pietra e alberi, che ci porta nel vuoto della campagna romana, anche se poi siamo e restiamo al centro della città.
Palazzo Braschi: “Roma Medievale”.
Rispetto a città davvero medievali come Firenze o Siena, bisogna ammettere che Roma non ha un gran che da mostrare.
Eppure, con poco materiale artistico, ma molte mappe, ricostruzioni, foto, memorie, questa esposizione riesce a tracciare un quadro di prima dell’alluvione del Barocco, soprattutto basandosi sul lato religioso della Roma dei papi, con tutta la sua pittoresca accozzaglia di nepotismo, veleni, crimini e ruberie. Ma anche vera, ingenua fede e altrettanto ingenua sua rappresentazione.
L’appartamento del palazzo offre una sontuosa ambientazione, anche se ci sentiamo in diritto di lamentare una caratteristica di quasi tutti i musei italiani: vietato sedersi! Forse è per la teoria che la cultura uno deve guadagnarsela con la fatica. Mah.
A un certo punto è inevitabile affacciarsi a una finestra su Piazza Navona. Da dove prendiamo il volo sulle ali di un altro guastafeste, quello barocco, che ci porta lontano, da tutto quello che c’era prima, medioevo compreso.
E’ una fantastica giornata di ottobre. Aria balsamica e sole brillante.
Il centro di Roma è un vespaio di turisti, però basta spostarsi a Prati che tutto si tranquillizza; l’aria è ancora balsamica e puzza meno di benzina, la gente è più rilassata (il mestiere di turista è duro, specialmente se devi vedere tutto in mezza giornata) e soprattutto al Magic Maxxi c’è un’interessante piccola mostra, anzi, la commemorazione di un personaggio, un duro ingenuo del nostro passato.
Prima di parlare di Fred, perché il Maxxi è Magic? Intanto perché è il giocattolo che Roma ha commissionato a una fata-architetta famosa e geniale (e le è riuscito così bene che uno fa finta di andarci a visitare le mostre, ma in realtà l’opera d’arte è l’edificio).
Poi perché delle magie le fa davvero, per esempio con quel finestrone sporgente che si intravede nella prima immagine con l’albero blu.
Noi lo abbiamo fotografato anche in una giornata d’inverno, quando nel grigio freddo dell’aria e sul grigio ancora più freddo del vetro apparivano riflesse le modeste case di abitazione fine ‘800 lì di fronte, trasformate dall’oro del sole al tramonto in castelli di fiaba. Un miraggio.
Il duro commemorato è, ovvio, Ferdinando Fred Buscaglione, che ci ha lasciati ormai da più di sessant’anni.
Naturalmente alla mostra il materiale non è tanto: qualche foto, copertine di dischi, manifesti cinematografici e in sottofondo le sue “Che bambola!”, “Eri piccola”, ma è sufficiente a farci rivivere il prima, quando le canzoni erano tutte cuori infranti e mamme preoccupate, i musicisti dei complessi tutti vestiti uguali, in giacca, papillon e possibilmente scarpe bianche, facce anonime e capelli giusti; e il dopo, quando finalmente qualcuno, lui, Fred, pensò di inventarsi un personaggio, naturalmente non ancora proprio maledetto (c’era da rispettare le abitudini e i desideri del pubblico e le paure dei discografici) ma comunque un po’ spaccone, col baffo assassino e la (finta) frequentazione della malavita.
Ma con dei pezzi intelligenti, spiritosi, scritti con Chiosso, che erano ognuno uno sketch musicato, con un tema in apertura, uno svolgimento e un finale: tutto nei due minuti e mezzo obbligati per una facciata di 45 giri.
Grande successo, come dicevamo; e finalmente basta serate a due lire, ma soldi veri, con i quali cosa ci si compra, da ex orchestrale povero, verso la fine degli anni ’50? Ma una macchinona americana, naturalmente, una Ford Thunderbird, per fargliela vedere ai colleghi che vanno ancora in giro in Topolino.
Però stavolta il finale della storia non fu uno scherzo, come le sue canzoni criminali.
Saranno state le quattro di una notte di febbraio 1960; tornava all’albergo dopo una serata, probabilmente alcolica, certo di stanchezza e confusione: bum! contro un camion carico di pietre.
Non aveva quarant’anni.
Stavolta le nostre foto ricordo siamo andati a pescarle più lontano. Non sono neanche foto, c’è un selfie a olio, uno di plastica…
Una delle sue opere più famose è l’Estasi di Santa Teresa. Si trova in una chiesa di Roma, Santa Maria della Vittoria, ed è, servita dalla suprema maestria nel trattamento del marmo, dalla collocazione sapiente sull’altare, dalla illuminazione naturale studiata da quel grande scenografo che lui era, proprio la rappresentazione erotica sacra e sublimata dell’abbandono della donna alla possessione del dardo. D’oro, d’accordo; con la punta di fuoco e per di più in mano a un angelo, certo. Però decisamente allusivo, ci pare.
Non contento, ne ha fatta un’altra, di estasi: quella della beata Lodovica Albertoni, a San Francesco a Ripa, sempre a Roma. Un’estasi più sobria, nel senso che manca l’angelo con il dardo, ma la beata, anche lei scolpita con indescrivibile morbidezza se ne sta sdraiata contorcendosi un bel po’ sul giaciglio. E’ chiaro che questo tipo di rappresentazione, mimetizzata sotto il velo della mistica dedizione, faceva venire qualche pensierino a chi la guardava.
Perché, chissà come mai, almeno a giudicare dalla documentazione che ci è arrivata, in estasi ci andavano solo le sante (femmine), mentre gli artisti incaricati del racconto erano tutti maschi.
Si trattava certo di un erotismo sacro, purissimo e soprattutto presentato come momento edificante ad uso dei seminaristi (e probabilmente di qualche cardinale porcello, magari lo stesso committente). C’è chi dice che il nostro fosse del tutto privo di malizia, solo preso dal suo innocente desiderio di esaltare la fede delle sante. Non lo sappiamo. Rimane il fatto che si tratta di un’arte realizzata da uomini per altri uomini, usando immagini di donne.
Che in più finge di rappresentare un’idea lecita mentre forse in realtà ne racconta un’altra.
Domenica 22 settembre 2013 siamo a S. Lorenzo in Lucina a visitare la mostra a lui dedicata. Si intitola “La grande luce”. Naturalmente è tutta miracoli, stupore, devozione. E fin qui, ovvio: ognuno ha bisogno di smorzare le proprie paure, e quindi cosa c’è di meglio del totalmente irrazionale, che non può essere dimostrato se ci credi, ma neanche smentito se sei scettico.
Su una serie di pannelli leggiamo delle sue famose febbri, durante le quali la temperatura gli saliva a 48 gradi, e faceva scoppiare il termometro (ci pare di aver sempre sentito che una febbre così fa bollire il cervello in pochi secondi – e poi, come mai dei termometri tanto fragili?). Oppure del misterioso profumo di fiori emanato dalle stimmate, certificato dal suo medico, il dottor Festa.
Purtroppo, di queste mistiche ferite non esiste neanche un’immagine. Eppure la fotografia era già ben progredita all’epoca. Ma, appunto come detto in principio, ognuno si aggrappa al salvagente che gli capita. Sempre con tutto il rispetto, naturalmente.
A S. Salvatore in Lauro a Roma il parroco, un intraprendente operatore religioso, lancia ogni anno una celebrazione con messe, processioni, esposizione delle reliquie e un evento finale dal nome stranamente ferroviario di Transito. Presumiamo che nel linguaggio cattolico questo termine definisca il miracoloso passaggio dell’anima dall’involucro corporeo alla libertà dei cieli.
Per noi il miracolo è un altro. Dall’inizio dell’homo religiosus si è sempre fatto un gran lavoro per abbellire l’immagine del santo da venerare. Gesù, un palestinese proletario di duemila anni fa, non poteva che essere come lo ha rappresentato Pasolini nel Vangelo: un piccoletto esile, scuro e peloso, eppure nel corso dei secoli è diventato un ragazzone biondo, bello, alto e con gli occhi azzurri. San Francesco pare che fosse poco più di uno e quaranta, senza denti e butterato dal vaiolo. Non è certo così che ce lo hanno dipinto in seguito.
E invece il nostro, che nel frattempo è diventato santo anche lui, continuano a mostrarcelo com’era in realtà, senza migliorie. Forse le sue foto da vivo sono troppo fresche per essere smentite, certo nulla si è fatto per ingentilire o nobilitare quella sua faccia un po’ astiosa, quella barbetta non proprio divina, quelle sopracciglia quasi diaboliche...
Ci è sembrato che la recente foto ricordo che abbiamo dedicato a Lodovico Einaudi abbia stuzzicato i nostri lettori.
Allora siamo andati a frugare in fondo al nostro cassetto e ne abbiamo tirato fuori altre, non tutte ben riuscite naturalmente, e ve ne proponiamo un paio, stavolta senza i nomi.
Un giochetto da Settimana Enigmistica; vediamo se li riconoscete.
Roma, 16 ottobre 2010. Associazione l’Architasto, concerto per clavicembalo. Alla tastiera il nostro, massimo solista al mondo dello strumento. Un nordeuropeo fisicamente sobrio al limite del funereo.
All’applauso, immancabile perché lui è davvero perfetto, il maestro china il capo di un quarto di pollice, e su uno zigomo si intravede un guizzo che potrebbe anche essere un sorriso dal Polo Nord.
Un amico, che lo è andato a prendere alla stazione, aveva preparato sul lettore in macchina un CD di Beethoven. Appena l’ha acceso, il maestro ha fatto una faccia, poi ha chiesto di spegnere quella roba troppo moderna.
Quando suona, con la mano destra avvolta in un mezzo guanto di lana nera, dalla tastiera promana un torpore sublime. Ma non per la musica o per come lui la suona (benissimo), è solo perché il clavicembalo è uno strumento che parla senza mai cambiare umore.
Il piano e il forte verranno dopo; noi ora lo sappiamo, ma loro, all’epoca, no. Mozart aveva cominciato a scrivere i suoi concerti per cembalo, poi è passato al fortepiano, ma quando finalmente gli hanno portato a casa il primo vero pianoforte, ci si è buttato sopra e non l’ha più mollato; i risultati li conosciamo.
Gentleman, cantante, attore, ballerino, pianista, autore, entertainer di livello internazionale. Un uomo perbene, finito in galera forse per la malafede o magari solo per la cialtroneria di un presunto amico.
Martedì 22 settembre 2012, nella Sala Consiliare di Palazzo Valentini a Roma c’è stata una bella riunione, organizzata in modo impeccabile dalla moglie Rossana, per parlare del suo doppio CD curato da Paolo Mosele (bella copertina di Ugo Nespolo), del suo film “L’Illazione”, rimasto nel ripostiglio per tanto tempo, e del suo (non lo abbiamo ancora letto, ma tutti lo lodano) libro “L’erotismo di Oberdan Baciro”.
In realtà principalmente per ricordarlo, adesso che ci ha lasciati ormai da un paio d’anni.
C’erano molti anziani signori in giacca e cravatta: Gianni Letta, Pippo Baudo, Renzo Arbore, Enrico Vaime, Toni Concina, Dario Salvatori. Tutti in cravatta abbiamo detto. Non Dario. Salvatori, che conosciamo da anni, non ha mai cessato di stupirci per il suo stravagante abbigliamento, e per lo sterminato numero di capi che devono pendere in agguato nei suoi armadi, pronti a balzargli addosso quando esce; mai successo di vedergli la stessa giacchetta due volte.
Molte le amichevoli testimonianze; anzi frammenti di vero e proprio spettacolo. Da aspettarseli, data la presenza di professionisti come Baudo e Arbore. Che hanno invaso lo spazio, in teoria di esclusiva pertinenza del commemorato, e monopolizzato il microfono scavalcandosi con gustosi aneddoti e varie amenità. Se sei un carattere da palcoscenico, quasi sempre ti porti nello zaino un ego come dire, un po’ fuori misura, e ogni occasione è buona per fargli prendere aria.
Non guasterebbe in queste circostanze un minimo di distacco, cercare di non volerci essere a tutti i costi; ma evidentemente non ci si riesce. E siamo convinti che i nostri narcisi, di questa ipertrofia neanche se ne accorgono.
Professionale e più distaccato l’intervento alla tastiera di quel fior di pianista che è Rita Marcotulli. La quale ha allegramente strapazzato alla sua maniera quello scherzo musicale (certamente al di sotto dei tanti altri pezzi di lui) diventato comunque il più popolare di tutti: “El can de Trieste”.
A volte, col passare del tempo qualcosa che l’autore magari considera una scemenza acquista immeritatamente peso e apprezzamento, e poi non te la scrolli più di dosso.
Nulla da segnalare questa settimana. E allora, invece di fare scena muta vi riproponiamo un articolo di dieci anni fa, esatti, che avevamo intitolato “EINAUDI E GLI SPINELLI”.
Stagione Contemporanea, Parco della Musica di Roma, settembre 2012. Promozione impeccabile, pacchetto ben confezionato; a questo punto, vediamo cosa c’è dentro.
La conferenza stampa di presentazione era stata piuttosto moscia, non per il progetto, interessante, o per l’organizzazione del Parco della Musica, puntuale e corretta, ma perché i tre signori al tavolo: Fuortes, amministratore delegato; Regina, presidente; Pizzo, curatore, sembravano decisi a rimanere in un’atmosfera troppo signorilmente smorzata. Precipitata nel funereo con l’intervento di Einaudi, davvero poco dotato di eloquenza. Continuiamo a pensare che la maggioranza dei musicisti dovrebbe aprire bocca solo per infilarci dentro uno strumento (magari con il pianoforte è più difficile).
Per fortuna a un certo punto, sotto un impossibile cappellino appare la frivola Sora Cesira, personaggio fino a quel momento a noi sconosciuto, ma che siamo poi andati a cercare sulla rete, trovando sul suo blog stupri di canzoni e video famosi, di cui lei stravolge i testi e le voci. Alcuni gustosi, alcuni banali. Il problema è che, una volta trovata una formula, bisogna essere dei geni per rimanerle fedeli e non diventare noiosi. Non riusciamo a capire in che modo possa mescolarsi a questa stagione senza fare impazzire la maionese, ma tutto è da vedere e da sentire, e staremo bene attenti al momento.
Si comincia il 22 settembre con “The Elements” di Ludovico Einaudi, prima assoluta. Accomodati in una buona poltrona di platea, ci troviamo di fronte al solito dilemma: riconoscenza e quindi un occhio di riguardo per gli amici dell’ufficio stampa che ci hanno invitato, o sacra tutela della nostra opinione? Nessun dubbio: siamo grati agli amici, ma, come sempre, ecco il nostro pensiero viscerale e libero.
Il primo colpo d’occhio è magnifico. La sala dell’Auditorium è un’immensa caverna: arcaica per i legni che la foderano tutta, moderna per i ponti sospesi dei fari e le curve fonodinamiche delle superfici. Scenografia essenziale ed elegantissima, con la sapiente esposizione di ogni percussione esistente, più qualcuna di sicuro inventata per l’occasione (più tardi ascolteremo anche lastre di metallo fatte vibrare nell’acqua). Cinque grandi sfere traslucide sospese (che poi vedremo salire e scendere dai cavi e illuminarsi di luci candide) e cinque solisti, quattro percussionisti della PMCE più Robert Lippok, ai comandi dell’elettronica. Tutti in nero, su fondo nero, con i loro strumenti scuri o incendiati di bagliori metallici sotto i fasci bianchissimi dei fari. Festosa l’atmosfera di attesa di un evento che sa già di buona riuscita. Poco a poco il teatro si riempie di un bel pubblico ben disposto. Schizzo di colore quando un burino si affaccia dalla galleria e a gola spiegata chiama un suo compare in platea: “Aho! Poi se n’annamo a cena!” Vabbè, siamo a Roma.
Buio in sala, sapiente riaccendersi graduale di poche luci bianche in tutto quel nero ed ecco che, mentre intuiamo i cinque compagni di avventura, nero su nero, ai loro posti sul fondo, entra Ludovico Einaudi (e qui scusate l’insistenza su un tema a noi caro, l’abbigliamento in scena, inteso anche come rispetto per il pubblico) con addosso la solita giacchetta frusta, la solita maglietta dal colore indefinibile, i soliti jeans sformati; e va a sedersi al gran coda, con la tastiera e quindi la schiena dell’esecutore girate verso il pubblico.
Comodi nel nostro sedile ci lasciamo andare all’ascolto, e a un certo punto, circa a metà della faccenda (che in tutto durerà un’ora e mezza) abbiamo la sensazione che ci manchi qualcosa. La musica va, molto rarefatta, ripetitiva, priva di filo melodico o di sviluppo armonico, anche se ricca di qualche bella sonorità, e noi a nostra volta riandiamo a un nostro momento in India, esattamente trentanove anni fa, sulle rive del Gange, al tramonto, mescolati a un gruppo di fricchettoni figli dei fiori ad ascoltare per ore e ore il sitar di qualche Ravi Shankar improvvisato, convinti di essere a un passo dall’illuminazione. Per renderci conto che la scalata verso il sublime non dipendeva tanto dalla musica, quanto probabilmente dal forte quantitativo di spinelli (se non peggio) consumato durante l’ascolto.
Ecco cosa ci manca in sala: un bello spinello! Peccato, perché dopo questa raggiunta consapevolezza ci siamo trovati ad affrontare altri tre quarti d’ora di suoni rarefatti, ripetitivi, privi di filo melodico e di sviluppo armonico, ma senza nessun supporto psicotropo.
Applausi forti, standing ovation, richiesta di bis, concessi, e fuoruscita di pubblico felice.
E noi, che dire? Non vogliamo certo sostenere che se una composizione non contiene melodie, armonie a contrappunti non ci piace, anzi, le novità, ma quelle vere, che provano a scardinare il sistema ci entusiasmano, forse ci irritano, magari ci seminano la testa di dubbi, comunque ci fanno pensare.
Anche con Einaudi abbiamo pensato, ma soprattutto, dobbiamo confessarlo, agli spinelli sul Gange.
6 settembre 2022, Sky Arte, guardiamo “I Tre Tenori”: una lunga e ricca trasmissione di ricordi e omaggi a questi campioni della voce, ormai scesi dal palcoscenico.
Aneddoti a bizzeffe: i ragù di Pavarotti, i malanni ricorrenti di Carreras, il multiforme talento di Domingo (che ultimamente pare abbia preso a manifestarsi sotto le gonnelle invece che sul podio; almeno così dicono le cronache).
Sulle voci dei tre non c’è proprio niente da criticare (ma solo quando cantano l’opera!): eternamente giovanile quella di Pavarotti, robusta e autorevole quella di Domingo, delicata ma sensibile e intelligente quella di Carreras.
Invece, che Dio li perdoni quando gli viene in mente di avventurarsi nell’interpretazione di una canzone, magari in duetto con un alter ego, legittimo appartenente alla musica leggera.
E’ il massacro. Questi tenori, con le loro vocione che in quel momento diventano anche stupide, senza un pizzico di leggerezza, si mettono a gridare neanche fossero Mosè che spezza le tavole delle leggi sul Sinai; voci stupende, d’accordo, ma fuori luogo.
Ascoltarli diventa faticoso. Nessuna sensibilità, solo volume. E il direttore e l’orchestra che faticano per trascinarli quando frenano, o frenarli quando scivolano sul tempo. E anche se piacciono tanto al pubblico, per noi, in quel momento, con quelle interpretazioni diventano il peggior prestito della lirica al rock o al jazz. Non perché un cantante lirico non deve abbassarsi a fare le canzonette. E’ che non ne è capace. Non ha quell’indispensabile distacco, non sa cosa sono gli anticipi e i ritardi, non conosce il sottotono, diventa un elefante fra i cristalli. Basta ascoltare “New York, New York” fatto da Pavarotti e poi da Sinatra: due mondi. Uno incanta, l’altro strazia.
E soprattutto gli manca quell’essenziale qualcosa che tutti gli esperti cercano di definire senza mai riuscirci: lo swing. Magari non bisogna neanche dare troppa importanza alla tecnica. Magari conta il cervello, forse l’ugola, certo il cuore dell’interprete.
Vogliamo essere ovvii fino in fondo? E allora citiamolo, il famosissimo titolo: “It don’t mean a thing if it ain’t got that swing”, che noi tradurremmo così: “Non vuol dire proprio niente se lo swing risulta assente”.
Più di trent’anni fa, abbiamo avuto il privilegio di essere invitati a Caracalla al primo grande concerto dei tre, un evento mondanissimo, che poi si sarebbe rivelato l’avvio di un business mondiale.
La sera d’estate, la luna, la brezza tiepida, non ci fecero prevedere quanto in seguito l’iniziativa sarebbe diventata pacchiana; anzi la faccenda ci piacque moltissimo. Ancora ci ricordiamo, in mezzo a tutta quella pompa, un particolare minimo e divertente. Dirigeva Zubin Mehta. A un certo punto, durante uno dei rari pianissimo della serata, su uno dei pini che crescono in platea, una cicala si mise a cantare, inconsapevole protagonista per tutti i diecimila spettatori.
Un paio di volte Mehta dal podio guardò accigliato (o divertito, la distanza non ci permetteva di distinguerne i lineamenti) verso l’albero, ma quella, tranquilla, andò avanti finché tutti ci si abituarono. Neanche ci accorgemmo se e quando smise di frinire.
P.S. Tanto per rimanere in tema, vogliamo ricordare qualche verso di una canzoncina che faceva:
“Alle Terme di Caracalla
i Romani giocavano a palla,
dopo il bagno, verso le tre,
tira tira a me, che la tiro a te.
E poi gridavan: Olè!”
(Clara Jaione, 1950)
E c’è chi rimpiange le canzoni di quel periodo!
E’ passato agosto, ne sono successe di tutti i colori e noi, nel riprendere in mano la penna non sappiamo se essere tranquilli (come sarebbe la nostra natura) o arrabbiati (come le circostanze ci spingono a essere).
Di bello cosa abbiamo fatto? Siamo andati ai Musei Capitolini per la mostra su Domiziano, dove abbiamo visto un buffo busto del perfido imperatore trasformato in vaso, con la testa bucata e lo scarico piazzato nell’orecchio destro.
Poi ci siamo fissati di indire un campionato delle più belle natiche di marmo da votare in giro per i musei romani e il risultato è stato che praticamente tutti i glutei degni di attenzione erano maschili; infatti hanno vinto quelli del Meleagro di Palazzo Altemps.
Un bel giorno abbiamo deciso di fare un salto a Terracina: ci avevano parlato del teatro romano che stanno scavando sotto i resti delle casupole medievali distrutte dalle bombe del ’44. Il teatro c’è, ma la cosa più bella è la vista del Monte Circeo dalla terrazza del municipio: un sogno (come si diceva una volta) in Technicolor.
Finalmente, proprio l’altro ieri, ancora incerti, come abbiamo già detto, fra il sorriso di pace e il ghigno di guerra, siamo passati dalle parti di Palazzo Madama. E lì la situazione ha deciso per noi.
L’edificio, sede del Senato della Repubblica, quindi obiettivo assai delicato, è circondato e difeso contro possibili autobombe da una serie di belle, pesanti, certamente costose fioriere di cemento chiaro, segnate a metà altezza da una elegante cintura di ottone.
Queste fioriere sono ovviamente piene di terra e in questa terra sono state infilate, due per ogni vaso, delle interessanti piante spinose dall’aspetto, da vive, assai minaccioso, di origine desertica, capaci in teoria di resistere anche al clima più secco e agli assalti di malintenzionati.
Ecco, proprio qui, accanto alla sede della sua più prestigiosa istituzione, ci è apparsa la testimonianza della implacabile vocazione di Roma all’autodistruzione.
Altro che la siccità sahariana di questa estate: la nostra città, con la sua trascuratezza da terzo mondo, anche verso i suoi simboli più alti, con la sua inefficienza, con la sua mancanza di dignità riesce ad avere la meglio su qualsiasi progetto di eleganza, di ordine, di pulizia; perfino sulla natura più tosta.
Bisogna sapere che nel pieno centro di Roma c’è Via Parigi: sul suo lato destro il gigantesco muro esterno delle Terme di Diocleziano, sul sinistro un moderno palazzo che ospita una quantità di importanti uffici e di banche; in fondo il Ministero.
Dietro al mattatoio all’aperto di Dakar, nella discarica di Benares, ai piedi della favela di Rio; nei nostri viaggi, di puzze ne abbiamo sentite e belle forti, ma mai così paralizzanti come quel muro di fetore che ci blocca appena imbocchiamo Via Parigi.
Contigua al Grand Hotel, alla chiesa ufficiale dello Stato, Santa Maria degli Angeli, a due importanti musei, al Ministero delle Finanze, alla stazione ferroviaria, a Piazza della Repubblica, all’Aula Ottagona dove ora c’è la mostra “L’Arte Salvata”, organizzata dai Carabinieri della tutela del patrimonio artistico (stiamo insistendo con la lista, e potremmo andare avanti ancora un bel po’, ma ci fermiamo qui per lasciarvi rifiatare), Via Parigi, dicevamo, e precisamente il suo marciapiede sul lato delle Terme, è dove dobbiamo riconoscere che, ancora una volta, Roma non ce la fa.
Ci siamo passati qualche giorno fa verso mezzogiorno. Altro che rifiatare: una latrina, una bomba olfattivo. Anche da guardare, uno spettacolo orribile, se è per questo.
Il sole rovente della stagione contribuisce a cuocere a puntino le decine di torte umane che coprono impudicamente il marciapiede. Mescolate a stracci abbandonati, cibo marcio, gabbiani e topi morti, evidente eredità dell’abiezione di quei diseredati che di notte abitano la strada.
Non riusciamo a capire come, nel cuore artistico, turistico, commerciale di una città, possa esistere questo letamaio.
La ripetiamo, questa parola, perché se noi siamo scandalizzati, come mai questo scandalo non tocca la Sovrintendenza, i Consigli di Amministrazione delle Società e delle Banche, la Direzione del Grand Hotel, i Carabinieri, la gente; la GENTE, che ci cammina, in mezzo a questo letamaio, che ci parcheggia i motorini e le auto?
E’ agosto. L’unico ridicolo tentativo di intervento, questo cartello, arrugginisce fra i ruderi delle Terme (le quali, e possiamo fidarci della ricostruzione, dovevano essere più o meno così: certo un po’ meglio di adesso).
Arrivederci Roma, buone vacanze. Chissà cosa troveremo al ritorno.
Come promesso il 25 giugno scorso, ecco la storia del restauro di un quadro culminato nella cancellazione di alcuni sintomi clinici da una faccia.
Nel 1436 il Canonico Van der Paele commissiona al famoso pittore fiammingo Jan van Eyck un ritratto di sé stesso come donatore, inginocchiato accanto alla Madonna e a due santi. Il quadro è offerto in chiesa a Bruges e lì rimane a garantirgli cinque secoli di messe in suffragio della sua anima.
Nel corso degli anni medici e intenditori d’arte analizzano il ritratto, che è fedelissimo, e diagnosticano al povero Canonico una serie di acciacchi, fra cui una polimialgia reumatica, un indurimento delle arterie, problemi di vista e di circolazione, una quantità di lesioni cheratosiche della pelle, e per concludere un grosso epitelioma sul labbro inferiore (foto in bianco e nero).
Quattrocentonovantotto anni dopo, cioè nel 1934 il quadro è restaurato dal fiammingo Jef van der Veken (foto a colori).
Appena il critico-dermatologo belga Jules Desneux vede il restauro, scandalo! Desneux si accorge che il restauratore, non si sa perché, ha fatto scomparire dalla faccia del nostro protagonista tutti i segni dei suoi problemi epidermici: porri, verruche, epiteliomi: tutto cancellato. Adesso il Canonico ha la pelle di un bambino.
Secondo noi non è successo niente di grave, semmai qualcosa di buffo; per il mondo dell’arte invece si tratta di un inammissibile arbitrio del restauratore, che proprio non si doveva permettere…
Ma tanto ormai sono tutti morti e non ci si può fare niente.
Questa fantastica storiella ce l’ha raccontata all’Accademia Lancisiana in uno degli incontri che organizza con la sua iniziativa “Dermart” l’amico dermatologo e pittore Massimo Papi. Onore al merito: ogni volta riesce a istruirci e a farci divertire.
E, visto che stiamo sul morboso (in senso medico), vi proponiamo queste immagini ingenuamente raccapriccianti di un altro martirologio, da noi recentemente scoperto, che fa il paio con quello ormai famoso di Santo Stefano Rotondo.
Gustatevi questo cattivone che taglia letteralmente a pezzi il martire (un piede, una mano, un braccio, gomito compreso) con moncherini da cui escono docce di sangue.
E non è male neanche quell’altro poveraccio a cui, stavolta in due, tolgono la pelle come se fosse una fodera di plastica.
Queste edificanti storie, dipinte, come dicevamo, con un misto di ingenuità dal punto di vista artistico ma di efferato sadismo da quello umano, si trovano nella chiesa dei Santi Nereo e Achilleo a Via delle Terme di Caracalla.
La chiesa, però, apre solo per i matrimoni. Noi ci stavamo passando per caso; la porta era socchiusa con un andirivieni di fioristi.
Ci siamo finti parenti della sposa e siamo entrati.
Il ciclo di affreschi è interessante ma non esageriamo: se per vederli bisogna addirittura sposarsi, suggeriamo di lasciar perdere.
Giugno. Il sole cala sul Gange e i suoi raggi dorati filtrano fra i rami dei grandi alberi di mango che ornano il giardino in cui insieme al sole si spengono le struggenti note del raga del tramonto eseguito da Rakesh Chaurasia e Sanjay Kansa Banik.
La suggestione del momento è intensa, il morbido tocco dei polpastrelli sui tabla accompagna l’esile voce del flauto. E’ il fascino dell’India che ci trasporta nelle supreme regioni spirituali della musica…
E invece no! Non siamo nel Rajasthan, siamo a Roma. “Ahò!” grida un cameriere spostando rumorosissimamente (sembra che lo faccia apposta) una sedia. “Du’ bire ar sei!” grida un altro, mentre le comitive sedute ai tavoli del bar schiamazzano neanche fossero all’Octoberfest.
E invece siamo a un concerto, non ci dovrebbero essere dubbi, precisamente nello spazio all’aperto della Casa del Cinema di Villa Borghese, che si chiama Teatro Ettore Scola; è la sua platea erbosa che confina con il territorio del bar.
Evidentemente sono due mondi che anche se confinano non comunicano.
Ed è qui che Roma non ce la fa. La cultura, che oggi ha provato a lottare sottovoce contro la cialtroneria chiassosa della ristorazione (scarsa qualità e bassa professionalità di gestione), simbolo maximo della festa romana, ha perso e non può fare altro che chinare la testa e andare a nascondersi.
La musica ce l’hanno servita, bene, i due artisti indiani; la ristorazione romana la rappresentano, perfino meglio, due discutibili rinsecchite pizzette con patatine che accompagnano un ancor più discutibile spritz da noi incautamente consumato al bar nemico.
Si cambia lochescion. Andiamo a passeggiare nel letto di un fresco ruscello di montagna, che scorre fra due sponde ornate di alberi e cespugli. Manca solo la cosa principale: l’acqua.
Perché non siamo sulle Dolomiti, siamo sempre a Roma, e precisamente sullo spartitraffico della Via Tuscolana, dove qualche anno fa era nata una geniale trovata paesaggistica per nobilitare i trecento metri della salita del Quadraro, una zona periferica a ridosso di un grande incrocio di antichi acquedotti romani.
Avevano pensato, e pensato benissimo, che quella pendenza del terreno poteva essere sfruttata per crearci la più lunga fontana del mondo.
Quindi, presto fatto: bastava scavare un torrentello nel terreno, piantarci ai lati qualche albero, seminare qua e là alcune belle rocce e il naturale pendio avrebbe fatto da motore per un flusso di acqua cristallina.
Una faccenda di limitata spesa e di successo garantito.
Neanche qui Roma ce la fa. L’idea era buona, la collocazione perfetta, il riferimento alle maestose opere idriche del passato imperiale quanto mai azzeccato, opportuno politicamente e socialmente l’abbellimento di un quartiere periferico e piuttosto degradato, e cosa è successo? Subito dopo l’inaugurazione è mancata l’acqua. Che non è mai tornata; e a cosa serve una fontana senz’acqua?
La situazione non la salva certo questa patetica scritta “VII MUNICIPIO” disegnata con una siepetta di bosso, gialla di sete, che ricorda quelle stazioncine ferroviarie di una volta con il nome scritto coi fiori.
Per ora ci fermiamo, ma attenzione: l’argomento è quasi inesauribile.
Nel pieno del solleone stiamo tornando in scooter verso casa sobbalzando, come su una pista da fuoristrada, fra mostruose fosse e avvallamenti profondi ricreatisi con sorprendente rapidità nella pavimentazione in sanpietrini di Piazza Venezia, totalmente rinnovata (la data emerge dal cervello shakerato fra un sobbalzo e una sbandata) con ingentissima spesa esattamente due anni fa.
E proprio due anni fa avevamo espresso la nostra incredulità, che riproponiamo, sulla stupidità della stessa sbagliata soluzione adottata a ripetizione dal Comune per un problema che di per sé ci sembra banalissimo.
Vi riproponiamo, senza neanche cambiargli il titolo, l’articolo del Cavalier Serpente.
DEMENZA SENILE – 11 luglio 2020
L’età, si sa, manifesta il suo malvagio potere in molte maniere; una di queste è costringerci a ripetere gli stessi errori senza da essi imparare niente. Chiamasi demenza senile.
Qualche anno fa Roma (si tratta appunto dell’anziana trimillennaria affetta da questa terribile malattia) decise di intervenire sul suo ombelico di maggior traffico, Piazza Venezia, sistemandone la pavimentazione a sanpietrini che era in pessime condizioni.
Pur non essendo in via di estinzione, come ci augureremmo, il sanpietrino (piramide tronca di pietra lavica di misure variabili, ma in media 12 x 12 x 18, in uso nelle strade e piazze romane fin dal tempo di Sisto V) è una specie protetta e perciò non si tocca. E siccome è un manufatto antico, quindi artigianale, il suo uso e la sua messa in opera seguono naturalmente ritmi artigianali e non industriali. Considerazione che dovrebbe bandirlo da strade a intenso traffico, soprattutto di bus urbani o turistici, minimo venti tonnellate ciascuno, per relegarlo a pittoreschi vicoli e piazzette pedonali.
All’epoca l’anziana demente non ci pensò due volte (neanche una, secondo noi) e procedette alla ricollocazione delle maledette piramidine tronche, bloccando tutta la zona per mesi in un lavoro assolutamente inutile e ricavandone, a pochi giorni dalla riapertura al traffico, compresi i veicoli pesanti di cui sopra, un percorso così pieno di gobbe e voragini da vincere il confronto con la famigerata Parigi – Dakar, gara oggi soppressa per ragioni politico-geografiche, che potrebbe benissimo essere ripristinata, proprio qui a Roma, a Piazza Venezia, dividendone il percorso in due infernali tappe: la “via IV Novembre - via Petroselli”, e la “via del Corso – rotatoria per via del Plebiscito”.
Proprio in quel periodo assistevamo riverenti all’operoso martellare dei selciatori. Sapevamo che era un processo artigianale. Loro tranquilli, seduti per terra a sistemare i sanpietrini a mano, come cent’anni fa, mentre tutto intorno il centro storico impazziva.
Noi crediamo di essere persone normali e non riusciamo a comprendere una scelta tecnica che l’esperienza ha già dimostrato essere molto peggiore del problema a cui dovrebbe rimediare.
Se non dandone la colpa alla demenza senile.
Perché oggi, verso le 16, ci siamo trovati di nuovo di fronte a una manifestazione della stessa patologia.
Siamo sotto il Vittoriano. A disposizione dei lavoratori c’è una distesa di sanpietrini pronti per essere posati (che, ammettiamolo, aggiunge un bel look da invasioni barbariche e crollo dell’Impero Romano ai marmi addormentati sotto il sole). Intorno, ovvio, infuria il traffico contemporaneo.
Sfidandolo, ci accostiamo alle transenne e sbirciamo il febbrile procedere dei lavori.
Eccone una fase alla quale abbiamo assistito entusiasti: un forzuto giovanotto, munito di ergonomici guanti, raccoglie da terra i blocchetti a due a due e li deposita sul cucchiaio di una macchina che, quando sarà pieno, (certo, il suo tempo ci vuole!) li trasporterà per consegnarli a questi altri due forzuti: veri bronzi di Riace (quello di destra un po’ meno) i quali procederanno alla loro messa in opera.
Che consiste, lo ripetiamo, nell’appoggiare, seguendo il filo guida, su un letto di sabbia i singoli sanpietrini, uno per uno, batterli con il mazzuolo in modo che si infilino tutti alla stessa profondità, e poi, quando sono in ordine, versarci sopra del catrame liquido misto a brecciolino che tamponerà gli spazi, spandendolo con un bello scopettone, che, come tecnologia, ci sembra perfettamente adeguato al resto della lavorazione.
Non è difficile prevedere che un tipo di pavimentazione così fragile, nata per i piedi nudi dei popolani, per le babbucce dei cardinali, diciamo anche per gli zoccoli di muli e cavalli e, ci vogliamo rovinare, perfino per le ruote di rare carrozze, sprofondi al passaggio del primo bestione motorizzato da tante tonnellate.
E’ successo ogni volta, tante volte. Siamo nel 2020, però il sanpietrino è sacro e non si cambia.
Il titolo del nostro articolo avrebbe dovuto essere “L’epitelioma del Canonico”, ma ce le teniamo da parte per una delle prossime puntate. Possiamo anticiparvi che si tratta del caso di un restauro molto azzardato di un famosissimo quadro rinascimentale con correzione dermatologica non autorizzata del ritratto del protagonista, raccontatoci con il suo consueto garbo e sapienza, per la serie di incontri Dermart, dal nostro amico dermatologo-pittore Massimo Papi.
In una sede prestigiosissima: il palazzo dell’Accademia Lancisiana.
Dell’episodio artistico-poliziesco-dermatologico vi parleremo poi, come detto.
Ma non vogliamo farci e farvi sfuggire questa autentica e ghiotta curiosità archeologica, buttata lì a caso (come si usa a Roma anche per le cose più belle) che abbiamo fotografato nel bellissimo cortile rinascimentale dell’Accademia: un sarcofago biposto.
Garantiamo che la transenna non è inserita: è scolpita nel marmo monolitico del cassone del sarcofago. Fra l’altro la divisione è anche asimmetrica.
Non siamo riusciti a capirne il senso: due bambini grassi? Una coppia di nani? Mistero.
Comunque non ne avevamo mai visto un altro simile.
Per controllare: Borgo S. Spirito N° 3. Gradiremmo spiegazioni, purché plausibili.
…E UN MEA CULPA DOVUTO
“Idee di pietra”: in mostra gli alberi di Giuseppe Penone alle Terme di Caracalla.
“Che bisogno c’è - ci siamo chiesti mentre sotto un cielo lattiginoso di caldo entravamo nell’immenso spazio - di andare a piantare quattro stupidi alberi di alluminio e bronzo dentro le mura di questo vecchio maestoso monumento, quando di alberi belli e veri, di legno e foglie, è pieno il giardino?”
Banalità la nostra; spocchia da visitatori snob che tutto credono di sapere e quindi giudicare sulle meraviglie archeologiche di Roma. Ci sbagliamo.
Di alberi veri è effettivamente piena la città, e guardarli fa bene agli occhi, ma poi, quando uno si trova dentro a questi spazi, si mette a pensare…
Forse è il momento per farci una domanda che è in realtà senza risposta: perché ci piacciono tanto questi mattoni cariati e ormai spogli delle Terme, mentre ci piacciono poco o niente le pareti lucide di marmi del Vittoriano?
Forse perché in queste vediamo solo la pietra, mentre in quelli vediamo anche il tempo che è passato.
Rimane il fatto che questi mozziconi chiaramente artificiali, con i rami carichi di sassi altrettanto pensati, nel grande spazio della natatio delle Terme ci si trovano benissimo, come se ci avessero abitato da sempre.
Contorti, anche loro carichi di tempo, entrano senza sforzo nel racconto del luogo.
Non è una sensazione da raccontare a parole, bastano le immagini.
Il solito è: pizza romana farcita di mozzarella, fiori di zucca e alici; birra e caffè.
Il 13 è il numero del nostro tavolo fisso.
Il locale è l’Appia Antica Caffè dove, ogni volta che possiamo ci trasferiamo in motorino (certo la biga sarebbe più in carattere) per un paio d’ore di archeobenessere sotto quell’ulivo che si vede mentre fa ombra ai basoli bimillenari.
Descritta la destinazione, passiamo a raccontare l’andata (il ritorno di solito è più puntato sul pensiero della siesta a casa in poltrona e quindi meno interessante da dire).
Si imbocca l’Appia Antica, ancora entro le mura, e la si percorre, cercando di non farsi travolgere dal traffico che non ci dovrebbe essere e invece c’è, intenso, e si esce da porta San Sebastiano. Questo è l’unico punto di Roma in cui, appena fuori dalle Mura Aureliane la città finisce veramente, proprio come venti secoli fa, e ci si trova in campagna. Una campagna speciale, di ville seminascoste, trattorie semirustiche e tombe semidiroccate.
Dopo poche centinaia di metri, al bivio con l’Appia Pignatelli ci si può infilare in un cancello che dà accesso a un grandissimo parco di proprietà della Chiesa, quello delle catacombe di S. Callisto.
Uno spazio ricco di qualche sorpresa: la prima che salta fuori da dietro un muro è questo pupazzone bronzeo: San Tarcisio. Sui tre metri d’altezza, non brilla per meriti artistici, ma è accompagnato da una targa che invita alla preghiera e ne narra l’esemplare vita di protettore dei ministranti (non chiedeteci cosa sono).
Si va avanti lungo un bellissimo viale di cipressi e si arriva a una casona, che è la sede del VIS, Volontariato Internazionale per lo Sviluppo, il che sarebbe una notizia di scarso interesse, non fosse che lungo tutta la facciata dell’edificio c’è una delle più belle sfilate di cactus che abbiamo mai visto.
Evidentemente la posizione è perfetta: ottima esposizione al sole, riparo dai venti invernali; insomma, uno splendore di vegetazione desertica.
Con questa spinosa meraviglia il parco di San Callisto finisce e lascia il posto ad altre famose catacombe, quelle di San Sebastiano arricchite dalla bella chiesa omonima.
In cui è conservata quella che è considerata l’ultima fatica di Gian Lorenzo Bernini: un Cristo scolpito a 82 anni, che in noi ha sempre risvegliato il sospetto, forse irrispettoso, di essere un rispettabilissimo falso.
Basta (secondo noi) guardare questa faccia piena di virtuosismo e vuota d’anima. Mai, in nessun ritratto di Bernini abbiamo visto degli occhi così inespressivi, una bocca così molle, una stolidità così marcata.
E poi quei ricci troppo ricci, quel marmo che sembra marmo invece di carne; insomma, nessuna emozione. Quindi non è di Gian Lorenzo.
Ma non siamo arrivati; dobbiamo ancora passare davanti ad altre meraviglie: il Circo di Massenzio, la tomba di Cecilia Metella e il Castrum Caetani.
E finalmente la nostra pizzetta con birra e caffè. E il giornale da leggere in archeobeatitudine.
Cosa desiderare di più (oltre alla pennichella, già in programma, naturalmente?)
In tutto il resto del mondo le radici stanno ben piantate nel profondo della terra per sostenere il vigoroso albero della civiltà e della storia.
A Roma no. Nooo! Da noi gli alberi che prima, sì, erano ben saldi, a un certo punto hanno cominciato a rovesciarsi, ma mica ieri: anni e anni fa, per un temporale, per una sventolata, qualunque la causa; e poi, tagliato il tronco e le fronde, sono rimaste queste evidenti, ingombranti e simboliche radici a cuocersi al sole e ad ammuffire alla pioggia.
Per fortuna questa indistruttibilità è spesso contrastata da una bella dose di gusto dell’arredamento da parte dei cittadini, i quali, non potendo contare su una gestione seria di casa loro, sono obbligati a trasformare la situazione in qualcosa di buffo: non saremo civili, ma almeno si ride.
Fra l’altro si tratta quasi solo di relitti di pini marittimi: gli alberi diventati di moda negli anni trenta del novecento, e quindi piantati con dovizia e, bisogna aggiungere con felice scelta perché non c’è chioma che stia meglio accostata con il suo bel verde scuro al colore caldo dei mattoni e del travertino dei ruderi.
Purtroppo però, si tratta di alberi dalla vita relativamente breve (massimo novant’anni, forse cento) e dalle radici poco profonde, per cui, proprio in questo periodo siamo arrivati al gran finale di molte alberature della città che compiono, appunto, quasi un secolo.
Cosa fa in questi casi una non diciamo eccezionale, ma semplicemente normale amministrazione comunale, quando un albero cade per vecchiaia, malattia o incidente? Lo sostituisce.
Evidentemente dalle nostre parti non hanno ancora capito che per piantare un albero nuovo bisogna prima scavare ed eliminare le radici di quello vecchio.
E così ecco che ci troviamo i parchi, le aiuole, gli spartitraffico segnati da trincee dalle quali emergono tronconi irsuti di radici, che sporgono dal terreno come cannoni puntati contro mura turrite, come tavolini da pic nic ben bene rosicchiati dalle piogge e dai parassiti ma forniti di regolamentare bottiglia, come caduti in battaglia che si inchinano in omaggio alla bandiera o al semaforo, addirittura come bersagli da tirassegno (e qui dobbiamo tributare ancora un applauso di riconoscimento allo spirito della popolazione che, magari si sarà anche indignata, ma intanto ha reagito inventandosi qualcosa che fa sorridere).
E comunque, quello che viene fuori dalla nostra ricognizione è l’infinito, immortale e sicuramente indispensabile salvagente dei romani per sopravvivere a Roma: l’indifferenza a quello che decidono in alto.
Tiriamo a campare.
Per chi non avesse riconosciuto i cimiteri arborei fotografati, siamo passati e ci siamo fermati a Piazzale degli Archivi, a Viale delle Mura Gianicolensi e a Piazza delle Cinque Giornate.
Doh!
Ritroviamo, in un’edizione del 1964, i “Racconti ed Episodi Morali” di quel finissimo predicatore che fu San Bernardino da Siena. Scorriamo con grande diletto gli istruttivi aneddoti, scritti nella prima metà del quattrocento, e cosa troviamo in testa o in coda alle battute più vivaci? “Doh!” quasi a ogni pagina. “Doh, guarda colui quanta crudeltà…”, “Doh! Io mi ricordo…”, “…non debbo io sapere come m’è lecito? Doh, doh!”
Come è noto, nel quattrocento, ma anche nel ’64, non esisteva ancora Homer Simpson, irresistibile per la genialità e anche per i suoi “Doh!” (rimasti uguali nella traduzione italiana).
Ci si manifesta un’ipotesi: Homer Simpson e San Bernardino da Siena separati dai secoli ma abbinati da una coincidenza linguistica?
Mah! Anzi, Doh!
Gambe corte e cuore saldo.
Il nostro spiritoso amico Bruno Lauzi, a proposito degli inni nazionali sosteneva che la statura media dei cittadini, o meglio, la lunghezza delle gambe dei soldati di un paese si può facilmente dedurre dal tempo di metronomo del suo inno nazionale.
Più veloce l’inno, più corte le gambe. Basta confrontare “Fratelli d’Italia” e “God save the Queen” per dargli ragione.
A proposito di metronomo, il tempo della marcia militare è il doppio del battito cardiaco di un uomo giovane e sano. E ancora a proposito di cuori e di battiti (in fondo è musica anche questa) c’è una teoria che un po’ ci affascina, e un po’ ci spaventa.
Sostiene che i cuori di tutti gli esseri viventi sono programmati per battere, in totale, più o meno lo stesso numero di volte prima di fermarsi. E questo determina la durata della vita di ognuno di noi (umani e bestie). Perché se il cuore di un elefante batte 30 volte al minuto, quello di un uomo 60, e quello di un criceto 420, significa che la vita di un uomo dura la metà di quella di un elefante, ma sette volte quella di un criceto.
Per fortuna questo non è più vero, unicamente perché noi abbiamo scoperto la penicillina e l’elefante e il criceto no. Solo adesso, però. Poche centinaia di anni fa il rapporto doveva essere proprio quello.
Il si bemolle dell’alligatore.
C’è uno zoologo americano, che da anni studia gli alligatori della Florida, il quale dopo varie sedute di ascolto dei ribollenti muggiti con cui, nella stagione degli accoppiamenti, i maschi chiamano le femmine ha determinato, diapason alla mano, che si tratta di un si bemolle profondo, uguale per tutti. Naturalmente con qualche piccola variazione di timbro: nessuno rinuncia a fare il solista se può, specialmente in occasione di un fidanzamento.
Come confermare scientificamente? Idea: il giornalista chiama un amico, affermato solista di basso tuba nella locale orchestra, il quale acconsente, lo strumento in spalla, a scendere in palude. Si piazza sull’imbarcadero, piedi a penzoloni e tuba imbracciata, e si mette a sparare, con un certo sforzo perché non è una nota facile, una raffica di si bemolle bassi.
Successo: decine di alligatrici (?) affiorano nello stagno in risposta al richiamo irresistibile.
Il maschio non lo trovano, ma l’esperimento è riuscito
Peperoncino.
Ripassiamo insieme il piccante argomento: l’Italia non è in grado di soddisfare la richiesta interna, quindi importa il 70% del fabbisogno da Pakistan, India e Messico. Il capsicum annuum è la specie più coltivata da noi. E’ originario del Sud America ed è stato portato in Europa da Colombo.
La piccantezza non è un gusto, ma una sensazione; infatti l’alcaloide che la provoca è incolore e insapore.
Il suo grado di intensità si esprime in punti di una scala vertiginosa: quella di Scoville. Il campione fino al 2006 era l’Habanero Red Savina, messicano, con 577.000 punti. Surclassato l’anno dopo dall’ibrido indiano Naga Jolokia, 1.041.427 punti, e oggi siamo arrivati a un milione e quattrocentomila con il Trinidad Moruga Scorpion. Numeri che sembrano esagerati ma, ci dicono, ufficiali. Ah, dimenticavamo: il peperoncino è ricchissimo di vitamina C; molto più degli agrumi. Per ognuno di noi, una presina dovrebbe bastare per tutta la giornata.
A questo punto, tutti in trattoria per un bel piatto di penne all’arrabbiata.
Distrazione. Pochissimi se ne accorgono, perché pochi alzano gli occhi. A Piazza Fiume, proprio sopra il parcheggio dei taxi, sulle Mura Aureliane c’è una latrina militare dell’epoca (III secolo d.C.), molto ben conservata.
E’ un casottino montato su due mensole che sporge in alto dalla muraglia, con un semplice buco sul fondo, sotto il quale si allarga sul muro una bella traccia di corrosione, a giudicare dalla quale il rancio della guarnigione doveva essere piuttosto sul pesante
Facile immaginare il fetore di questi bugigattoli (ce n’erano parecchie decine lungo tutto il perimetro), mentre ci sorprende sempre la constatazione che fuori delle mura si stendeva evidentemente la terra di nessuno, un luogo dove si buttava tranquillamente di tutto, considerandola (e forse lo era davvero) una discarica
Paura. Di ritorno da un giro a Gallicano nel Lazio, a Poli, a San Vittorino. Paesi di tufo scuro, castelli minacciosi, mura robuste, porte d’accesso anguste. Quanta paura ci doveva essere nell’aria in quei secoli.
Bisognava rinchiudersi la sera, sbarrare le porte dei borghi e tremare al buio fino alla mattina dopo pregando che non arrivassero i saraceni, o i briganti, o magari proprio il barone di zona in vena di razzie. E così tutti i giorni e le notti. Fino all’arrivo dell’elettricità che magari non ci avrà liberati dalla paura della vita, ma da quella del buio, sì.
Ruderi. Spesso i contorni degli anfiteatri romani sono svelati dalla presenza di alberi, di solito querce, che ci crescono sopra. Come mai proprio lì? E’ che spesso la pianta nasce da una ghianda nascosta da qualche scoiattolo per mangiarsela più tardi, e poi dimenticata. Vengono su bene perché così in alto sono al riparo da capre e pecore.
Questo è il bello spirito di sopravvivenza della natura, che ci commuove nei documentari. Il brutto è il disastro che le radici dei nostri alberelli, poi alberoni, riescono a fare. Mattoni sgretolati, marmi divelti. Insomma, bastano poche generazioni dalla ghianda originale per ridurre tutto di nuovo in polvere.
Il posteriore dell’elefantino. Queste zampotte, queste chiappone, questa coda che sembra una proboscide nel posto sbagliato appartengono all’elefantino di marmo che regge l’obelisco della Minerva, progettato da Gian Lorenzo Bernini che, a quanto si racconta, aveva in viva antipatia i Domenicani.
All’epoca sarebbe stato a dir poco imprudente manifestare simile sentimento verso quel potentissimo ordine (che fra l’altro aveva in appalto l’inquisizione), e allora il nostro che, in quanto artista, poteva permettersi qualche capriccio, osò, puntando il posteriore dell’animale proprio in faccia (il posteriore, in faccia…) al portone d’ingresso del loro palazzo.
Probabilmente lo scherzo fu benevolmente ignorato o non compreso: fatto sta che a Gian Lorenzo non accadde nulla.
Gioventù Italiana del Littorio. Su Via Parco del Celio, una stradina con vista sul Colosseo, si affaccia un bell’edificio appena restaurato, di cui ci sfugge la destinazione. Fatto sta che sulla facciata risplende, fresca di vernice e così perfettamente leggibile che sembra fatta ieri, la scritta Gioventù Italiana del Littorio. E appena sotto si intravede un’altra scritta che dice Opera Nazionale Balilla.
Come luogo siamo a Roma, non ci sono dubbi, ma come data ci dobbiamo essere sbagliati: credevamo di essere nel 2022, e invece è ancora il 1938.
Anche i Santi e i Beati giacciono; nel senso che spesso li sorprendiamo adagiati su un pagliericcio di fortuna, su un letto di marmo, su un divanetto imbottito.
C’è qualcosa di sorprendente in queste figure che vediamo in giro per le chiese di Roma. In qualche modo sembra che abbiano rinunciato alla loro nobile postura eretta di difensori della fede, di protettori delle umane debolezze, di tramite con il supremo.
Ci sono quelli che se ne stanno impettiti nel rigor mortis, quelli belli e sereni a dormicchiare nella pace del Signore, quelli che invece si contorcono su un letto di dolore, e poi ci sono anche quelli (più che altro quelle) le cui contorsioni e i dolori sembrano proprio speciali.
Cominciamo con un Santo di scarsissimo appeal e notorietà: si tratta di San Carlo da Sezze, contadino, ortolano e portinaio del suo convento. Mai sentito, vero? Eccolo là, sul suo sofà, con un modestissimo saio, però con una bella tendina ricamata e una pia espressione di rassegnazione. Chiesa di S. Francesco a Ripa.
Invece questo austero signore in gran tenuta, colorito verdastro ed espressione decisamente grifagna, con le mani più che congiunte in preghiera, contratte in una posa di stizzoso imperio, altri non è che il Beato Angelo Paoli, che riempie con la sua imponente presenza una teca di cristallo a S. Martino ai Monti. Benefattore dei poveri, di lui si dice che nutriva ogni giorno almeno trecento affamati.
E adesso, con un monumento particolarissimo, veniamo a presentare un Santo specialissimo: San Stanislao Kostka. Questo giovanotto, scolpito in marmo nero e bianco, sdraiato su un giaciglio di giallo antico con sotto uno scendiletto di alabastro, è un gesuita polacco, morto quattro secoli fa ad appena diciott’anni, consumato dal fuoco della santa passione (e dalla tisi).
La sua stupefacente statua la si può andare a trovare arrampicandosi fino alle soffitte sopra la sacrestia della chiesa di S. Andrea al Quirinale, in una cappellina strapiena di panneggi, dorature e stucchi che più barocca non si può.
Sull’Appia Antica, invece, dalle parti di Cecilia Metella, lo troviamo trafitto dalle frecce, contorto in uno spasmo di dolore quasi estatico e, (la foto è recentissima) ornato da una allusiva anche se incongrua bandiera ucraina. E’ lui, l’icona gay più nota nella storia dell’arte: San Sebastiano. Naturalmente nell’omonima chiesa alle Catacombe.
La sua classica posizione di accoglimento mistico del dardo che penetra la carne, non può non portarci per associazione a S. Francesco a Ripa, dalla Beata Albertoni, la quale, anche se non colpita da nessuna visibile arma, cade vittima della stessa estasi.
Ci e vi risparmiamo l’ovvio supremo esempio, quella di Santa Teresa, nella chiesa di S. Maria della Vittoria. Contiamo sul fatto che tutti l’abbiano vista. Per la maggior gloria della Santa, ma anche del Bernini.
E finalmente, dopo questo trionfo di cere e di marmi, ecco a voi San Camillo De Lellis, che ci riceve nella sua chiesa, la Maddalena, apparecchiato in un look decisamente e naturalisticamente essenziale.
Con lui il problema di rappresentare il santo giacente è, diremmo, ridotto all’osso
Giorgio Carnini è oggi il principe degli organisti italiani. Un principe indignato, e a ragione: la prima sala da concerto di Roma all’Auditorium non ha un organo!
Questo significa che per eseguire alcune composizioni del grande repertorio sinfonico, l’Orchestra di Santa Cecilia è costretta a usare una tastiera elettronica.
Contro questa indecenza il principe Carnini si è inventato una manifestazione che si chiama “Un organo per Roma” e che da un certo numero di anni, per sostenere l’idea che l’organo ci deve essere, porta sul palco una serie di concerti all’inizio dei quali il Maestro racconta al pubblico come, nel progetto di Renzo Piano dell’Auditorium di Roma, lo spazio per il grand’organo era previsto, e c’erano anche i soldi per comprarlo; però il sovrintendente dell’epoca per imperscrutabili capricci personali disse di no, e l’organo non si fece. Vergogna e indignazione.
Domenica otto, primo concerto della stagione, dopo due anni di stop da emergenza sanitaria: quattro organisti, un coro e un quintetto di ottoni. Tutto Bach (più un paio di compositori contemporanei con parafrasi e riferimenti al grande padre).
Carnini ha aperto suonando la famosissima toccata e fuga in re minore con una partecipazione vibrata e uno swing trascinante. Sì, perché anche Bach (mica solo il jazz) si può suonare con swing; anzi, così riesce ancora più bello.
Mentre si arrampicava sulla panca dell’organo, gli abbiamo guardato le scarpe, a Carnini: nere, affusolate e a pianta stretta. E ci è tornato in mente quello che ci aveva raccontato un suo collega, l’organista Luigi Celeghin a un concerto a S. Giovanni dei Fiorentini tempo fa: guai a sbagliare le calzature della serata. Con tutto lo sgambettare che fai alla pedaliera, un paio di scarpe a pianta larga significano incastri di piedi e catastrofe assicurata.
Mica solo alle scarpe abbiamo pensato durante il concerto; ci siamo anche accorti che ci mancava una cosa: l’eco della voce dell’organo quando lo si ascolta in chiesa. Che tecnicamente è un problema, soprattutto per la registrazione con gli altri strumenti; e infatti le sale da concerto come quella del Conservatorio lo hanno neutralizzato. Il che rende il suono degli strumenti pulitissimo e asciutto; ma vuoi mettere il fascino delle note che girano sotto le volte e fra gli archi e si moltiplicano e crescono e rimbalzano….
E qui è riemersa nel nostro ricordo (non eravamo distratti, era solo che la nostra mente andava in tante direzioni) la suggestiva teoria, non ci ricordiamo di chi, secondo cui la polifonia è nata proprio in una chiesa. Una nota di un frate cantore che si prolunga nel riverbero fra le navate, seguita da un'altra che si sovrappone alla sua coda e ancora da una terza, ed ecco creato l’accordo. Plausibile, non è vero?
Insieme all’organo era di scena l’ottimo coro “Soli Deo Gloria”, diretto da Giuseppe Galli, un ensemble di inappuntabili professionisti tutti rigorosamente in nero compatto, ma con il gradito, inaspettato strappo alla regola rappresentato dalla generosissima offerta delle gambe di una delle signore (soprano o contralto?)
Ascoltare un coro ci commuove sempre, quando poi cantano Bach l’emozione è garantita; stavolta però inquinata per noi da un certo dispetto esprimibile in una domanda che ci trapana il cervello.
Ma perché nelle chiese italiane, con l’infinito repertorio che abbiamo a disposizione, durante la messa l’unico momento di musica è rappresentato dalle patetiche canzoncine di un paio di suorine con le chitarrine, sostenute, quando va bene, da altrettanti chierichetti con i bonghetti?
P.S. Tanto per non lasciare niente in sospeso, il sovrintendente di Santa Cecilia all’epoca del misfatto era Luciano Berio, R.I.P.
Si scendono quarantuno gradini (cercando di sopravvivere ai miasmi urinali che aromatizzano tutte le scalette che dal livello della città portano al fiume) e si è all’altro mondo. Un mondo che vive a una quindicina di metri dalla cima dei muraglioni (brutti ma indispensabili, altrimenti ogni inverno saremmo sott’acqua).
Questo mondo è un’isola, che si chiama, non sorprendentemente, Isola Tiberina. Eccola com’era ai tempi dell’antica Roma: una nave di marmo che seguiva con prua, poppa e fiancate scolpite nel travertino la forma di quello che in origine doveva essere un banco di fango, usato dai primi burini che ci abitavano per passare dall’altra parte.
Crolli, distruzioni, ricostruzioni; adesso c’è il grande ospedale Fatebenefratelli, la chiesa di San Bartolomeo e, soprattutto, il ristorante della Sora Lella, infilato nella medievale torre Caetani, dalla quale sporge sul greto del fiume uno di quei casottini anticamente chiamati recessi, da cui precipitavano lungo una canna senza sifone gli scarti della digestione dei castellani.
In questo caso, dato che ci pare (azzardiamo per amore del brivido, ma non ne siamo affatto sicuri) che detto recesso possa trovarsi sul retro di detta famosa trattoria romanesca non resistiamo alla tentazione di immaginare (sempre sperando che la realtà sia diversa) quale compost di fagioli con le cotiche o di coda alla vaccinara possa, nell’ora della digestione, scorrere lungo il tubo qui fotografato piombando dritto nelle acque del biondo Tevere.
Intendiamoci, l’isola ha anche il suo fascino botanico che, mescolato con l’altrettanto affascinante richiamo storico delle sue pietre e sonorizzato dal mugghiare potente delle acque le dà un tono da documentario naturalistico-culturale. Roba da BBC.
Come sappiamo noi che invece di intrupparci su qualche spiaggia rimaniamo in città, d’estate l’Isola Tiberina diventa il centro di tante manifestazioni: concerti, cinema, friggitorie; insomma una quantità di faccende divertenti e istruttive, le quali, a fine ciclo si lasciano dietro strutture che, se noi che rimaniamo in città fossimo persone civili, durerebbero fino alla stagione successiva.
Invece, siccome civili proprio non lo siamo, tutto quello che è pubblico viene vandalizzato e rimane, rotto e scrostato, ad arrugginire durante l’inverno.
Ma per fortuna c’è qualcuno, nel nostro caso un ignoto pittore, che a inizio primavera è stato sorpreso a tentare (e a riuscirci) di recuperare una serie di pannelli scassati con l’uso paziente di pennelli e vernice.
Ne è uscita una serie di quadretti floreali che noi abbiamo ammirato come meritavano.
Però sul retro di uno di questi il nostro artista, probabilmente stremato dalla sua missione di civiltà non è riuscito a trattenersi e ha lasciato questa breve ma sentita dichiarazione.
Oggi, ultimo giorno di aprile, dopo aver ben mangiato e ben bevuto in terrazza da amici, decidiamo di perfezionare la giornata con qualcosa di culturale.
Le cinque del pomeriggio: l’ora giusta per il primo stupore, che è di tipo magico. Il sole è già abbastanza basso dietro l’abside di S. Maria in Campitelli: siamo pronti per il miracolo barocco. Entriamo in una grande navata tutta bianca e grigia, con sul fondo il trionfo d’oro dell’Altare Maggiore.
E’ così ricco che sbalordisce; questo è sempre il fine della scenografia barocca: sbalordire. Ma noi stiamo parlando di stupore: vogliamo di più. E allora avviciniamoci all’altare, e quando siamo a pochi passi alziamo lo sguardo: in alto, proprio sopra l’arco dell’abside c’è una finestra ovale che, se uno non sa, neanche la nota.
Invece il miracolo sta proprio lì. L’abside è orientata verso il tramonto. In quella finestra c’è un’apertura nella quale sono murati, in croce, due frammenti di una colonnina tortile romana. Il sole che cala penetra l’alabastro di cui sono fatti; poi, mentre scivola lungo le scanalature, aggiunge fiamma e oro al translucore del marmo e provoca questa che davvero è magia, perfino per noi che sappiamo tutto sull’illuminazione elettrica.
Figurarsi l’impressione su un ingenuo fedele di quattrocento anni fa abituato al massimo a un mozzicone di candela.
Rimaniamo pure a Piazza Campitelli, entriamo alla Galleria Mattia De Luca dove si inaugura la mostra: “Il tempo sospeso”, ed ecco, dopo il precedente ribollire di splendore barocco, arriva il secondo stupore, che è di tipo moscio.
Le bottigliette monocrome e monotone di Morandi!
Siamo consapevoli del baratro nel quale stiamo per essere precipitati da tutti coloro che considerano quello di Giorgio Morandi un “nome gigantesco dell’arte italiana tanto noto quanto amato…che porta a quelle al tempo stesso rarefatte e solide, delicate e forti composizioni di oggetti tra i più banali e umili della quotidianità” (parole della presentazione).
Da sempre per noi (ecco di cosa ci stupiamo, sentendo in ogni caso il bisogno di ribadire il nostro rispetto per la scelta dell’artista, per la reazione della critica e per l’universale amore del pubblico) guardare una natura morta di Morandi provoca l’appiattirsi di qualsiasi emozione, sostituita dalla noia di osservare (non vitalizzati da subbuglio artistico) la rappresentazione, a nostro parere “banale e umile”, di quegli “oggetti tra i più banali e umili della quotidianità” come li descrive il testo.
Probabilmente abbiamo torto a non capire l’artista e a non condividerne l’universale successo, e, ripetiamo, ci stupiamo della nostra incapacità; ma forse potremmo anche avere ragione.
Per fortuna, “De gustibus…”
La settimana scorsa, due piccole mostre ai Musei Capitolini, oggi altre due ai Mercati Traianei Evidentemente la coincidenza con l’inaugurazione della Biennale d’Arte di Venezia, dove, a quanto ci raccontano si tratta quasi solo di giochi e giochetti da ragazzi, ha fatto un po’ perdere l’equilibrio agli organizzatori di “Synesthesia”.
In un casottino di legno è sistemata una grande sfera di garza con un buco. Se ci si guarda dentro un obiettivo cattura l’occhio e lo riproietta all’interno della sfera con un sottofondo musicale di scarso impatto.
Tutto qui. La didascalia di accompagnamento naturalmente dice molto di più: ”Synesthesia è una collezione coreografata di organi umani proiettati, stratificati e sovrapposti in una maglia unificante” eccetera, eccetera. Boh!
Uno dei custodi ci ha confermato il nostro “boh!” e ha aggiunto: “Semo troppo vecchi pe’ capì ste cose!”
L’altra mostricina è più divertente: “1932 – l’elefante e il colle perduto” e racconta per immagini il ritrovamento, durante i lavori mussoliniani di costruzione della Via dell’Impero, fra i nobili resti di monumenti romani, di un cranio di elephas antiquus, completo di una bella zanna di un paio di metri, esposta per la meraviglia dei visitatori.
Anche qui le didascalie, meno pompose, descrivono (il colle perduto è la Velia, un’altura di pochi metri che bloccava il passaggio verso il Colosseo, eliminata durante gli scavi) la scoperta.
E fra i reperti esposti c’è addirittura il baule dove sono state conservate fino a oggi, in fondo a qualche magazzino comunale, queste ossa antiche
Non vogliamo fare i bacchettoni e lamentarci che in nobili istituzioni come i Musei Capitolini o i Fori Imperiali non si debbano ospitare eventi minimali, se non addirittura giocosi.
Anche perché a impedirci questo pensiero reazionario ci si affaccia in fondo al cervello la considerazione che in luoghi ben più lussuosi dei musei testé citati, edifici brulicanti di marmi colorati, bronzi dorati, capolavori d’arte, colonne colossali e cascate di acqua calda e fredda, cioè le Terme del periodo di massimo lusso dell’Impero, in mezzo a tutte queste meraviglie, dicevamo, si aggirava, venti secoli fa, una bella ammucchiata di romani in mutande. Quindi…
Quindi, stiamo calmi, anche perché, volendosi consolare con qualcosa di più maestoso, costruito con una materia più nobile della garza, frutto di talenti a noi sconosciuti, ma di evidente livello, basta girare l’occhio verso un angolo qualsiasi di questi saloni.
Dovunque la storia recuperata ci fornisce anche solo con il frammento di un architrave della Basilica Ulpia, caduto a terra durante qualche terremoto dell’oscuro medio evo, la testimonianza di un passato glorioso di gusto e ricchezza.
Martedì 12 aprile; ci sono da vedere ai Musei Capitolini un paio di quelle piccole mostre che servono a ricordare al pubblico che la grande vecchia casa che le ospita esiste e respira ancora: “I co-lori dell’antico” e “Cursus honorum”.
E’ una bella giornata e lungo la cordonata che sale al Campidoglio (alla quale siamo arrivati rischiando la pelle) ci accolgono la statua di Cola di Rienzo, la facciata dell’Aracoeli, il palazzo dei Conservatori, sede del museo, un rigoglioso glicine in fiore e un ombù, che è l’albero nazionale argentino, di cui non riusciamo a spiegarci la presenza sul primo colle di Roma. E non è l’unico fatto che non riusciamo a spiegarci, ma ci ritorneremo.
Piazza Venezia, centro della città, imbuto e sfiatatoio di importanti percorsi turistici e commerciali, come tale sede di un infernale carosello di traffico che si avvita in un flusso terrificante, è molto grande e isola come il fossato di un castello i principali monumenti della Roma antica, medievale e moderna.
Il fatto è che per arrivare alla chiesa dell’Aracoeli, per arrivare al Campidoglio, dove c’è il Comune di Roma, per arrivare ai Musei Capitolini, per arrivare all’Altare della Patria, per arrivare al Museo del Risorgimento, per arrivare al Foro Traiano bisogna attraversare questa violenta slavina di traffico, oltretutto male illuminata di sera.
E non c’è un solo semaforo che rallenti i veicoli e dia una minima sicurezza ai pedoni. E ci sono pochissimi attraversamenti su strisce che definire scolorite è poco. Il resto è terra di nessuno.
E allora si assiste allo smarrito raggrupparsi di turisti (e anche di cittadini altrettanto impauriti) i quali, usciti dai musei o dalla chiesa o semplicemente a spasso per affari loro, con gli occhi pieni di arte e magari, come è loro diritto, con la testa fra le nuvole, ai piedi della scalinata e della cordonata si serrano come gruppi di antilopi terrorizzate dalla carica del bus-rinoceronte che rischia di travolgerli.
L’unica possibilità è un atto di supremo sprezzo del pericolo e buttarsi, sperando che il mondo su ruote abbia un po’ d’attenzione per te.
Certo, sopravvivendo, quello che si trova nei saloni in cima al colle merita il rischio: da quanta roba bella c’è, esposta a volte con quella mancanza di solennità ufficiale che rende la visita un’avventura personale, intima, emozionante.
Ma questo perché deve succedere?
Ci troviamo in un luogo che concentra tutto il capitale di bellezza, di arte, di storia di Roma. Una miniera d’oro, letteralmente, il cui sfruttamento non richiederebbe particolari capacità, o grandi investimenti economici, o lampi di genio, perché è tutto lì a disposizione di tutti, sotto il sole e il famigerato ponentino.
Basterebbe solo renderlo meno pericoloso, ovvero più civile.
E siccome nessuno lo fa, ci nascono in testa due pensieri opposti, e sono quelli che ci rendono attoniti e increduli.
Il primo, di tipo complottistico-mafioso, ci dice che ci dev’essere sotto una qualche manovra che serve a portare in tasca a qualcuno qualcosa, frutto di questa perseverante immobile cialtroneria. Sconsolante e francamente quasi inaccettabile, ma almeno dà spazio a un, anche se perverso, ragionamento.
Il secondo, che annulla il primo, è più tragico perché non offre salvezza. Eccolo condensato in una sconsolante citazione, non ricordiamo da chi, ma terribilmente aderente alla nostra situazione e a chi ne deve essere responsabile.
Mai attribuire alla malizia ciò che può essere spiegato con la stupidità.
E’ finito l’inverno; sole tiepido, piante in boccio e uccellini cip cip. Ci sentiamo figli dei fiori, un bel po’ di anni in ritardo, ma agguerriti.
E cosa fa un figlio dei fiori? Tutto quello che non farebbe un borghese. Malgrado ci abbiano detto che non c’è quasi niente da vedere (siamo furbi, a noi non ci imbrogliano!) decidiamo di andare lo stesso al museo di Villa Farnesina.
Lì ci sarebbero tre cose importanti. La sala delle prospettive di Peruzzi: quasi inaccessibile. La sala di Galatea di Raffaello: decisamente proibita, in quanto, insieme all’altra, ma di più, è sotto restauro (chissà se con il Superbonus 110%.)
E, al piano terra, la loggia di Psiche che, invece è nostra. Ce la guardiamo ben bene e, naturalmente, rimaniamo debitamente colpiti dalla magnificenza degli affreschi, dipinti dalla mano dei suoi allievi ma su disegni del grande maestro Raffaello.
Poi facciamo quello che qualunque figlio dei fiori farebbe in un museo come questo: usciamo all’esterno, dove la natura sostituisce le opere d’arte.
Il giardino è in realtà un bellissimo agrumeto, di cui ecco un campione che non siamo in grado di identificare: un mandarino? Un pompelmo? Un arancio? In ogni caso bello, colorato e succoso.
Rientriamo ma continuiamo a guardare dalle finestre. Stavolta la nostra attenzione è tutta per il magnifico cedro che ci stupisce attraverso la massiccia inferriata del pianterreno.
Nell’itinerario di visita (quello borghese, non quello alternativo) è prevista la salita al piano di sopra, dove sappiamo che ci aspetterebbe la magica sala di Galatea, capolavoro assoluto del rinascimento.
Ma, come già detto, la Galatea è in restauro e non ci riceve: è colpa sua e allora siamo a posto con la coscienza: possiamo continuare a svolazzare da bravi farfalloni primaverili.
Ed è quasi del tutto inavvicinabile, perché impacchettata per il restauro, anche la Sala delle Prospettive. Stesso sgravio di responsabilità per noi. I tendoni ci permettono solo di sbirciare i graffiti lasciati da qualche insolente Lanzichenecco durante il sacco di Roma proprio sul cielo di uno dei panorami romani dipinti sul muro.
Li hanno decifrati, questi blasfemi scarabocchi, e c’è scritto: “1528 – perché io che scrivo non dovrei ridere? I Lanzichenecchi hanno fatto scappare il Papa”.
Come vandalismi non andavano per il sottile neanche allora.
Però, perché stupirci? In fondo erano, appunto, dei Lanzichenecchi.
P.S. Ci sentiamo obbligati a riferire che la invisibilità dei due saloni era doverosamente segnalata all’ingresso; ma allora, se c’è così poco da vedere, non sarebbe più carino chiudere addirittura il museo fino a conclusione dei lavori?
“Jesus Christ Superstar”. Una meravigliosa avventura di mezzo secolo fa che ci è tornata in mente leggendo il Trovaroma di questa settimana, dove si annuncia il ritorno del Musical al Sistina, messo in scena da Massimo Piparo.
Colpiti da subitanea nostalgia, ci siamo chiusi in casa a rivedere il film, a riascoltare le canzoni, e ci è franato addosso il mezzo secolo passato.
Noi c’eravamo, allora, e non è che non ci fossimo accorti di vedere e ascoltare qualcosa di nuovo, di bello. Eccome se ce n’eravamo accorti, anche perché gli attori erano come noi, magri, capelloni, giovani. Il macigno che ci schiaccia è sapere, adesso, che stava accadendo la storia, e noi invece, allora, credevamo che fosse solo la vita.
Non ci si accorge di viverla, la storia, mentre succede. Ci vuole del tempo e qualcuno che poi te lo dica. Solo a quel punto te ne rendi conto. E naturalmente è troppo tardi per dare ai giorni passati la stessa emozione che provi adesso a ripensarli. Tu qui, come uno scemo, perché solo ora ti accorgi del momento fantastico che hai vissuto; e guardi il te stesso di allora, sempre lo stesso scemo, perché lo stavi vivendo, quel momento, e non te ne accorgevi. E allora magari viene fuori il solito: “Ah, se potessi rinascere...” che è la cosa più stupida che si possa dire.
Invece ci sarebbe da dire qualcosa sulla musica. “Jesus Christ Superstar”, “Evita”, “My Fair Lady” sono sempre lì, collocate dalla critica colta un gradino più giù nella scala della rispettabilità musicale. La vera Opera che conta, finisce più o meno con Puccini. Seguono cosette, tipo “Il telefono” di Menotti o “Il cappello di paglia” di Rota, comunque considerate opere a pieno titolo. Un paio di cosone che invece si chiamano “Porgy and Bess” o “West Side Story”, non siamo mica sicuri in quale categoria le piazzino i professori.
Se ci sediamo un momento ad ascoltare “Don’t cry for me Argentina” e poi passiamo a “Un bel dì vedremo”, vorremmo sapere che differenza c’è. Sono tutte e due bellissime canzoni operistiche, con la stessa identica dignità musicale. Per noi l’opera continua a vivere, ormai con lo pseudonimo di musical, anche dopo essere emigrata in America; ma è sempre opera, cioè uno spettacolo popolare pieno di (belle) canzoni.
Stiamo ancora pagando le conseguenze di quella fasulla separazione, nata chissà quando e perché, fra musica seria e musica leggera che ha permesso ai parrucconi di guardare dall’alto in basso i musicisti pop (che c’erano, c’erano anche allora.)
I quali, appena capito come funzionava il mercato, si sono abbondantemente rifatti del disprezzo degli accademici rastrellando, alla faccia loro, soldi, successo e ragazze.
Su Via della Lungara si affaccia il sontuoso Palazzo Corsini. Sul retro dello stesso c’è un grande bellissimo giardino d’onore che una volta si allargava in un immenso parco arrampicato fino alla cima del Gianicolo. Al centro del parco la fontana dei tritoni, commissionata al povero scultore Poddi dal prepotente Cardinal Corsini, al quale non piacque e gliela pagò un decimo del compenso pattuito. All’epoca non c’era da protestare: era chiaro chi avrebbe avuto la meglio fra un Principe della Chiesa e un artista.
Era un po’ che non riprendevamo (anche per il freddo) il piacere delle nostre passeggiate in questa parte dell’ex giardino, ora promosso a Orto Botanico di Roma.
Fatti i primi due passi, l’altro giorno, ci è preso un colpo: un Neovenator Salorii ringhiava alla nostra destra, a sinistra una Tarchia Gigantea preparava un agguato, laggiù in fondo ci sbirciava un Parasaurolophus Walkeri.
Eravamo finiti nel Jurassic Garden de Trastevere.
Poi, dagli strilli di terrorizzato entusiasmo di un gruppo di bambini piccolissimi abbiamo capito che si trattava di una adunata di animali preistorici, riprodotti con grande fedeltà e piazzati in mezzo alla vegetazione con perfetta sapienza naturalistica. Titolo dell’evento: “L’Impero dei Dinosauri”, Associazione Paleontologica e Università La Sapienza.
Ammettiamo, per quel che è durato, di esserci sentiti bambini anche noi.
Ma, a parte i rettili giurassici, l’Orto Botanico esiste davvero ed è pieno di sequoie gigantesche, di palme vertiginose, di piante acquatiche o carnivore, di serre in cui si contorcono cactus di ogni taglia e bizzarria.
E soprattutto dotati di carattere: da quelli arrabbiatissimi con il loro groviglio infernale di spine, a quelli decisamente docili; così ben disposti da trasformare le minacciose armi in morbidi batuffoli di ovatta.
Proprio in fondo a una di queste serre non possiamo fare a meno di fermarci folgorati da una magnifica vasca di marmo bigio in cui cresce, senza evidentemente rendersi conto di dove ha messo le radici, un plotoncino di cactus a colonna.
Un bel cartello lì accanto ci informa che in quella stessa vasca (incredibili risvolti della storia, che solo a Roma…) faceva il bagno verso la fine del secolo diciassettesimo la regina Cristina di Svezia, all’epoca residente a Palazzo Corsini.
Date le abitudini igieniche del periodo non crediamo che la bagnarola sia stata molto utilizzata, quindi non c’è da temere nessun eccessivo logorio in questo antico manufatto artistico e funzionale.
Rimane la notizia, comunque curiosa, di un recupero storico-botanico davvero fuori del comune.
Si entra in un magnifico salone dalle prospettive immense; poi, cammina cammina si arriva ai piedi di una grandiosa interminabile scalinata; poi, cammina cammina si sale a uno sterminato chiostro con al centro il vuoto dello scalone. E tutto senza incontrare un essere vivente. Questo è l’ingresso al sistema di Musei dell’EUR, che comprende il Museo Etnografico Pigorini, il Museo dell’Alto Medioevo, il Museo delle Arti e delle Tradizioni Popolari e il Museo della Civiltà Romana.
Il tutto inserito in quei mirabili esempi di sontuose proporzioni razionaliste dell’ex E42, mantenuto in perfetto ordine da un personale di squisita cortesia, con un’organizzazione espositiva inappuntabile, un contenuto di raro interesse e a un prezzo assolutamente trascurabile.
Raramente ci avete letto così entusiasti, senza riserve. Beh, la festa finisce qui.
Tanto per cominciare recitiamo le esequie del Museo che, se fosse ancora in vita, sarebbe il più interessante dei quattro: quello della Civiltà Romana. Oltre ai richiami alla storia dell’Urbe, offriva alla vista, in diretta e dall’alto, un documento strabiliante: il grandissimo plastico di Roma al momento del suo splendore. L’unico elemento a nostra conoscenza (e ne conosciamo, come sanno i nostri lettori) dal quale si capisse senza bisogno di spiegazioni com’era fatta la città e dov’erano i monumenti. Niente. Tutto chiuso per ipotetici restauri, da anni.
Gli altri tre sono ancora in vita, ma sospesa.
Come abbiamo già raccontato: in ambienti che sembrano, nella loro perfezione, presi da un manuale di architettura, godibili per la loro pulizia perfetta, l’illuminazione pensata bene, il materiale di forte impatto.
Abbiamo girato per le sale senza mascherina perché sapevamo di potercelo permettere, unici visitatori in tutto l’edificio, oltre a una famigliola di mamma, papà e bambino, con i quali ci si salutava a ogni incontro davanti alle bacheche.
Ora, per noi appassionati di ogni curiosità museale, il privilegio di poter visitare da soli un’intera collezione non è cosa da poco: eravamo più che soddisfatti. Ma per una istituzione pubblica dover contare per il proprio sostentamento su un’unica coppia di visitatori in una mattinata (il Cavaliere e il bambino entrambi usufruenti di ingresso gratuito) ci è sembrata una sciagura culturale.
Di chi o di cosa è la colpa? I turisti normali, è ovvio, rimangono a Piazza di Spagna o a Fontana di Trevi a farsi il loro giretto canonico e non arrivano quaggiù (e chi potrebbe dargli torto?)
Quindi, senza interventi, questa dei quattro musei è destinata a rimanere un’iniziativa locale: di quel paesello che si chiama EUR. Certo, se continua a nascondere tutto in un’ombra colpevole, come sembra voler fare, il Comune, senza pubblicità, senza iniziative promozionali, neanche scolastiche, dove si aspetta di arrivare?
P.S. Tanto per chiarire. Quella solitaria sagoma che nelle foto si vede là in fondo, contro la vetrata, non è un visitatore: è il busto bronzeo del Sig. Pigorini, fondatore del museo.
La lapide: uno per prima cosa pensa al cimitero, poi pensa a qualche avvenimento storico da commemorare, poi a Garibaldi, il quale avrebbe dovuto campare più di un secolo per riuscire a dormire in tutti i letti che, secondo le lapidi che lo citano, lo hanno accolto in giro per l’Italia.
No, basta passeggiare per Roma col naso all’in su (o all’in giù, secondo i casi) e ci si può sbizzarrire a indovinare l’epoca della creazione, le inclinazioni e le debolezze dell’autore o del destinata-rio dei messaggi incisi nel marmo.
Questo primo, per esempio, che orna il pavimento della chiesa di S. Pietro in Carcere, è così smaccatamente umile nel suo messaggio: “QUI GIACE QUEL MASSIMO PECCATORE, CHE FU CANONICO DI QUESTA CHIESA…” da risultare ridicolmente presuntuoso. “Era talmente importante da non ritenere necessario scrivere il suo nome!?”
Qui invece si chiarisce la destinazione d’uso dell’istituto (il carcere femminile di San Michele a Ripa Grande). Che è ben chiara sulla lapide: “PER REPRIMERE LA SFRENATEZZA DELLE DONNE…” Probabilmente povere ragazze costrette alla prostituzione dalla miseria, che quel morali-sta ambivalente di Clemente XII considerava meritevoli solo del carcere e non della scuola.
Ambivalente, il nostro, perché, mentre da una parte reprimeva, dall’altra aveva rimesso in fun-zione il gioco del lotto con la scusa che gli introiti di questo immorale sfruttamento del popolo gli servivano per fare opere morali.
Morali o no, fra i suoi meriti ci fu quello di iniziare la costruzione della Fontana di Trevi.
Mica poco.
Ecco, rimanendo sulla stessa riva del fiume, una onesta e franca dichiarazione di orgoglio professionale.
A Santa Maria dell’Orto i pizzicaroli di Trastevere comprano una bella cripta per seppellirci i soci della confraternita. L’avranno certamente pagata una rispettabile cifra e, giustamente, si fanno pubblicità con una scritta sul marmo a grandi caratteri.
Niente di male, anche perché nella stessa chiesa molte sono le lapidi simili, dedicate ognuna a una associazione di onesti e umili lavoratori: i fruttaroli, i vignaioli, i vermicellai, i pollaroli, eccetera eccetera
Siamo al Borgo medievale di Ostia antica. Vicino alla chiesa di Sant’Aurea, appoggiata a un muro c’è questa fronte di sarcofago che ricorda la defunta Tutilia, il di lei padre, la di lei madre e poi, qui deve esserci sotto una tragedia a fosche tinte, perché il nome, o i nomi che seguivano nell’originale sono stati violentemente scalpellati (è la damnatio memoriae di epoca romana) per can-cellarli dal ricordo dei vivi. Cosa mai sarà successo?
Con quest’ultima sprofondiamo nella pomposità postbarocca dell’epoca. Certamente far scolpire ogni lettera di ogni parola costava qualcosa, eppure, anche solo per regolamentare l’immondezza in città, quale esagerazione di parole; quanti illustrissimi e reverendissimi sprecati, e quante ripetizioni dello stesso concetto, quando sarebbero bastate due righe: “Vietato gettare immondezza. Multa di 10 bajocchi”!
“La miseria privata è riscattata dalla ricchezza pubblica”.
Sono anni che giriamo per insediamenti arcaici, per siti romani e greci, per borghi medievali, per città barocche e settecentesche. Dovunque ci si trova di fronte allo stesso fenomeno che si ripete nella storia dei secoli, espresso dalla piccola frase piena di enorme significato che appare qui sopra.
Prima di arrivare all’appartamento con acqua corrente, servizi igienici e riscaldamento di oggi la gente ha abitato in capanne di fango e paglia, poi in sgangherate catapecchie di legno col tetto che faceva acqua, poi magari in case di mattoni, ma senza vetri alle finestre e con la latrina in cortile.
Eppure già tremila anni fa, al centro delle capanne c’era il nuraghe, costruito con macigni che ancora oggi stanno in piedi a rappresentare l’orgoglio del popolo e del re. Le capanne sono scomparse e il nuraghe è ancora lì.
Poi sono venute le case costruite con materiali scadenti, senza servizi, che spesso si sbriciolavano in incendi disastrosi provocati dai tossici bracieri, l’unica forma di riscaldamento.
Ma in mezzo a loro c’era il tempio, innalzato su immani colonne monolitiche: anni di lavoro per centinaia di uomini che si sacrificavano per estrarle dalle cave, trasportarle per mare e per terra e tirarle su per l’orgoglio del popolo e del re.
E poi, nell’oscuro Medio Evo, di nuovo tutti nelle capanne, ma di nuovo il simbolo del potere era presente: il castello, per costruire il quale i contadini lavoravano a turno senza compenso se non quello rappresentato dall’orgoglio (e la sicurezza) di tutti.
Ma non solo il castello era l’orgoglio del popolo; anche la cattedrale, spesso eretta accanto ad esso per fornire rassicurazione allo spirito: un altro simbolo maestoso, possente, a contrasto con la precarietà del quotidiano, appunto limitato a un rozzo giaciglio, un tetto sconnesso, un focolare fumoso e la solita, antiigienica latrina, covo di parassiti e infezioni.
Insomma, peggio stava il popolo, più sontuosi e lussuosi e ricchi e imponenti erano i simboli del potere pubblico: quello del principe, quello del sacerdote, quello del Dio onnipotente e quello del Re, altrettanto onnipotente, spesso proprio appoggiandosi al suo nome. E, in fondo, anche quello del popolo.
Poi per fortuna è cambiato tutto, almeno per una porzione privilegiata dell’umanità. E riuscendo finalmente a dormire comodi e caldi a casa nostra, a lavarci nel nostro bagno, a mangiare abbastanza e a curarci, non abbiamo più avuto bisogno di gratificarci con i monumentali salvaspirito grazie ai quali, prima, ce la facevamo a non affondare nel fango quotidiano.
Certo, se non fosse stato per questo fango da combattere a suon di edilizia simbolica (e quindi: grazie allo scomodo passato dei nostri antenati) oggi non avremmo niente di bello con cui riempirci gli occhi.
E invece…
Anche il più calmo di noi si può sentire stuzzicato a superare i propri limiti. Vi presentiamo un argomento che di sicuro può fare da miccia. Basta un’occhiatina a questa pagina del supplemento Medicina di Repubblica di qualche giorno fa per capire di cosa stiamo parlando.
L’articolista racconta dell’abituale presenza del pianista (nonché biologo cellulare) Emiliano Toso e del suo strumento in una sala operatoria di Roma durante gli interventi di procreazione assistita con l’innesto di embrioni fecondati. Benissimo: che un po’ di musica possa mettere a suo agio il chirurgo è un fatto, ma quello che si accenna, anche se con molta prudenza, nell’articolo è che la musica stessa, e precisiamo, con il la del pianoforte accordato a 432 Hz (come all’epoca di Mozart), potrebbe convincere l’embrione ad attaccarsi meglio all’utero. Ecco, questo ci avvicina ai limiti di cui sopra.
In passato abbiamo letto di mucche che producevano più latte e di qualità migliore se nella stalla era diffuso, diciamo, Beethoven invece che Wagner.
Abbiamo sentito raccontare di una certa lattuga che cresceva più rigogliosa in una serra sonorizzata, anche se i giardinieri non avevano ancora scoperto se era meglio la classica o il rock.
Stupefacente. Ma la musica è un fatto di cultura, di studio, di consapevolezza; perfino l’uomo primitivo quando sbatteva insieme due pietre ricavandone un ritmo, non lo faceva a caso. Ci metteva dentro cervello, cuore e anche un pizzico di tecnica.
Quindi la prima domanda, ovvia, che viene in mente è: dove ha studiato la mucca per capire e soprattutto apprezzare la differenza fra Beethoven e Wagner; e come fa la lattuga a sentire la musica se le orecchie non le ha. E, se è per questo, non ha neanche l’elaboratore centrale, altrimenti noto come cervello. E non ce l’ha neanche l’embrione: anche se magari da grande diventerà un famoso critico musicale, per ora è solo un grumo di cellule.
Galline, pecore, cavolfiori e vongole, come riescono a distinguere fra una serie di vibrazioni organizzate, che sono musica, e un Black and Decker che produce anche lui vibrazioni, che però musica non sono?
Se invece le balzane teorie che abbiamo appena esplorato avessero un fondamento, sta a vedere che il bum bum dei bassi nella disco music, che in genere marciano sui 60 battiti di metronomo (più o meno sincroni al ritmo cardiaco di una persona media) e che ci tormentano dai locali sotto casa nelle più accese notti di movida, potrebbero rivelarsi un valido sostituto del pacemaker.
Bisognerebbe appurare se i ventricoli e le coronarie riescono a sentirli e soprattutto capirli, questi bum bum.
Sarebbe una bella svolta nella cardiologia.
“Di cervello terribile e dedito principalmente a questionare e a giocare a carte”.
Grande, grosso e tardivo (quando nasce, nel 1550, la madre ha già sessant’anni) comincia litigando con tutti i compagni di giochi, che picchia regolarmente; poi, appena ha l’età si arruola come soldato di ventura. Ideologia zero; bisogno di soldi illimitato perché tra i tanti altri ha anche il vizio del gioco. Tutto quello che guadagna se lo gioca, ed essendone malato, anche se vince, poi se lo rigioca e alla fine, come è noto, quel tipo di giocatore perde sempre.
Finalmente (come usava dire allora) piace a Dio di mandargli la piaga. Una piccola ulcera a un piede, che a forza di grattarla e con le condizioni igieniche dell’epoca, degenera in cancrena. Si ricovera all’ospedale degli incurabili di S. Giacomo, dove fa voto alla Madonna di abbandonare il gioco se lei lo guarisce.
La Madonna è di parola, lui no. Si ridà alle carte, riperde tutto, finisce a mendicare per strada e, giustamente in quanto recidivo, piace a Dio di rimandargli la piaga. Nuovo ricovero, sempre allo stesso ospedale. Guarisce ancora, ma stavolta il messaggio arriva. Dopo la seconda grazia divina rimane all’ospedale come inserviente, e qui si rende conto delle terribili condizioni dei malati che raramente si salvavano, più spesso morivano, proprio a causa del ricovero.
Si fa sacerdote, organizza un nuovo sistema di assistenza, che ancora funziona; diventa perfino santo nonché patrono dei malati, degli infermieri e degli ospedali, tanto è vero che ce n’è uno dedicato a lui, proprio a Roma. Fine della storia.
Questo bel tomo è Camillo De Lellis e questa bella coppia (scheletro + manichino) è proprio lui in (come si usa dire) carne e ossa. La carne è naturalmente finta, le ossa pare che invece siano proprio le sue.
A tutti visibile nella chiesa di S. Maria Maddalena. Fino a poco tempo fa in una teca a due livelli, sapientemente progettata, con, al ripiano di sopra, in penombra, la sua perfetta figura in cera. La testa appoggiata su due candidi cuscini, il corpo avvolto in un sontuoso mantello, i piedi calzati in scarpe dall’aspetto forse un po’ troppo moderno (sembrano mocassini inglesi).
A quello di sotto, la sorpresa: brillantemente illuminato, ecco lo scheletro completo, ben composto e lucido, del suddetto. Come avranno fatto a ritrovarselo in così buone condizioni?
Seguendo, ci scommettiamo, la ricetta in uso a quei tempi per ricavare preziose, incorruttibili reliquie di santi o imperatori. Non esitavano a buttarli (da morti, si spera) in un pentolone e a farli bollire finché tutta la carne si staccava lasciando l’osso spolpato, presentabile e venerabile. Un pollo da brodo.
Siamo ripassati recentemente da quelle parti: tutto cambiato. Anche in chiesa regna il politically correct. Niente scheletro, che potrebbe fare impressione a qualcuno; solo il pupazzo perché tutti devono stare tranquilli.
C’è da chiedersi in quale armadio di quale sacrestia finiranno tutti quei bei teschi di marmo, quei bei femori incrociati di bronzo, quegli scheletri affrescati, quelle clessidre in evidenza che la Chiesa ha finora distribuito con grande generosità dovunque era possibile piazzarli come memento per i fedeli che “tempus fugit” e non si scappa: prima o poi ci tocca a tutti.
La torre del fiscale appena fuori città in direzione sud est è un bell’esempio di riassegnazione storica accompagnata da una ripida, anche se non rapida, discesa del livello di destinazione.
Si parte dal nobilissimo acquedotto Claudio, simbolo di una grandiosa missione, apportatore di acqua salubre per la città, sospeso su decine di maestosi archi in tufo, in seguito diroccati perché l’Urbe era stata fatta morire (anche di sete) dai barbari che la assediavano, proprio con il taglio degli acquedotti.
Qualche secolo dopo, ormai persa la sua funzione sanitaria e sociale, ma non la superba robustezza architettonica, la struttura, da apportatrice di salute, viene riassegnata alla funzione di controllore della paura che nel medio evo si sostituisce alla tranquilla e civile pace romana.
E prende la forma di una torre di vedetta, costruita sugli archi del Claudio che più tardi verranno incrociati con quelli del Felice, per sorvegliare le mosse dei briganti che all’epoca infestavano la campagna romana, pronti a uccidere per rubare ai contadini, più poveri di loro, una pecora, un sacco di castagne, mezzo barilotto di pessimo vino.
Altri anni di buio e paura e la terra intorno a Roma diventa sempre più una landa desolata piena di malaria e priva di vita. Nelle vecchie fotografie in bianco e nero dell’agro romano, fino all’inizio del ‘900, non si vede un albero, al massimo qualche filare di carciofi: tutto tagliato per alimentare i focolari dei pochi, poverissimi abitanti. Una miseria estrema, uno squallore senza fine, reso più malinconico dal confronto con le rovine della passata grandezza.
Ancora anni e la storia continua ad accanirsi su quella landa malarica e pelata. Dopo l’ennesima tragedia, la seconda guerra mondiale, parte l’ultima grande migrazione che porta a una nuova riassegnazione di ruolo della torre e soprattutto dell’acquedotto. Ce la raccontano quelle tristi pareti imbiancate a calce alla sua base: sono i muri delle catapecchie in cui si sono ammassate per anni, fino a non molto tempo fa, le famiglie degli sfollati, reduci dai bombardamenti e dalla carestia che ogni guerra si porta dietro.
Questi poveri padri di famiglia, arrivati dalle campagne con grappoli di figli famelici, si fermavano ai margini dell’abitato e, dove trovavano un muro a cui appoggiare le altre tre pareti e il tetto, ci si costruivano la baracca.
In mezzo alla campagna gli unici muri ancora solidi a disposizione erano quelli dei pilastri degli acquedotti, e i soffitti erano gli archi. E, come vediamo in questo avanzo di abitazione per fortuna ormai abbandonato, quei poveri straccioni riuscivano perfino, scavando nelle pareti, a ricavarci delle dispense: misere nicchie cariate dove ammucchiare su scaffali inventati le quattro stoviglie e le scarse provviste della loro precaria cucina.
Dove ci eravamo lasciati? Ah sì, il 18 dicembre con la conclusione del processo e la condanna di Roma per il reato di leso cittadino.
Beh, è passato un mese e con l’anno nuovo ci siamo messi alla caccia di qualche testimonianza di buona condotta da parte della Rea Roma.
Arriva l’occasione con la mostra “Giacomo Boni – L’alba della modernità” al Foro Romano e al Palatino.
Ci ricevono all’entrata i simboli riconosciuti dell’antichità romana: il marmo e l’acanto. Sole quasi primaverile e foglie di un bel verde tenero. La mostra è in onore dell’archeologo che, pur fra molte contestazioni, tirò fuori da sotto terra una buona parte della storia di Roma. Vari sono i luoghi dove è ricordato: il Tempio di Romolo, quello di Venere e Roma, mai visto finora, e il convento di S. Francesca Romana, convertito in museo con una ricca esposizione di pezzi trovati negli scavi, più la proiezione di un interessante ma discutibile documentario di immagini, didascalie e suoni sul lavoro di Boni (secondo una sua dichiarazione, giudicato demenziale dai contemporanei).
Insieme all’ammirazione dobbiamo confessare di essere caduti vittima di un bieco sentimento di invidia nei confronti del Professore, il quale, nei molti anni in cui scavò fra le rovine, non solo trovò conferme alle sue ardite teorie, che è una bella soddisfazione, ma riuscì anche a farsi allestire uno sciccosissimo studio dentro l’Uccelliera Farnese (ricostruito nella mostra, con belle opere di Cambellotti e Sartorio) e a impiantare un magnifico roseto, in mezzo al quale c’è la sua sobria tomba.
Insomma, a fine visita dobbiamo ammettere che dall’ultima volta, neanche troppo tempo fa, abbiamo trovato tutto molto più curato, pulito e bene organizzato. Nuovi spazi aperti, lavori in corso che fanno ben sperare per il futuro e ampi settori dei giardini Farnese ben curati, erba rasata, fiori freschi e perfino una grande fontana funzionante, con musica di Beethoven in sottofondo.
Tutto bene? Certo, ma che Serpente sarebbe il Cavaliere se non avesse tenuto da parte alcune osservazioni leggermente avvelenate per concludere la sua relazione? Eccole.
Proviamo a entrare. Gli accessi all’area sono quattro (teoricamente). In realtà da due si esce soltanto: Salara Vecchia e San Gregorio, da un altro, Colonna Traiana, si entra, sì, ma guai a volere tornare indietro, non si può, neanche morti, perché il percorso è a senso unico e il ritorno al mondo contemporaneo avviene solo attraverso un cancelletto a metà di Via dei Fori Imperiali. Nel quarto, Arco di Tito, l’unico funzionante a doppio senso, c’è naturalmente una coda chilometrica. Tutto questo, ci hanno spiegato, è a causa dell’emergenza virus. Malgrado la giustificazione il nesso ci sfugge.
Comunque siamo dentro e qui ecco un altro problema: la musica di sottofondo del video, che, montato con bei filmati d’epoca alternati a didascalie in stile, avrebbe potuto rimanere muto; invece è appestato dal primo all’ultimo fotogramma da quel tipo di musica genericamente definita arcaica (che ne sappiamo noi nel duemila di com’era la musica degli antichi romani?): pifferi, arpe, archi senza vibrato, tamburelli e crotali. Insopportabile, anche perché il video passa in loop e non è possibile sfuggire al tormentone acustico.
E concludiamo in bellezza con questo campioncino di inglese maccheronico, condimento che non manca quasi mai nei piatti, spesso appetitosi come questo di oggi, che ci offre la Sovrintendenza. (Possibile che negli uffici non riescano a trovare qualcuno che sappia le lingue, disponibile a buttare un occhio sui cartelli prima di esporli?)
Il Cavalier Serpente augura BUON NATALE 2021 E BUON ANNO 2022
Ci sentiamo fra un po’.
La corte ha emesso il verdetto. La città di Roma è riconosciuta colpevole di leso cittadino. Lesioni gravi ma per fortuna non si tratta di omicidio. Da quasi trenta secoli si ripete il miracolo: la par-te lesa non soccombe. Nessuno è mai riuscito a capire come, ma il cives romanus sopravvive sempre a tutti gli attentati che la sua città organizza contro di lui.
Avremmo un’ipotesi per definire la strategia che permette questa sopravvivenza ad oltranza del romano: la rinuncia. A cosa? A reagire alle provocazioni.
E allora, emesso il verdetto, vediamo, a costo di ripeterci, di elencare qualcuna di queste provocazioni. Ne esce una lista imprevedibile, fantasiosa, fatalistica.
Pochissime parole. Bastano le immagini.
Lungotevere Aventino. Dietro una esile cancellata, esposto alla pioggia e, come si vede, all’attacco di muschi e licheni, giace un deposito di marmi antichi con il quale si riempirebbe facilmente un museo.
Fra questi, imponenti i frammenti di una vasca di granito egiziano larga un buon cinque metri. Più cornicioni, lapidi, stemmi e come si diceva una volta, anticaglie varie.
Palazzo Madama, Senato della Repubblica. Oltre a una camionetta dei carabinieri, a tutela della sicurezza dell’edificio contro eventuali assalti del popolo infuriato c’è una bellissima elegante cancellata di acciaio brunito, che può essere chiusa in ogni momento dagli stessi carabinieri, ma che normalmente rimane aperta.
E in che modo viene mantenuta aperta questa brunita cancellata, costantemente sotto gli occhi dei turisti che affollano la contigua Piazza Navona? Con un’elegante catena di acciaio altrettanto brunito? Macché: all’uopo basta un pezzo di cavetto da antenna TV annodato alla bell’e meglio che quando serve si scioglie in un attimo, altro che catena!
Fontana di Piazza Monte Grappa. Un originalissimo mascherone in travertino rappresentante la Dea Roma, opera di Igor Mitoraj, con l’acqua discendente a cortina dalla fronte lungo il volto, offerto anni fa dalla Confindustria alla città di Roma.
Il travertino è poroso e, bene innaffiato, ci ha messo solo qualche settimana a ricoprirsi di muschio, dopodiché si è rotto il tubo e l’acqua ha smesso di scendere. Il muschio è rimasto, si è annerito e intanto è morta, non innaffiata, la siepe piantata intorno al bacino, che è diventato presto un immondezzaio, pieno di cartoni vuoti di Tavernello. La Dea Roma ringrazia per il trattamento, i barboni brindano e la Confindustria stupisce in silenzio.
Terme di Traiano, Parco del Colle Oppio. Qui prima c’era la Domus Aurea di Nerone, poi Traiano ci ha costruito le sue terme, poi c’è stato un bell’intervallo di più di un millennio e finalmente è arrivata Roma Capitale con l’urbanizzazione, seguita dal Ventennio durante il quale si è creato il parco.
E poi, altro che i secoli bui, c’è stato il vero abbandono e adesso tutta la zona è un parcheggio di poveri extracomunitari che ci vivono come bestie e ci seminano i loro rifiuti.
Osservare questa bella fossa riempitasi nel tempo di: marmi pregiati, vestiti stesi ad asciugare, stracci abbandonati, sacchi da immondizia, immondizia sciolta sparsa con cura sull’area e, questo non si vede ma si sente sul posto, una gran puzza.
E si potrebbe continuare…
C’è un elemento che racconta meglio di tutti la storia di una strada romana: i solchi delle ruote che sono passate per secoli sulle stesse pietre lasciando le loro cicatrici.
Appia Antica. Qualche anno fa. Sole a piombo: solite cicale, solito profumo di pini e mentuccia. Verso il quarto miglio, una squadra di operai e un piccolo escavatore meccanico. Cosa fanno? Un cartello ce lo dice: “Recupero e ricollocazione in quota del basolato romano originale”. Bell’idea. Ci fermiamo a guardare i braccianti sudati, perfetti per un film neorealista italiano, solo che parlano tutti rumeno.
Forse un operaio dell’Est non è portato a sottigliezze sul significato dei solchi nel basolato, di sicuro nessun sovrintendente ha pensato a dare le opportune istruzioni, fatto sta che i basoli sono estratti dalla terra, ripuliti e ricollocati su un nuovo letto di sabbia, però così come capita. Nel tratto già lavorato le pietre ci sono tutte, ma il mancato recupero del loro ordine fa perdere completamente il racconto dei solchi che non seguono più il disegno originale. Forse non proprio criminali, ma negli-genti di sicuro. Immaginiamo il turista informato e curioso nel vedere su quei massi questi solchi puntati in ogni direzione: “Come si fa a dire che tutte le strade portano a Roma?”
Dai giornali: “Santa Bibiana ha perso un dito!” A proposito di Santa Bibiana, ci eravamo sor-presi tempo fa di trovarla fuori di casa sua, e precisamente nella grande mostra di Bernini alla Galle-ria Borghese: “…abbiamo visto per la prima volta un non finito berniniano (convinti fino a oggi che questa tecnica fosse un’esclusiva di Michelangelo), e precisamente la statua di Santa Bibiana, prove-niente dall’omonima, oscura chiesa dalle parti di Piazza Vittorio, dove stava infilata in una nicchia, quindi senza bisogno di mostrare il didietro, rimasto grezzo”.
Durante il viaggio di ritorno dev’essere successo qualcosa perché adesso la mano alzata della santa si ritrova senza un dito. Del quale, sempre secondo la stampa, non si sa chi ce l’ha, magari a pezzi, e se sarà possibile riattaccarlo. Insomma, c’è trepidazione in proposito.
Ma si può perdere un dito firmato da Bernini?
Una volta a queste eventualità ci pensavano prima: c’era una precisa procedura, una vera e pro-pria assicurazione contro i danni da viaggio.
Erano quegli antiestetici rinforzi, lasciati intatti nel marmo originale, che imbruttivano le statue ma ne proteggevano le parti delicate durante i trasporti.
Poi, una volta arrivati a destinazione, i sostegni erano eliminati e scomparivano. Diciamo che magari la responsabilità di scalpellarli senza fare danni era grossa, tanto è vero che fra le dita di questo papa ce li hanno lasciati, come in moltissime altre statue, anche del periodo romano, forse perché altri viaggi erano in previsione, o forse semplicemente per mantenere attiva l’assicurazione contro eventuali negligenze successive.
La cosa curiosa è che, anche se corpi estranei alla scultura, questi tronchetti di marmo ci sono ormai entrati nell’occhio e bisogna ammettere che non danno neanche troppo fastidio. Potere dell’abitudine. Comunque è sicuro che se Santa Bibiana avesse avuto questi antiurto non le sarebbe successo niente di brutto.
Siamo arrivati a oggi e non è cambiato niente.
Primo scandalo: I Marmi Torlonia.
Come sempre Roma non si smentisce e ci stupisce. L’ingresso alla mostra, quella appunto dei Marmi Torlonia, è nel meraviglioso giardino di Villa Caffarelli al Campidoglio, chiuso da anni, finalmente riaperto, ripulito e riordinato. C’è un bel solicello di ottobre con un’aria tersa e una vista da cartolina su tutta la città.
Una bulimia di imperatori, ninfe, satiri, uno più bello dell’altro, con il pregio aggiunto di un accurato restauro e fresca pulizia, quindi niente veli di polvere, ragnatele e ombre sui ritratti, che tra-smettono, candidi, la loro capacità di raccontare le persone. Come non rimanere colpiti di fronte al realismo di questo busto di vecchio, anche se nemmeno sappiamo chi è?
Ecco come i ricchissimi capostipiti Torlonia, neanche due secoli fa, avevano trovato il modo di diventare i maggiori collezionisti di Roma: finanziavano con grandi somme i discendenti (bisognosi e di solito del tutto incapaci di amministrarsi) delle altre nobili e più antiche famiglie, e nel momento in cui questi si trovavano in difficoltà per la restituzione, si facevano saldare in palazzi, terreni e raccolte d’arte. Prestito finalizzato all’accumulo artistico compulsivo.
Non molto corretto, ma non arriveremmo a definirlo uno scandalo: in fondo si trattava solo di finanza disinvolta. E soprattutto nessuno finiva realmente sul lastrico.
Il vero scandalo è il furto di bellezza che abbiamo subito tutti noi nei troppi decenni in cui questi capolavori che vediamo oggi sono rimasti sepolti vivi insieme al resto della collezione Torlonia (di cui sono una piccola parte) nei sotterranei di uno dei palazzi di famiglia.
Quello di Via della Lungara, destinato dagli antenati a museo per ospitare i marmi, che i furbi discendenti hanno invece rinchiusi in cantina, perché il palazzo lo hanno ristrutturato, ricavandone una moltitudine di civettuoli appartamentini, inopportuni ma certo di ottimo reddito.
E noi lo sappiamo bene perché anni fa, prima che si trasferisse a Trieste, proprio lì andavamo a trovare l’amico Lelio Luttazzi, che ci abitava e ci diceva: “Ascolta gli uccellini in giardino, senti che tranquillità”. Certo che era tranquillo, con tutti quei cadaveri in cantina.
Secondo scandalo: Porta Maggiore.
Ad Spem Veterem, era il nome della zona di Roma imperiale dove arrivavano, si mescolavano, si scavalcavano, si intrecciavano la maggior parte degli acquedotti che portavano in città una quantità esagerata di acqua dai colli a sud est, correndo sotto terra, su ponti, su arcate, con un insieme, ancora in parte visibile, di affascinanti strutture architettoniche.
Bene, questa stazione di arrivo e di incrocio delle acque antiche è oggi Piazza di Porta Maggiore, un clamoroso insieme di archi trionfali, pilastri di tufo, mura Aureliane, spechi visibili fra i mattoni, basolato antico. Insomma, quello che potrebbe essere un parco archeologico assolutamente unico.
Solo che, ecco lo scandalo, si è permesso che il monumentale incrocio degli acquedotti si facesse ingarbugliare in un gomitolo di auto, moto, bus, tram e trenini, alcuni dei quali vetusti quasi quanto le mura sotto cui passano, fischiando ancora come le vaporiere dell’ottocento.
Poteva anche uscirne una esemplare convivenza di antico e (quasi) moderno. Invece la piazza è diventata una specie di anticamera urbana per extracomunitari indigenti e sottoproletari nostrani, un limbo male frequentato, e ridotto più o meno a una discarica.
Gli archi della porta sono, per fortuna, ancora in piedi ma svettano in una prateria selvaggia, da film western, attualizzato dai soliti, ubiqui cartoni di vinaccio.
Tutto intorno un infernale carosello di traffico puzzolente che a sua volta isola angoli altrettanto puzzolenti, albergo di luride cucce dove dormono, mangiano, evacuano in totale libertà esemplari di quell’umanità dolente che sempre si ammucchia ai margini della città, di una città che una volta era imperiale e adesso, da quelle parti, è solo banale.
(Ci sentiamo però in obbligo di aggiungere che è possibile che davanti a quei marmi ci si faccia abbagliare dal mito di venti secoli fa. Forse anche allora era come adesso: traffico intenso - di carri e buoi, se non di auto - straccioni e miseria diffusa. Ma noi non c’eravamo e le puzze non le sentivamo).
Imputata oggi è la Chiesa.
Si comincia con gli acquedotti, e in particolare il Claudio, che è di sicuro il più maestoso e bello di tutti: una perfetta opera d’arte ingegneristica messa insieme con massicci conci di tufo tagliati tanto bene che ancora adesso quelli che rimangono sembrano saldati e non ci si infila una formica, figuriamoci uno scalpello.
Passa un secolo, ne passa un altro; gli archi, per quanto ben costruiti, cominciano a vacillare ed ecco rendersi indispensabili i muri di rinforzo in mattoni e malta che ne rovinano l’estetica ma li tengono in piedi.
Man mano che il mondo imbarbarito diventa sempre più miserabile, quei massi tagliati così bene si trasformano in un ghiotto bottino per tutti. E allora, vostro onore, il reo, la Camera Apostolica che ne è diventata proprietaria, prende la brutta abitudine di vendersi un arco di qua, due di là, al migliore offerente, che naturalmente li smantella da cima a fondo.
I rinforzi di mattoni, inutilizzabili, rimangono ma i bei tufi cominciano a scomparire con destinazioni varie, più o meno nobili.
Ed ecco la prova definitiva della grande rapina: un tratto della struttura, dove gli archi originali sono scomparsi lasciando la loro impronta in negativo sui muri di emergenza costruiti per sostenerli, su cui si vede ancora il disegno dei tufi così ben tagliati e poi strappati via.
Un lavoro di giganti sbriciolato da insolenti implacabili formiche.
E adesso riparliamo di colonne, perché anche loro non hanno finito di soffrire. Diventate stipiti d’ingresso alle chiese, la loro meravigliosa superficie lucidata da pazienti carezze di passati marmisti (anche loro poveri schiavi, probabilmente) è stata nei secoli trapanata senza la pietà cristiana che avrebbe meritato per infilarci i sostegni di cancelli e portoni. Chiusure che naturalmente nel tempo cambiavano forma e misura, per cui giù nuove perforazioni senza neanche pensare di otturare le vecchie (qui siamo a S. Vitale a Roma).
Altre colonne finivano affettate per lungo e interrate a segnare il limite sacro. Certo che marcare l’ingresso nella casa del Signore è un nobile compito, ma poteva anche essere affidato a pietre comuni. Il fatto è che siccome bastava scavare nei dintorni per trovare una colonna bell’e pronta, allora, evidentemente, la tentazione diventava troppo forte…
E poi, specialmente dopo la furia moralizzatrice scatenata dal Concilio di Trento, sono partite le spedizioni punitive contro qualsiasi accenno a nudità e, Dio ne scampi, esibizioni di attributi genitali, perfino del genere dichiaratamente inoffensivo proprio a putti e angioletti.
E qui, sfiorando il ridicolo con l’obliterazione materiale dei succitati attributi tramite pennello e scalpello, la smania iconoclastica della chiesa ha fatto non pochi danni a pitture e statue (pensate alle braghe imposte al Giudizio Universale di Michelangelo e date un’occhiata a questo povero putto mutilato e rattoppato di Santa Maria dell’Anima) senza salvare, ci scommettiamo, dal fuoco dell’inferno neanche l’ultimo dei peccatori.
Quasi mai gli riusciva a quei poveri inconsapevoli delinquenti del Medio Evo di concludere bene le loro imprese ignoranti; e alla fine, per sgraffignare un pezzo di marmo, distruggevano tutta una facciata.
Eh già: visto che non avevano la tecnologia per recuperare una colonna sana per poi riutilizzarla magari in una chiesa, l’alternativa era buttarla giù e se si rompeva tanto peggio.
Qui, al Tempio di Antonino e Faustina al Foro, c’è mancato poco. Appena sotto i capitelli delle magnifiche colonne monolitiche di cipollino, di sicuro costate il sudore e magari la vita di chissà quanti schiavi, avevano già scalpellato i solchi per farci passare le corde, così che non scivolassero, per poi aggiogarci un paio di buoi e tirare giù tutto. Dev’essere successo un imprevisto se non ci sono riusciti. Chissà quante altre volte è finita diversamente, almeno a giudicare dai mille frammenti che riempiono Roma.
E non è che alle statue andasse meglio. Il museo Centrale Montemartini è pieno dei dolenti cadaveri di Bacchi, Apolli, Mercuri di squisita fattura ed eleganza suprema ritrovati in pezzi e poi ricomposti.
E dove li hanno trovati? Nel parco rinascimentale di Villa Rivaldi, di fronte alla Basilica di Massenzio, quando l’hanno eliminato per fare Via dell’Impero.
Proprio così: spaccati a colpi di mazza per servire, come materiale inerte, da riempimento ai muretti delle aiuole. Insomma l’arte che non era già finita bruciata nelle calcare la buttavano nel pietrame, tanto per fare massa.
Per giudicare un delitto ormai prescritto bisognerebbe identificare i rei. Vediamo. Da una parte c’erano i committenti: signorotti dell’epoca buia, ma anche abati o commercianti arricchiti a cui interessava solo occupare uno dei tanti spazi liberi in mezzo alle rovine della grandezza classica e farsi il palazzetto, il monastero, la bottega, arraffando e riutilizzando a casaccio tutto quello che trovavano nei dintorni.
Dall’altra i muratori, in fondo colpevoli solo preterintenzionali (che ne sapevano di arte?), ai quali bastava avere una pietra da mescolare con la malta, e neanche si accorgevano che quel sasso era un braccio, un piede, una mano.
Intendiamoci, più tardi arrivarono anche nobilastri o cardinali che invece di accontentarsi delle discariche storiche non esitarono a demolire i monumenti imperiali ancora in piedi per rapinare qui una colonna, là un ricco cornicione con cui adornare il palazzo di famiglia o la basilica.
E già che c’erano, queste brave persone ci provavano anche a recuperare i magnifici dischi di marmo che coprivano i pavimenti, per esempio del Foro della Pace, naturalmente spaccando tutto. Perché, come si può immaginare di estrarre un fragile tondo di due metri a colpi di martelli e scalpelli senza mandarlo in briciole?
Per fortuna che con i relitti di questa catastrofe, parecchi secoli dopo degli abili artigiani trovarono il modo di comporre infinite serie di geometrie giocando con i colori e le forme. Erano nati i pavimenti cosmateschi.
Rimane il doloroso pensiero di quanto ha perso l’arte nel barattare un intero perfetto disco di pavonazzetto con un mucchio, anche se abbondante, di sassolini colorati, ma che ci possiamo fare?
Continua alla terza udienza.
Immaginiamo i resti di Sherlock Holmes e Watson intenti a scambiare due chiacchiere seduti in poltrona (in realtà sono due scheletri di canguri preparati in un modo che ci è sembrato molto simpatico e utile per il nostro discorso nel Museo di Zoologia di Roma),
Di cosa potrebbero discutere i due criminologi ridotti all’osso se non di crimini? Antichi, naturalmente, e contro l’arte.
Si tratta purtroppo di delitti ormai caduti in prescrizione perché è passato troppo tempo. Ma le prove sono ancora in giro, dappertutto, a farci rabbrividire. E dobbiamo anche aggiungere che i casi da esaminare sono talmente tanti che probabilmente ci serviranno più di due udienze.
Degli investigatori non ci dobbiamo preoccupare: possono aspettare senza alcun bisogno di riposo o di generi di conforto. E allora cominciamo.
A piazza del Popolo c’è un bellissimo obelisco, in un primo tempo scippato agli egiziani, portato a Roma e piazzato nel Circo Massimo da Augusto, e fin qui, nessun danno. Ma poi, nel 546 dopo Cristo. Totila entra con i suoi cattivissimi Goti a Roma, la sottopone a uno dei tanti sacchi che ha subito prima e subirà dopo, ma in più rispetto a quello che hanno fatto gli altri stupratori, si prende cura di far buttare giù tutti gli obelischi della città, tranne quello vaticano, che stavano ancora in piedi nelle spine dei circhi o davanti ai mausolei.
Ordina anche di fare in modo che nella caduta si spezzino in frammenti e finalmente, e qui sta la perfidia vera, si assicura che gli spigoli dei pezzi vengano accuratamente spizzati dai suoi scalpellini in modo da arrotondarli e rendere diabolicamente difficile rimetterli in piedi.
Mille anni dopo Sisto V lo rialza, con gli angoli molto mal restaurati soprattutto per l’uso di un granito diverso, per la pessima lucidatura e per la rozzezza delle figure e dei geroglifici imitati molto male dagli artigiani di Domenico Fontana. Ma almeno sono di nuovo in piedi.
A testimonianza dei fatti criminosi, ecco un brano da “Gli obelischi di Roma”, una cronaca scritta da Monsignor Michele Mercati, protonotaro apostolico, nel 1589: “…nel guardare gli obelischi mentre si cavano dalle ruine di Roma, si conosce chiaramente essere stata particolare industria e pratica nel guastarli: si vede che gli obelischi sono stati rotti in almeno tre pezzi, tra i quali quello più grosso, mediante gli scantonamenti, è stato fatto tondo al fine che non si potessero più drizzare.”
Questi barbari!
Un altro bello scherzetto lo hanno combinato gli straccioni del Medio Evo, alla disperata ricerca di metallo.
Non c’era più la tecnologia per scavarlo, non c’erano strade né navi per trasportarlo, e allora: idea! Trapanare forsennatamente tutti i monumenti romani, che come si sapeva erano innalzati senza malta, pietra su pietra, arco su arco, il tutto tenuto su dalla gravità e da staffe di metallo inserite dentro il muro.
E allora via di scalpello. La mano d’opera costava pochissimo, il tempo non contava, quindi era economicamente conveniente ricavare il metallo scavando un buco in ogni giuntura, un buco che distruggeva tutto all’intorno, ma tanto l’idea di risparmiare un sasso solo perché era bello non era neanche concepibile in quell’epoca di desolata miseria.
Così hanno bucherellato tutto il Colosseo da cima a fondo, e tantissimi altri edifici antichi. I quali comunque, per il solo fatto di non essere crollati, vuol dire che erano costruiti molto bene.
Come abbiamo detto all’inizio, il reato è prescritto, gli imputati sono irrintracciabili, ma noi seguitiamo a presentare le prove.
Roma G 20, fine ottobre 2021. Un presente nerissimo. Tutti a colpevolizzarsi: io produco più fumi, tu distruggi le foreste, lui stermina gli animali. Siamo sull’orlo del baratro. Anzi siamo all’ultimo minuto prima di mezzanotte, poi l’inferno. Tutta colpa nostra. Perdono, perdono… Intanto, nelle pause, i Grandi se ne vanno a fare i turisti alle Terme, al Colosseo.
Beh, duemila anni fa, quanto a danni per l’ambiente, Roma era peggio della Cina.
Le Terme. Girare fra le costole di questo fossile storico è un’esperienza totalmente opposta a come doveva essere entrarci nel terzo secolo.
Il turista si nutre, oggi, di quel silenzio pieno di storia e suggestione, di mattoni corrosi dal tempo e fioriti di capperi, del canto di cicale al sole che danno un senso pieno di nostalgico raccoglimento alla visita.
Invece ci dobbiamo immaginare le millecinquecento persone che riempivano, allora, gli enormi saloni facendo tutti insieme il bagno, la depilazione, i massaggi, la ginnastica, litigando di politica e di sport, vendendo e comprando di tutto: insomma, per citare Seneca, attendibile cronista dell’epoca, nelle terme c’era un “chiasso infernale”.
Le Terme di Caracalla: uno fra gli stabilimenti pubblici più grandi di Roma, sono anche un monumento allo spreco e al disprezzo, o forse solo all’inconsapevolezza ecologica, specchio, insieme agli anfiteatri, del periodo più orribilmente splendido dell’Impero Romano.
Certo: statue magnifiche riempivano ogni angolo, marmi colorati incrostavano le pareti (spaccati a mazzate mille anni dopo per farci i pavimenti cosmateschi delle chiese medievali), colonne immani sostenevano le volte altissime, poi crollate liberandole dal loro peso e permettendone il trasporto in piazze rinascimentali per servire di base a madonne o granduchi.
Tutto questo è vero, ma è anche vero che giù, nell’infernale labirinto sotterraneo lavoravano e morivano migliaia di schiavi per fornire l’acqua calda ad altrettante migliaia di fannulloni romani che passavano le giornate a divertirsi al piano di sopra in uno dei posti più formidabili di tutta l’antichità.
I tanti forni che mandavano avanti le terme bruciavano decine di tonnellate di legna ogni giorno e sappiamo che in città di stabilimenti simili, anche se non tutti così grandi, ce n’erano parecchi.
Ovvio che questa follia ustoria finisse con il pelare delle loro foreste prima le pianure intorno a Roma, poi i colli del Lazio, poi praticamente tutta l’Italia. Desertificata per far sguazzare al caldo una folla di lazzaroni.
E gli spettacoli circensi? Una calamità quasi biblica.
Ok i duelli dei gladiatori: il genere umano si riproduce abbastanza velocemente. Un po’ peggio le esecuzioni pubbliche dei condannati a morte, perché presentare lo sbudellamento di persone in forma di sadico spettacolo davanti al pubblico non sembra davvero una cosa carina né corretta. Comunque il cives romanus non si è estinto.
Quello che invece le caccie figurate e i combattimenti fra animali selvaggi finirono col provocare fu l’estinzione degli ippopotami in Nubia, dei leoni in Asia, delle giraffe in Libia e così via per un gran numero di altri animali. Massacrati per far divertire altre moltitudini degli stessi lazzaroni sulle gradinate del Colosseo.
Certo, poi uno si incanta davanti alla potenza di queste strutture, rimaste nude dei marmi ma non della loro maestà, e dimentica tutto il resto perché quello che vede è sempre l’immagine grandiosa di Roma.
Ma non venite a dirci che prima era meglio, perché non è proprio vero.
Quelli di noi che erano bambini durante la guerra, si ricorderanno di quando il cibo era sempre più scarso e la fettina di salame da mettere nel panino si faceva ogni giorno più sottile fino a diventare una velina, grazie al virtuosismo delle mamme che riuscivano a dare la merenda a quattro fratelli con quello che prima bastava sì e no per uno.
Lo stesso è accaduto nei secoli bui fino al rinascimento e al barocco, solo che non si trattava di salame, ma di marmo.
Il marmo colorato, bello, raro, che durante l’impero affluiva a Roma in quantità strabilianti: pilastri potenti, colonne monolitiche, architravi massicci, e poi, un po’ sepolto, un po’ bruciato per fare calce, un po’ usato come riempitivo per le fondamenta di palazzi e catapecchie o semplicemente vandalizzato, era diventato sempre più difficile da trovare, proprio come il salame degli anni di guerra.
E così successe che, perduti gli indirizzi delle cave d’origine, scomparsi i mezzi di trasporto per mare e per terra, abolita la schiavitù che metteva a disposizione una forza lavoro illimitata, si cominciò a fare, come si usa dire, di necessità virtù, cioè a riutilizzare quello che ci si trovava sottomano, anzi, di solito sotto i piedi.
Nel riuso, le prime a fare le spese di questa nuova economia obbligata furono le colonne: bei cilindri compatti che bastava affettare come il salame di cui sopra per avere i più variati tondi di infinite misure e colori con cui assemblare tombe principesche, ornare troni papali o geometrizzare sontuosi pavimenti, come questo in S. Agostino (dove è appena finito un radicale, bellissimo restauro. Fortemente consigliata una visita).
Siamo certi che le fette di marmo, cipollino nel caso di S. Agostino, fossero ancora abbastanza spesse (a quell’epoca le colonne si trovavano abbondanti); ma poi, aumentata la richiesta e diventata più scarsa la disponibilità, cominciò la frenetica corsa al taglio sempre più sottile e virtuosistico, perché ogni sbaglio era irreparabile per l’impossibilità di sostituire il materiale.
Così, se oggi uno entra in una qualsiasi chiesa barocca, le cui pareti, gli altari, gli stipiti sembrano di marmo massiccio e, senza farsi vedere dal sagrestano, si azzarda a picchiettarci sopra con le nocche, si accorge dal suono che le lastre colorate saranno sì e no dello spessore di un cartoncino.
Insomma, con un unico pilastro antico romano ben segato e lucidato si riusciva a rivestire praticamente tutto l’edificio.
Con l’eccessivo uso, molto mal digerito dagli appassionati competenti perché considerato di grande volgarità, del cosiddetto taglio a macchia aperta: la pratica di segare e risegare una lastra di marmo seguendone le venature, per poi montare le sezioni in modo da ottenere un naturalistico-fantastico disegno romboidale (in pratica una macchia di Rorschach minerale).
Ulteriore imbarazzante abiezione nel setteottocento: la scagliola, di cui ci sono esempi sulle colonne di S. Maria sopra Minerva. Si trattava di tritare frammenti non altrimenti utilizzabili di marmo colorato, farne una pasta e poi spalmarla sulla muratura e lucidarla a imitazione del vero materiale: roba da poveracci.
E poi, ma forse non meriterebbe neanche una menzione, l’intonaco dipinto a finto marmo di San Carlo al Corso. Le nozze coi fichi secchi.
“Caro Dio, spero tanto che tu possa proteggere me e la mia famiglia…”
Meravigliosa questa richiesta nel suo indirizzarsi familiarmente al Supremo sul foglio di un qua-derno che sta a disposizione dei fedeli presso la tomba del gesuita padre Felice Cappello, insigne professore di diritto canonico ma soprattutto confessore affettuoso di fedeli, nella chiesa di S. Ignazio.
“Apparteneva così poco a sé stesso, anzi niente, ed era istrumento degli altri e per gli altri, da vivere con la pratica persuasione che tutti avessero diritto di ricorrere a lui, di spremere quanto volevano e finché volevano da lui”. Alate parole per ricordare questo sacerdote così umile in una delle più sontuose e colorate chiese di Roma, sotto quel soffitto affrescato in una prospettiva strabiliante dal pittore gesuita Andrea Pozzo, chiaramente concepito per stupire il fedele.
Questo contrasto di povera semplicità e sfarzo lo troviamo non solo nelle chiese di Roma, ma in tutta la città, in cui si affiancano palazzi stupendi e miserabili stamberghe. Basta affacciarsi su Piazza Navona venendo da Corso Vittorio. Il sontuosissimo Palazzo Braschi a sinistra, il più modesto ma sempre raffinatissimo Palazzo Torres a destra, e poi a metà strada ecco il Vicolo della Cuccagna, un vero diverticolo del ventre rognoso della citta, degnamente ornato dalla Locanda della Cuccagna, una catapecchia che sembra uscita dal più cupo Medioevo. Ma piace tanto ai turisti.
“Cara Sovrintendenza”, (questo non è più un ingenuo fedele che scrive, ma il Cav. Serpente in persona) “spero tanto che tu mi possa spiegare perché ieri mattina alle undici ho trovato il museo di Palazzo Altemps chiuso; e non era lunedì”.
Ho fatto il giro del palazzo in cerca di una spiegazione: niente; l’unico annuncio ai fedeli (dell’arte) che ho visto è stato questo ineffabile cartello appiccicato sul portone sbarrato che dà una serie di stupidi, ovvii, superflui suggerimenti: “state attenti alle scale e alle soglie, non portate scarpe con tacchi troppo alti e neanche infradito” ma dimentica l’informazione più necessaria: l’orario di apertura e chiusura del museo.
Ma niente paura: quello che non arriva dalle istituzioni lo forniscono i dipendenti, talvolta perplessi ma sempre gentili.
Appurato da un guardiano che si entra alle due, torniamo nel pomeriggio e ci facciamo un giro in quello che a nostro parere è uno dei meglio concepiti musei di Roma. Palazzo magnifico, bene il-luminato, con bellissime, selezionate e poche, soprattutto poche opere, in modo da non cadere vitti-ma di bulimia d’arte (come succede ai Musei Vaticani).
Ma se ci salviamo dall’indigestione, una coltellata al cuore ci stende ogni volta che capitiamo nella sala dove è esposta questa meravigliosa Lucilla (la figlia di Marco Aurelio), di sicuro scambiata per una dea pagana e quindi debitamente sfregiata a colpi di mazza da qualche fanatico cristiano, di quelli che, appena diventata abbastanza forte la loro religione, si erano scatenati a distruggere tutto ciò che ricordava il passato, o che era semplicemente bello (da leggere il molto istruttivo e molto or-ripilante “Nel nome della croce – La distruzione cristiana del mondo classico” di Catherine Nixey).
Oggi è sabato, finché dura il bel tempo si passeggia e mentre si passeggia capita di vedere, ma anche di pensare, ricordare, e decidere di recuperare cose che voi umani…
Umorismo dell’ATAC, di sicuro involontario.
A Roma esistono tre grandi cimiteri, Verano, Prima Porta e Laurentino, visitati nel fine settima-na da parenti e amici che vanno a fare il loro dovere.
Bene: l’azienda trasporti cittadina, con lodevole rispetto per le esigenze degli utenti, ha istituito questa linea speciale che, solo il sabato e la domenica, collega i tre cimiteri.
I bus di questo servizio portano sul display la sigla C3 che ovviamente si riferisce ai tre C(imiteri) collegati.
Però, forse non fidandosi troppo delle capacità mentali degli utenti, il titolista ci ha tenuto a chiarire bene la natura del trasporto. Capiranno proprio tutti?
Paternalismo cattolico. Nella chiesa di S. Agostino c’è una scultura che esce dalla sua cornice. E’ il barocco al massimo della sua spettacolarità. Transetto sinistro, cappella di S. Tommaso da Villanova. Il gruppo marmoreo, di Ercole Ferrata, si affaccia sull’altare. Il Santo, mollemente avvolto nella sontuosa veste, con la mitra in testa, si sporge illanguidendosi in una posa un po’ effeminata mentre lascia cadere una moneta nella mano tesa di una mendicante, bellissima e ben vestita, in piedi più in basso e fuori della nicchia, con un bambino attaccato a un seno perfetto, anzi, appunto, marmoreo. In realtà sappiamo bene che all’epoca i poveri erano tutti una crosta e ricoperti di stracci e in quanto a seni marmorei…
Trasuda da questa opera un paternalismo offensivo da parte del committente, Santa Madre Chiesa, che si fa bella della propria benevolenza. Il risultato estetico è sublime; il resto non ci dovrebbe interessare?
Batticuori. A proposito di cuori e batticuori c’è una teoria che affascina e un po’ spaventa. Sostiene che i cuori di tutti gli esseri viventi sono programmati per battere, in totale, più o meno lo stesso numero di volte prima di fermarsi. E questo determina la durata della vita di ognuno.
Quindi se il cuore di un elefante batte 30 volte al minuto, quello di un uomo 60, e quello di un criceto 420, significa che la vita di un uomo dura la metà di quella di un elefante, ma sette volte quella di un criceto. Naturalmente, e per fortuna, questo non è più vero, perché noi abbiamo scoperto la penicillina, e l’elefante e il criceto no. Solo adesso, però. Qualche secolo fa il rapporto doveva essere proprio quello.
Antichissime cazzate. Incontriamo un bel gruppo di Hare Krishna e prepotente ci emerge dalle viscere un richiamo al “Dizionario della Stupidità” di Piergiorgio Odifreddi, recentemente regalato-ci. E’ un alfabetico, completo, trionfale compendio di definizioni che ci trovano pienamente d’accordo, fra le quali siamo stati indotti dal nostro sprezzo del pericolo (abbiamo conoscenti che a queste cose ci credono, e probabilmente perderemo qualche amicizia) a scegliere la seguente.
“NEW AGE - La new age non è altro che la riesumazione di antichissime cazzate dissotterrate in seguito al revival di una superstizione: quella che gli antichi, soprattutto orientali, avessero già capito tutto”.
Amen.
Ci rifacciamo a un nostro articolo di dieci anni fa, il 2011. Dieci anni dopo o dieci secoli prima i problemi si ripresentano uguali, evento dopo evento; magari cambia la tecnologia, ma loro (i problemi) sono sempre lì che ricorrono.
12 maggio alla Domus Talenti, una bella idea per una rassegna organizzata dal pianista Sebastiano Brusco; si chiama Musica e Arte e abbina l’esecuzione di un brano classico alla pittura di un quadro, partendo dalla tela bianca; a disposizione del pittore non un minuto di più del tempo di esecuzione del brano stesso. I protagonisti: l’eccellente Brusco al piano, Natàlia Benedetti al clarinetto (di lei abbiamo apprezzato particolarmente, oltre alla padronanza delle chiavi, anche il muoversi disinibito del corpo, da jazzista. Raro fra i musicisti classici che di solito sono imbalsamati) e Giancarlino Benedetti, pittore e omonimo ma non parente. Una serata molto piacevole per la bontà dell’esecuzione, il pennello divertente e divertito del pittore, più la squisitezza della torta e dei vini offertici nel giardino.
E il problema? Eccolo: l’amico pianista dilettante.
A fine concerto l’atmosfera molto familiare dell’occasione suggerisce a uno sconsiderato seduto in prima fila (un amico, ci dicono, ma di quelli di cui è meglio non fidarsi, aggiungiamo noi) di impadronirsi, mentre brindiamo, della tastiera, sulla quale si mette a pestare i soliti temi di colonne sonore. E’ stato lì a imperversare per un quarto d’ora adulato da un gruppo di sciocchi che lo acclamavano: “bravo professore!” invece di cacciare a pedate un dilettante così maleducato da sporcare con gli scarponi il tappeto elegante tessuto precedentemente dai tre professionisti sulle trame di Saint Saens, Poulenc, Bernstein.
Ecco perché noi siamo in favore della formalità dell’esecuzione classica. Così si evitano siffatte scivolate.
15 maggio. Chiesa di S. Ignazio. Una delle più grandi e sontuose chiese di Roma, il soffitto magnificamente affrescato da Andrea Pozzo con almeno mille metri quadrati di prospettive folli. C’è perfino una finta cupola, dipinta magistralmente per sostituire la cupola vera mai realizzata per esaurimento dei bajocchi (siamo nel ‘600). Naturalmente, e qui ci tocca ripeterci, ma chissà che non serva a qualcosa, lungo tutti i cornicioni ci sono proiettori elettrici puntati direttamente verso il basso, sui fedeli, i quali, alzando gli occhi restano abbagliati e vedono poco di quello che invece meriterebbe. Dirette verso l’alto, al contrario, queste luci creerebbe la suggestione del cielo luminoso e della terra in penombra. Questo semplicissimo trucco (puntare in su invece che in giù, non costa un cent) temiamo che i parroci non lo capiranno mai.
La musica. Una cosa grandiosa, come dimensioni: la Passione di Domenico Bartolucci. Coro gigante, grande orchestra diretta da Michele Manganelli, entrambi ottimi, più due solisti vocali. Questi ultimi al microfono.
E il problema? Eccolo: l’acustica e l’elettricità
Ed è un problema di distanze. Il suono viaggia lentino, l’elettricità invece va velocissima, quindi le voci dei solisti che corrono sul filo, uscendo da altoparlanti proprio accanto a noi che stiamo seduti in fondo ci arrivano una frazione (ma avvertibile) di secondo prima dell’orchestra che invece viaggia nell’aria per conto suo lungo gli oltre ottanta metri della navata. Spiacevole effetto di sfasamento. Peccato perché l’acustica della chiesa, come si sa, anche se penalizza gli strumenti percussivi, ingrandisce l’orchestra e soprattutto il coro rendendone magnifica l’eco. Una piccola pecca, ma avvertibile. Il resto: perfetto.
16 maggio: Lo spettacolo musicale “Briganti emigranti”. In scena una formazione robusta: quattro coriste-soliste, quattro coristi-solisti, una ritmica, anche questa fatta di solisti, di tutto rispetto, e di tanto in tanto le apparizioni di quella cometa luminosa che è Pietra Montecorvino. Una voce, un carattere, una presenza strabilianti. Padrone di casa Eugenio Bennato, gentleman napoletano, autore e interprete egregio di taranta.
E il problema? Eccolo: il folklore.
Duecent’anni fa Rossini diceva di Wagner: Wagner ha dei minuti addirittura sublimi, però ha dei quarti d’ora terribili. Ecco, così è la taranta. Appena la senti ti fa battere le mani e saltare le gambe dall’entusiasmo. Al primo pezzo. Al secondo un po’ meno. Al quinto è già ossessione. Tutto uguale, di grande povertà armonica. Due accordi e basta. Un tempo in quattro pesantissimo con accenti sempre uguali e, naturalmente senza un briciolo di swing. D’altra parte è un ballo popolare, di una tradizione povera, quindi va bene così. Ma certo, una serata intera di taranta...Per fortuna c’era anche la Montecorvino che ha cantato qualche canzone napoletana di inizio secolo, e con lei, sì, viene fuori tutta la grande intensità di una produzione apparentemente leggera, ma invece di altissimo melodramma.
Il seno di Paolina. Bonaparte, naturalmente; coniugata Borghese. Il pannello illustrativo dice che la ragazza, durante il suo breve soggiorno romano, con la sua “condotta disinvolta” scandalizzò tutti e fece franare il matrimonio con il principe Camillo.
Il Museo Napoleonico, uno dei pochi gratuiti della città, è benissimo organizzato, pulito ed elegante, con l’unica pecca, comune a molte simili istituzioni italiane, di un’idea di base punitiva: puoi starci quanto vuoi, girare e fotografare tutto, ma guai a pensare di riposarti un attimo. Una poltroncina, un divanetto: niente. In piedi, ché la cultura è fatica.
Molti i ritrattini, le chincaglierie, i costumi fine sette/inizio ottocento. Niente di artisticamente rilevante. Curiosità sì, parecchie. Fra cui un calco del seno destro di Paolina fatto da quel vecchio marpione di Antonio Canova in preparazione della famosissima statua che ora sta al Museo Borghese.
Grande scultore il nostro, di sicuro; ma nulla ci toglie dalla mente che, con la scusa dell’arte, con le sue modelle un po’ ci marciasse. E che Paolina un po’ ci stesse.
Il seno della Madonna. Passiamo a un argomento altrettanto intimo, ma di sicuro privo di con-notazioni peccaminose: l’allattamento.
E che seno, che allattamento! Parliamo della Madonna, del Bambinello, di anatomia e, già che ci siamo, dello stupore che ci prende all’osservare le Madonne allattanti della pittura prerinascimentale.
Sì perché i Bambinelli (spesso dipinti come adolescenti ben oltre l’età dello svezzamento, ma sempre miniaturizzati alla taglia di un poppante), stanno attaccati a sacre mammelle che, fra drappi e manti, fanno capolino da una spalla, da un’ascella, da una clavicola, in ogni caso da punti del corpo dove normalmente c’è qualcosa di ben diverso.
Forse questa indifferenza verso la realtà serviva a rendere innocua per il fedele maschio la visione di un organo che, papi o non papi, continuava a mantenere il suo richiamo più terreno che spirituale.
Tanto è vero che, qualche anno più tardi, questa codificazione del pudore che all’epoca non era ancora chiara né agli artisti né agli ecclesiastici committenti, fu imposta dal concilio di Trento, lo stesso che fece mettere i mutandoni ai nudi di Michelangelo nel Giudizio Universale. E da allora, nell’arte sacra, addio sensualità, se non contrabbandata da qualche artista malizioso e furbacchione (vedi Bernini, e altri) come estasi mistica.
Rotondità sono anche questi glutei antichi romani, ancorché maschili. Sono quelli del Meleagro del Museo Altemps.
Roba, appunto, di prima del Concilio di Trento, con il quale questo genere di rappresentazione appartenente all’eredità classica fu declassato da concetto estetico (esaltazione del bello armonioso, privo di colpa proprio perché bello) a peccato vero e proprio, così giudicato dalla nuova mentalità sessuofobica che associava il nudo all’idea di colpevole erotismo.
Che classe! Soprattutto se paragonati alla miserabile Spigolatrice, recente reginetta dei social proprio per merito delle sue natiche. Le quali, insieme con lei, anzi, con il suo autore, dall’arte sono uscite per entrare prepotentemente nel cattivo gusto.
San Salvatore in Lauro è una bella (ma non straordinaria) chiesa inserita nel centro barocco di Roma. La sua straordinarietà non è architettonica, ma celebrativa, dovuta al suo parroco che è un ar-rabbiato, fanatico e organizzatissimo devoto di Padre Pio.
Ci siamo capitati giovedì 23, giorno di celebrazione solenne con il cardinale, la banda in piazza e sciami di fedeli altrettanto arrabbiati del loro parroco, in fila per inginocchiarsi davanti alle nume-rose reliquie in mostra nella chiesa e per accarezzare con mani tremanti l’effige del loro santo, ritratto mentre aiuta Gesù a portare la croce, in un gruppo in vetroresina (secondo noi molto discutibile sul piano artistico, non evidentemente su quello della fede) che occupa la prima cappella a destra.
Niente di stupefacente: le manifestazioni di devozione popolare sono infinite e si ripetono in ogni occasione e in ogni angolo della nostra città e del mondo. E non c’è indagine scientifica che basti a smentirne la veridicità. D’altra parte la fede chiede di credere, non di capire.
Solo qualche giorno prima avevamo scattato di nascosto questa foto nello stesso punto della chiesa; in corso la preparazione dell’evento.
Una foto che ci richiama immagini caravaggesche: rubata, come rubati dalla realtà sembrano i quadri di Caravaggio, e ci permette di rifarci al titolo del nostro articoletto.
Eccola: anche qui c’è un voluminoso fondoschiena in primo piano, quello del sacrestano che la-va il pavimento mentre la perpetua si occupa dei lumini. E sullo sfondo, il gruppo in vetroresina, sul quale ripetiamo il nostro giudizio, che qui, dove l’opera si vede meglio, ci piacerebbe fosse confermato dal vostro.
E passiamo dal sederone del sagrestano a quelli di Caravaggio.
Troppi se ne vedono nei suoi dipinti, e non solo umani ma anche di cavalli (la conversione di S. Paolo). Ci colpiscono questi, da Santa Maria del Popolo e da Sant’Agostino.
Poco rispondenti alle esigenze del soggetto sacro, secondo i committenti ecclesiastici, e questo appare comprensibile; inopportuni, secondo i committenti nobili, in quanto espongono la miseria del-la povera gente, e anche questo colpisce l’occhio; irrispettosi, secondo i teologi perché con il loro messaggio troppo umano relegano in secondo piano quello religioso. Amen.
Non c’è da meravigliarsi dei continui rifiuti che il nostro artista riceveva ogni volta che consegnava un’opera.
Basta un’occhiata alla Crocefissione di S. Pietro: eccolo là, in mezzo a tutto quel dolore, il carnefice indaffarato con chiodi e corde e con i piedi luridi in bella vista e il sederone per aria.
E nella meno drammatica ma sempre altamente umana Madonna dei pellegrini, ancora i piedi sudici, in questo caso anche quelli della Madonna, e ancora in primo piano il didietro dell’umile, miserabile viandante inginocchiato in adorazione di Maria. Sederoni in chiesa.
Anche se non una per ogni giorno dell’anno, come dice la leggenda, le chiese di Roma sono comunque parecchie. E sono anche piene di belle cose, e di cose strane. L‘idea di andarle a cercare, queste cose belle e strane, ci stuzzica da un po’, e allora via. Prima tappa S. Agostino.
In una cappellina dimessa ci imbattiamo in un Cristo molto particolare: scuro, bruttino, rachitichello e per niente maestoso, ma dolente, proprio come ce lo ha raccontato anni fa Pasolini nel suo Vangelo.
C’è da chiedersi come mai i committenti si siano accontentati di un’opera quasi blasfema come questa, davvero fuori dell’iconografia tradizionale, secondo cui Gesù doveva essere un giovanottone biondo e muscoloso.
E anche glabro, mentre questo ha ascelle, torace e perfino addome parecchio pelosi.
Adesso scendiamo nella profonda cripta di S. Maria dell’Orazione e Morte a Via Giulia, una chiesa interamente pervasa di immagini (e anche di pezzi reali) di ossa, scheletri e oggettistica simbolica varia collegata, ovviamente, al suo steso nome.
Era sede di una confraternita che si occupava di recuperare e dare sepoltura ai cadaveri degli annegati e dei morti ammazzati, all’epoca abbondanti a quanto pare per le strade di Roma; e qui troviamo un documento un po’ inconsueto, se non altro per la modulistica utilizzata.
Si tratta di un certificato di decesso stilato non su una vecchia pergamena o su un polveroso registro parrocchiale, ma direttamente sul defunto, anzi, più precisamente proprio sulla sua capoccia.
E che dire del mezzo morto (letteralmente) che se la balla allegramente sul pavimento della Cappella Cornaro sotto gli occhi estatici della Santa Teresa del Bernini a S. Maria della Vittoria.
O forse prega? L’incertezza è d’obbligo con uno come il Cavaliere Gian Lorenzo che si faceva beffe degli interdetti del Concilio di Trento e ritraeva i suoi soggetti come gli pareva: sante al di sopra di ogni sospetto in un rapimento potenzialmente equivoco e scheletri tagliati a metà ma lo stesso scatenati in mosse di danza.
Ultimo stop a S. Andrea al Quirinale, dove bisogna arrampicarsi fino alle soffitte per vedere questo serenissimo monumento.
E’, anzi era Stanislao Kostka, gesuita polacco, morto quattro secoli fa ad appena diciott’anni, consumato dal fuoco della santa passione (e dalla tisi).
Lui è di marmo nero e bianco di Carrara, lo hanno adagiato su un giaciglio di giallo antico con sotto uno scendiletto di alabastro, e barocchissimamente recluso per sempre in una stanzetta piena di stucchi, cornici e dorature.
Si potrebbe continuare…
18 febbraio 2019. Lontana, in periferia, fra il GRA, Porta di Roma e Ikea, puntata verso l’alto dei cieli e pronta a decollare, s’intravede questa inquietante astronave.
Il terreno è immenso, meticolosamente seminato di fiorellini, pianticelle, alberelli e praticelli verdi, tutto nuovissimo e pulitissimo. La mattina è scintillante di sole e aria fresca. Il parcheggio di ghiaia bianchissima è impeccabile; ogni dieci metri un signore in giacca e cravatta, con sopra il gilet arancione dei poliziotti del traffico, saluta, aiuta a sistemare l’auto, ringrazia il visitatore per essere venuto fin lì e gli augura ogni bene.
Tutti con accento americano, efficientissimi e cortesi. Ci si sente ammessi in un paradiso USA. Impressione rinforzata quando entriamo nell’edificio e, mentre scorre un video di interviste a fedeli tutti felici e realizzati, con accompagnamento di celestiali arpe e flauti, veniamo affidati a una guida che ci fa indossare delle soprascarpe di plastica perché i tappeti che ricoprono i pavimenti sono immacolati e guai a lasciarci l’ombra di una impronta. E poi via per la visita guidata del tempio.
La Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni apre al pubblico per un breve periodo il nuovissimo, grandissimo, bellissimo e costosissimo tempio italiano, appena finito di costruire e arredare ma non ancora consacrato ufficialmente. Noi gente comune abbiamo questi pochi giorni, poi tutto sarà riservato solo ai fedeli.
Non vogliamo entrare nella faccenda dal punto di vista ideologico. Certo è che l’impressione nel sentir parlare i padroni di casa, che poi sono i Mormoni, o nel guardarli in faccia è che abbiano risolto tutti i loro problemi e che ognuno di loro sia animato da un irresistibile desiderio di comunicarci quanto è felice.
Da profani ci limiteremo a descrivere la nostra camminata su e giù per le scale e i pavimenti di marmo (Perlato Svevo italiano, Cenia spagnolo, Sky Lark brasiliano, Emperador Light turco, e Travertino Beige, dice la scheda), il nostro procedere in stanze moquettatissime (da Bentley, California) e arredate con poltroncine e scrivanie stile Luigi XVI, XV e magari anche XIV, e fonti battesimali in bronzo, e inginocchiatoi trapuntati, e lampadari di Murano o Swarovski, e fasce decorative in oro a 24 k. E’ come stare in un albergo americano di buon confort ma molto, molto kitsch.
E poi profusione di grandi mazzi di fiori finti, di specchi da parete a parete, di quadri di soggetto sacro o naturalistico alla Disney: profeti, peccatori pentiti, cerbiatti, cascatelle, bambini, fiori e ruscelli. Naturalmente in sottofondo musica d’organo, molto discreta.
Ci stupisce che all’interno di un edificio così grande non ci sia nessuno spazio profondo e alto, come nelle nostre chiese. Ci sono invece tanti piani con tanti corridoi e tante stanze, una per i matrimoni, una per la meditazione, una per guardare il futuro e il passato (attraverso un gioco di specchi), una per i battesimi…
Niente da dire, ci mancherebbe: ognuno si organizza e arreda come crede.
La visita guidata termina e finalmente ci fanno togliere le soprascarpe. E’ passata un’oretta e siamo pronti a guizzare via.
Sennonché, pochi metri prima dell’uscita, sotto il tetto metallico e sullo sfondo delle vetrate ultramoderne, ecco un’inverosimile costruzione che colpisce i nostri occhi esterrefatti.
Uno degli accompagnatori, anche lui in giacca e cravatta e accento americano, richiesto di una spiegazione sulla casetta finto antica dichiara che è lì come simbolo della famiglia, valore fondante della loro religione.
E siccome stiamo a Roma, è una vecchia casetta popolare dei tempi del Papa Re (con una spruzzata di Tirolo): un po’ scrostata, spigoli in pietra, fiorellini alle finestre e persiane verdi, sereno rifugio della presunta tipica famiglia romana di allora: tipicamente povera, tipicamente religiosa e tipicamente onesta. Tipicamente esemplare.
Dopo tutta questa melassa ci è sembrato indispensabile riprendere contatto con la realtà davanti a un piatto di bucatini ben piccanti e ben salati, anche loro esemplari ma, diremmo, in un senso tipicamente diverso.
Però, fra una forchettata e l’altra continua a incalzarci una domanda: come fanno questi devoti, che non glie ne va mai male una? Sorridenti, appagati, sicuri. Sempre. Come fanno?
Dicesi Romanista non solo il tifoso sfegatato della Maggica, ma anche colui che si appassiona delle cose di Roma (arte, storia, aneddotica).
Ore 18 di martedì 31 agosto; a spasso nelle vicinanze del Ghetto, ci spunta la tentazione di passare a S. Maria in Campitelli. E’ l’ora perfetta per sbirciare una cosetta che molti, ne siamo sicuri, neanche sospettano che esista.
Dunque, dev’essere un pomeriggio senza nuvole altrimenti il prodigio non avviene; si entra in chiesa, si fa qualche passo nella penombra che sta calando, poi si alza lo sguardo il più possibile e in un finestrone ovale, in alto sopra l’altar maggiore, appare questa croce che sembra un neon fiammeggiante e invece non lo è (anche perché nel seicento il neon, fiammeggiante o no, era ancora un po’ lontano).
Niente di artificiale. E’ una delle tante invenzioni coreografiche della magica, eccessiva epoca barocca.
Ecco il trucco: l’abside è orientata verso il tramonto. In un finestrone, proprio sopra l’altare maggiore, c’è un’apertura nella quale sono murati, in croce, due frammenti di una colonnina tortile romana.
Il sole che cala illumina l’alabastro di cui sono fatti; poi, mentre scivola lungo le scanalature, aggiunge fiamma e oro alla trasparenza del marmo e provoca questo che davvero si manifesta come un miracolo. Perfino per noi che conosciamo l’elettricità.
Figurarsi l’impressione su un ingenuo fedele di quattrocento anni fa abituato al massimo a un mozzicone di candela.
In questo caso il romanista è felice e orgoglioso.
Ma c’è anche il romanista addolorato. Stesso giorno, di mattina, eccoci alla Centrale Montemartini, che non è una centrale, perché è un museo. Anzi, una centrale lo è, ma non più in uso. Insomma, è dove si produceva l’elettricità di Roma all’inizio del ‘900. Abbandonata, poi recuperata; adesso c’è una magnifica raccolta di scultura romana.
In mezzo ai marmi sono rimasti i vecchi macchinari, le caldaie, le dinamo, e perfino, dopo un secolo, l’odore caratteristico dell’olio lubrificante.
Da tempo hanno inaugurato “Colori dei Romani”, una di quelle meritorie occasioni con cui un museo cerca (e spesso ne ha davvero bisogno) di ravvivare il proprio sex appeal per richiamare nuovi corteggiatori paganti.
Si tratta di tirar fuori dai magazzini, spolverare e riesporre con nuova sistemazione qualche gioiello di famiglia, oppure uno o due pezzi prestati da qualcuno del vicinato artistico. Niente di male, intendiamoci; anzi, se serve a smuovere il pubblico…
Così, dopo aver fatto un saluto ai due stuzzicanti lampioni di Duilio Cambellotti all’ingresso, entriamo e troviamo una serie di magnifici mosaici mai visti prima (tempo fa, nello stesso spazio, eravamo stati deliziati dall’invece vistissimo sarcofago di Crepereia Tryphaena con gli anellini, le collanine, la bambolina e lo sdolcinato patetismo della piccola morta alla vigilia delle nozze - una sposa bambina di due millenni fa?)
Ogni volta che entriamo alla Centrale noi, invece che inteneriti da Crepereia, ci troviamo fulminati da orrore, pena, smarrimento, quando rileggiamo i cartellini che documentano la provenienza delle altre mirabilissime opere di casa.
Quasi tutte ritrovate dove non avrebbero dovuto stare.
Un Apollo fatto a pezzi a colpi di mazza, e le schegge finite in un muretto a secco nel giardino di villa Rivaldi. Un busto imperiale recuperato insieme ai frammenti di altre magnifiche statue, tutte ugualmente violentate dalla mano di selvaggi umani ignari della bellezza. E dobbiamo rallegrarci che invece di finire in una fornace per diventare calce siano stati sepolti nelle fondamenta di una catapecchia medievale o nel muro di un convento. Almeno così qualcosa ci è arrivato.
Intendiamoci, lo stesso è successo nel civilissimo ‘800 di Roma Capitale: tutti a scavare per costruire il nuovo, spesso scadente, nessuno a fermarsi un attimo per conservare, o almeno catalogare il vecchio, spesso splendido.
Per fortuna, finito il tristissimo inventario dell’arte distrutta, appena si esce dal museo, nel cortile c’è il sorriso garantito dalla da noi tante volte citata scaletta verso il nulla. Guardare per credere. Quello in cima ai gradini è solido muro.
San Pietro in Vincoli non è il San Pietro vero, quello in Vaticano; ed è qui che è andata a finire (un ripiego) la tomba di Papa Giulio II commissionata parecchi decenni prima a Michelangelo, costata liti e discussioni fra l’artista, il papa e i suoi eredi, e, rispetto al progetto originale, terminata con una sistemazione di fortuna, anche piuttosto disordinata.
Nel senso che le due statue al pianterreno, Rachele e Lia sono un po’ sghembe: la seconda ha un piedistallo in più nella sua nicchia, e quindi risulta più alta della compagna. Poi, al piano di sopra, a sinistra abbiamo una sibillona molto più voluminosa del profeta sulla destra, e in mezzo c’è il papa sdraiato che sembra un pupo a cui hanno tagliato i fili.
Intendiamoci, questa è una provocazione. Perché poi, in basso, c’è quella meraviglia assoluta che è il Mosè. Sul quale non c’è mai stato niente da dire se non ammettere il proprio sbalordimento.
Oggi invece qualcosa di nuovo da dire c’è. Eccola, la novità: un restauro con pulizia e una nuova illuminazione.
A proposito del restauro, leggiamo in un articolo su Repubblica che il Prof Antonio Forcellini ha “recuperato i colori del marmo di Carrara lasciando però la patina del tempo”, il che ci appare quanto meno vago, dato che, propriamente, la patina del tempo su un marmo come il bianco statuario di Carrara è solo uno strato di sporco. E poi, quali colori, o cronista impreciso?
Sull’illuminazione invece, pare che il tecnico Mario Nanni sia riuscito a ricreare con l’elettricità l’effetto del trascorrere del giorno riproponendo i cambiamenti della luce che una volta rendeva viva la tomba entrando da una finestra in alto a destra dell’opera. Murata un paio di secoli fa, la finestra, spegnendosi, aveva spento anche la tomba.
Appena entrati in chiesa, il primo colpo per l’occhio è la doppia fila delle venti meravigliosissime colonne, le più belle di Roma, monoliti di marmo imezio, perforati alla base e in cima da sacrileghi ganci usati quando “in occasione delle festività più importanti i canonici le coprono con teli rossi da pochi soldi al metro per far apparire la loro chiesa la più bella possibile, così nascondendo quella che invece è proprio la parte più preziosa dell’edificio” (indignata citazione, nel suo trattato ottocentesco, di Mr Henry William Pullen, il massimo studioso inglese di marmi antichi romani; protestante e offeso delle tradizioni cattoliche papaline, primitive e irrispettose della classicità).
Passato lo sbalordimento colonnare, che ci annichila ogni volta che entriamo qui dentro, ci facciamo strada verso il fondo. La chiesa è in penombra e su tutto è disteso un noiosissimo grigio.
Eccoci al Mosè. Solita folla che viene qui solo per vedere la star e non ha occhi per il resto, che, come abbiamo detto, meriterebbe.
Pochi efficienti riflettori montati in alto ai due lati dell’arco. Il ciclo dell’illuminazione è appena cominciato. Tutto è grigio anche qui, poi un lucore rosato fa emergere il marmo che appare davvero più pulito e lucido. Il vuoto dietro la tomba, si illumina anch’esso, creando un senso di profondità.
In pochi secondi e con grande morbidezza passiamo dall’alba al mattino che avanza, e finalmente al mezzogiorno in cui il marmo brilla di un purissimo bianco; poi l’intensità degrada fino al caldo arancio del tramonto, per scomparire di nuovo nel grigio azzurrino del crepuscolo.
Il tutto in poco più di un minuto. Un po’ hollywoodiano (che male c’è?) ma di sicuro effetto emozionale il gioco delle luci, e rassicurante la meraviglia di rendersi conto di quanto bella sia la pietra pulita e di quanto raffinata la lavorazione del maestro che gioca sui vari gradi di lucidatura del marmo per consentirgli di sfruttare in modo diverso la luce ritrovata.
Davvero un buon risultato. Rianimazione riuscita.
Peccato che mentre i nostri occhi si nutrono del nuovo spettacolo i turisti continuino come un sol uomo a fotografare e a fotografarsi con il flash, riuscendo con questa sciocca scelta ad appiattire, insieme alle loro facce (e questo non sarebbe un gran danno), un’opera piena di movimento; e a nullificare un bellissimo e appena recuperato effetto.
Colonia Julia Felix Lucus Feroniae
Venti secoli fa era una cittadina da niente sulla via Tiberina, oggi è a un passo dalla barriera Roma Nord dell’autostrada del sole, con un piccolo museo e una brezza che soffia costante da ponente. Non più di qualche centinaio di abitanti, ma aveva il foro, le terme, il tempio, nonché cardo e decumano lastricati dei soliti pietroni, questa volta non di selce nera, ma chiari di calcare locale.
Profumo di mentuccia e cicale. Solitudine (in questi posti poco glamour ci accorgiamo di essere quasi sempre beatamente dimenticati dai turisti) e cicale. Mentre gironzoliamo per il prato da cui ogni tanto spunta una colonna, un muro smangiato, una soglia, ci chiediamo come doveva essere viaggiare sui carri del tempo o marciare con sandali scomodissimi su queste pietre.
A questo proposito, tempo fa, dopo una passeggiata sull’Appia Antica, ci è spuntata in testa una domanda che abbiamo girato ad amici architetti e ingegneri: un’antica strada romana è una fascia di massi di pietra adagiati uno accanto all’altro su un letto di sabbia e pietrisco. Questi massi non sono mai regolari, quando sarebbe tanto più razionale tagliarli, non sul posto ma in cava, tutti uguali: quadrati, rettangolari, non importa, ma con lati e angoli coincidenti (vedere le pavimentazioni ottocentesche delle città), così da poterli installare rapidamente, in modo industriale. Le migliaia di miglia di strade costruite dai Romani erano un’industria, quindi…
Invece, uno diverso dall’altro come sono, la loro messa in opera dev’essere stata un complicato lavoro di mosaico artigianale per far combaciare sporgenze capricciose con incavi accoglienti. Insomma un lungo e lento processo da reinventare a ogni colpo di scalpello. Perché?
Nessuna risposta dagli amici professionisti, dimostratisi incompetenti. Poi, a forza di cercare, ecco la spiegazione, forse buona. Quel sistema un po’ particolare non è altro che un metodo antisismico. La tecnica romana nasce in una zona dove la gente ha imparato presto a riconoscere i capricci della terra ballerina.
Non vogliamo spacciarci per scopritori della soluzione; l’abbiamo trovata su una monografia di “Archeo”, dove si fa un parallelo con le mura megalitiche costruite con lo stesso sistema a incastro di pietroni, apparentemente casuale, in realtà sapiente. I massi, proprio perché sono incatenati fra loro da sporgenze e incavi, durante un terremoto non scorrono lato liscio contro lato liscio, andando fuori posto. E sulle strade, il passaggio di ruote ferrate poteva certo paragonarsi a una serie continua di mini terremoti. Ci è parso convincente.
Il Porto di Roma.
Pochi giorni prima, in piena calura, stavamo in giro per l’antico Porto di Claudio, poi ampliato da Traiano; oggi completamente interrato. Anche qui: solitudine e cicale.
Nell’ottocento tutta la zona apparteneva ai Torlonia, un altro dei tanti accaparramenti intesi a sollevare lo status di questa famiglia straricca e straingorda. Fra gli archeologi ancora oggi si mormora che il principe Torlonia, con la sua smania di scavare in cerca di statue per la collezione di casa, abbia fatto più danni di un’orda di tombaroli.
A guardarsi in giro affiora il senso di una grandezza, forse un po’ esagerata dal tempo, delle cui proporzioni fatichiamo a renderci conto. Se si pensa che era il porto commerciale della più grande città dell’antichità si sbalordisce alla piccolezza degli spazi, evidentemente proporzionati alle dimensioni delle navi da carico, in fondo, a misurarle, poco più lunghe di una gondola.
Le operazioni portuali, allora, dovevano essere una inarrestabile frenesia, che uno può solo immaginare: formiche umane al lavoro con il loro sacco o la loro anfora in spalla, mentre ora, nei nostri timpani, non c’è che il verso delle inoperose cicale.
Suggestivo è il serpentino intrico dell’edera sui muri dei magazzini. Certo, a guardare meglio si scopre che sono state proprio le sue radici, romantiche forse, ma mortali, che hanno sgretolato le volte e fatto precipitare gli archi.
Qualcosa d’altro, fra il frinire delle cicale, ci distrae dal viaggio grandioso e funereo nel passato in cui siamo immersi: il vivifico rombo dei jet in atterraggio e in decollo dal vicino aeroporto; suggestione di altri viaggi, altri porti (aerei e non), altre genti.
Tornati a casa e ripresa la solita dimensione domestica, ci balza all’orecchio (è il caso di dirlo) una considerazione di carattere più medico che artistico. In queste nostre passeggiate archeologiche noi ci troviamo sempre in mezzo alle cicale. Niente di più naturale in estate e sotto il sole. Però, una volta seduti alla tastiera a scrivere le nostre sciocchezze, il frinire perdura. Ecco la domanda: in centro città, senza un albero nei dintorni, quello che noi continuiamo a sentire non è che, invece del verso dei simpatici insetti, è solo un molesto umanissimo acufene?
In un'intervista di qualche giorno fa Renzo Piano, bello, bravo e simpatico personaggio della nostra epoca, fra le altre cose parla della sua passione per la barca a vela sulla quale dichiara di rifugiarsi ogni volta che ha mezz’ora a disposizione (e mezz’ora di Piano varrà di certo qualche dollaro) per andare a cercare la solitudine in mare.
Le nostre strade sono lontane. In comune con il bell’architetto noi abbiamo l’età, non certo i gusti. Anche noi ogni tanto andiamo in cerca di solitudine. Ma in terra. Precisamente in terra vecchia. Insomma, alla possente maestà della natura selvaggia con tutta la sua prevedibile violenza preferiamo quella addomesticata dalle tracce, possibilmente secolari, degli uomini. Ecco perché invece di andarcene per mare, venti gelidi e spruzzi salati, con la garanzia di un subbuglio gastrico che rende ogni istante spiacevole, e con niente da vedere se non acqua in movimento (e qui già prevediamo la virtuosa deprecazione dei nostri amici lupi di mare) ce ne andiamo per terra.
Sapeste la magia del vuoto di Veio, Gabii, Lucus Feroniae, perfino Ostia Antica. Nessuno in giro, il sole che picchia, la vegetazione rada e bruciata e le pietre di duemila anni fa che spuntano nella polvere. Rivedere le colonne ancora in piedi, i cornicioni scolpiti in quel marmo bianco che nella luce incandescente diventa osso spolpato. Profumo di mentuccia, e un filo di brezza calda. L’immaginazione che viaggia come non riesce a fare sul mare. Niente manovre con gomene e sartie. Il terreno che non balla sotto i piedi, e un muretto solido su cui sedersi a riflettere.
A Vulci c’è un decimo di quello che si vede al Foro Romano, ma lì uno è da solo e anche se i quattro massi rimasti dicono meno che le colonne di Antonino e Faustina, almeno parlano solo a te, in una campagna dove non si vede una casa o un fienile e per arrivarci si costeggiano sterminati campi di biondo grano, ma altrettanti di pannelli solari. (Si capisce che il contadino che come è noto ha le scarpe grosse, ma il cervello fino, ha scoperto che la coltivazione dell’elettricità rende di più di quella del mais).
Uno dei nostri ricordi più squisiti è ancora oggi quello delle ore che ci prendevamo nei pomeriggi infuocati della Calabria quando, durante il Jazz Festival di Roccella Jonica, mentre musicisti e critici sonnecchiavano, noi andavamo a vagare fra le rovine di Locri Epizefiri, una città magnogreca, a pochi chilometri. Biglietteria in stile Cassa del Mezzogiorno anni ‘50, naturalmente circondata da cumuli di quella speciale e indistruttibile immondezza del sud, quasi archeologica essa stessa. Stagione dopo stagione abbiamo salutato le identiche bottiglie di birra, in identiche immutate posizioni, solo con le etichette ogni anno più scolorite, nelle cunette ai lati della strada.
Però, appena dentro: la magia. Spezzoni cariati di mura trimillennarie, fondamenta di templi e santuari, e in mezzo ai massi, trionfanti come solo loro riescono a essere, immensi alberi di fico carichi di frutti maturi da raccogliere e rimpinzarsi come bambini in vacanza, noi unici vivi in tutta quella arcaicità. Poi è chiaro che andare a farsi stuzzicare da tre ore di jazz risultava piacevole, contemporaneo e umanamente rinfrescante.
Chissà se potrebbe succedere anche oggi che una civiltà sia spazzata via per tanti secoli come è successo a quella romana. Probabilmente no. Troppi sono i documenti in circolazione per eliminarli tutti. Ci vorrebbe una catastrofe globale e la totale sparizione dell’umanità. In questo caso di che preoccuparsi?
39° all’ombra. Nascono certi pensieri…
Metti, un pomeriggio avanzato. Sono ore che cammini e già fa buio. Sei stanco, scocciato, e anche un po’ confuso dalla gente, dai negozi, dalla città, e ti vuoi riposare. Magari anche riflettere in un posto tranquillo e, perché no, perfino dire una preghiera.
Che fai? Entri in una chiesa. A Roma ce ne sono tante, e belle. Diciamo che spingi la porta di San Lorenzo in Damaso, a Piazza della Cancelleria. Per essere tranquilla, la chiesa è tranquilla, e silenziosa, e soprattutto vuota. E che succede? Perché ti prende quello smarrimento infinito? Semplice, perché la chiesa è così desolatamente buia che sembra un’orrida caverna. C’è da immaginare grappoli di pipistrelli appesi là in alto, dove l’oscurità nasconde ogni cosa.
E allora via di qua. Andiamocene alla Chiesa Nuova, S. Maria in Vallicella: grande, barocca e piena di quadri, statue e due magnifici organi d’oro. Qui l’antro è più ampio e più sontuoso, ma sempre disperatamente buio. Si sa che ha anche un soffitto splendidamente affrescato: saperlo è un conto, vederlo un altro. C’è qualche lampada accesa, ma è stupidamente puntata verso il basso, contro gli occhi dei fedeli, che ne restano smarriti e abbagliati.
La soluzione ci sarebbe, semplice ed economica. Dov’è Dio? In alto. E dove sta il fedele in preghiera, o anche il semplice curioso di arte? In basso. E allora, invece di puntare fari da terzo grado negli occhi dei poveri visitatori, basterebbe illuminare i soffitti e le volte con luci diffuse (e nelle chiese i cornicioni per nasconderle non mancano davvero) e lasciare nella penombra banchi e confessionali. Non è che la bellezza impedisca la preghiera, anzi. Una bella casa suggerisce che il padrone ci ospiterà con stile. Non serve altro. Tranne, come sempre, un briciolo di buon gusto.
Invece no. Perché il cristiano mica è lì per divertirsi. Può, sì, provare qualche fremito artistico, che però gli deve ricordare sempre la polvere da cui viene e a cui ritornerà.
Il complesso archeologico di Capo di Bove si trova in Via Appia Antica 222, un po’ più in là di Cecilia Metella. Il posto è di straordinaria bellezza, circondato da un grande giardino. Terme private in epoca romana, casale dal medio evo fino al 1945, poi moderna villa di lusso; finalmente sede dell’Archivio Cederna e museo dell’Appia Antica. I ruderi del piccolo stabilimento termale, abbandonati nei secoli, coperti di terra e poi scavati la dicono lunga sul cambiamento di alcuni fondamentali costumi dall’epoca classica in poi: prima ci si lavava spesso e con piacere, poi, avanzando nei secoli bui e con il repressivo contributo della chiesa, l’igiene diventò un’abitudine molto sospetta, addirittura peccaminosa. Alla fine su questa sana pratica cadde l’oblio, con trionfo di pulci, cimici, e pestilenze.
Non lontano da qui c’è l’Appia Antica Caffè, un delizioso locale rallegrato da un ulivo secolare sul davanti e da una dozzina di pini sul retro. Saporiti spuntini, birra gelata e venti secoli di storia sotto gli occhi. Noi ci andiamo spesso a leggere il giornale, bere un boccale e mangiarci una pizzetta con alici e fiori di zucca.
Nn lontano da qui c’è l’Appia Antica Caffè, un delizioso locale rallegrato da un ulivo secolare sul davanti e da una dozzina di pini sul retro. Saporiti spuntini, birra gelata e venti secoli di storia sotto gli occhi. Noi ci andiamo spesso a leggere il giornale, bere un boccale e mangiarci una pizzetta con alici e fiori di zucca.
Da pochi giorni a Capo di Bove si è inaugurata la mostra: “Un atlante di arte nuova – Emilio Villa e l’Appia Antica”. E’ chiaro che, dopo la pizzetta e la birretta ci sta bene la bottarella di cultura, quindi in marcia per l’esposizione.
All’ingresso del giardino, seduta sotto una tendina, una signorina gentilissima (a Roma, la grande inefficienza si accompagna spesso alla grande gentilezza – recentemente, poi, il colpevole di ogni cosa è diventato il Covid, quindi siamo tutti innocenti) ci esorta a sanitarci le mani, ma dichiara di non essere autorizzata a prenderci la temperatura.
Per quello bisogna entrare nel giardino e arrivare alla postazione deputata. Procediamo: trentasei e cinque. Autorizzati al terzo step: la biglietteria. Che naturalmente si trova all’ingresso del museo.
Il tutto fra tubare di tortore, frinire di cicale e un gran benessere, forse effetto birra, comunque meravigliosamente archeobucolico. La villa è rimasta (giustamente) nel suo stile archeo-cafoncello-nuovo ricco anni 50/60, con inserti forzati di capitelli, cornicioni e frammenti vari, autentici o forse no. Nel giardino i sentieri sono marcati da basoli di sicuro presi dalla pavimentazione originale dell’Appia ma ricollocati a caso e quindi, senza la sequenza dei solchi dei carri che li segnavano non hanno nessuna storia da raccontare.
“Ma lei non ha il biglietto!”
“No, certo. E’ per questo che sono qui in biglietteria”.
“Ma noi non siamo autorizzati a emettere il biglietto.
Deve andare alla tomba di Cecilia Metella. Lì c’è la biglietteria; lo compra, torna qui e noi glielo controlliamo”.
Ci facciamo due calcoli: dal caffè al museo saranno trecento metri (già percorsi); dal museo a Cecilia Metella un chilometro e mezzo fra andata e ritorno, sui basoli romani che non sono il massimo della comodità; e poi comunque bisogna tornare al caffè dov’è parcheggiato lo scooter: altri trecento metri.
Ci assolviamo per la pigrizia (fa pure caldo) e decidiamo di saltare la mostra, tornare alla base e magari farci un’altra birretta sotto l’ulivo secolare.
“Il biglietto lo vendiamo anche noi” ci fa Roberto, l’amico proprietario del Caffè.
“Grazie, troppo tardi”. Ovviamente lui non ci aveva detto niente perché non conosceva le nostre intenzioni, e noi non avevamo pensato di chiedere perché la possibilità di questo tipo di dis-organizzazione bizantina non ci era neanche venuta in mente, avendo noi due un cervello rispettivamente da normale gestore e da normale turista. Solo quello di un burocrate comunale poteva partorirla. Saranno anche regole sacrosante, ma avvertire il visitatore prima, no, eh!?
Morale della favola: la birra supplementare ce la siamo bevuta e poi via a casa, ondeggiando un po’ sulle ruote, ma comunque felici; e siamo qui a raccontarla.
Roma, centro storico, domenica. Appena usciti dal portoncino, ecco la grande colonna di granito grigio che sostiene l’angolo di casa nostra, sprofondata nel terreno fino alle cantine. Un salto dal giornalaio e contiamo una decina di spezzoni di colonnine usati come paracarri. Un cappuccino al bar che ha al centro della sala (per la cronaca è il Bar della Pace) una colonna di meraviglioso marmo lisciato, quasi ammorbidito da secoli di carezze; e finalmente una capatina in chiesa, dove c’è il meglio del meglio.
Questo, in una normalissima passeggiata di pochi metri. Colonnone e colonnine riutilizzate, magari dopo essere state sepolte per qualche secolo sotto la sabbia del fiume. Perché è così che sono spariti e si sono salvati, un’inondazione dopo l’altra, i resti della magnifica architettura, e soprattutto dei magnifici materiali usati da Roma (un pezzo di cemento vecchio di venti anni è sbriciolato, scrostato, brutto; un pezzo di marmo vecchio di venti secoli è solo impolverato. Una sciacquatina e ridiventa splendido).
Bene, le colonne grandi, belle e in buono stato si sono trasferite nelle chiese, e sono centinaia; quelle rotte sono diventate paracarri e guardaportoni, e sono migliaia. Di tante altre siamo riusciti, con una piccola indagine, a ritrovare la destinazione.
Per esempio il pavimento di S. Agostino. Bellissimo, variopinto, lussuoso, ornato di losanghe, rombi e quadrati al centro dei quali ci sono perfette circonferenze di splendido marmo. Che non sono altro che fette di colonne tagliate come fossero salami e inserite nelle geometrie su cui si cammina.
E poi ci sono i portoni dei grandi palazzi nobiliari, papali, cardinalizi, che naturalmente hanno una soglia in cui sono scavati i solchi per le carrozze che entrando nel cortile dovevano seguire quelle guide per non andare a raschiare gli stipiti con i mozzi delle ruote.
Bene, quei monoliti su cui noi poggiamo i piedi meravigliandoci del bellissimo granito rosa o grigio di cui sono fatti, sono anche loro colonne (di qualche tempio, salone o peristilio), solo che invece di essere tagliate a fette, sono tagliate per il lungo, in modo che la parte arrotondata vada adagiata sul terreno, mentre quella dritta rimanga a vista, con, scalpellati nel fusto originale, i piccoli solchi antiscivolo per le pantofole dei cardinali e quelli grandi per le ruote delle carrozze.
E il meccanismo di questo recupero si capisce andando a vedere questo bellissimo frammento rilavorato di granito grigio, in cui si vede bene la curva della colonna nella parte di sotto e la lavorazione per la nuova destinazione in quella di sopra.
Lo trovate buttato a terra insieme ad altri marmi lungo il sentiero che porta alla Casina delle Civette di Villa Torlonia.
Merita: è bello e istruttivo.
Eccola, riproposta pari pari la cronaca di una visita traumatica del Cav. Serpente di dieci anni fa.
Agosto 2011. Dopo secoli di abbandono è stato finalmente aperto al pubblico il santuario di Ercole Vincitore a Tivoli. Sole a picco, pietre e rovi; così a noi piace visitare i ruderi. E qui il nostro cuore ha ricominciato a sanguinare come ogni volta che ci perdiamo in mezzo ai vecchi marmi. Per il dolore, il dolore che ci strizza lo stomaco quando vediamo lo strazio che il tempo e gli uomini hanno fatto dell’arte romana. In fondo solo pochi secoli dalla fine dell’impero sono stati sufficienti per distruggere, coprire, dimenticare quella immensa massa di opere e di materiali accumulati nei mille anni di vita di Roma.
Certo, il fascino del frammento è irresistibile. Basta un troncone di colonna per immaginare (e l’immaginazione, si sa, non ha limiti) una reggia sontuosa. Mentre una costruzione integra e imponente come l’Altare della Patria a Piazza Venezia, che è la perfetta imitazione di un edificio imperiale Romano, ci lascia indifferenti, per non dire un po’ offesi dalla sua boria.
E’ perché qui l’immaginazione non può lavorare: tutto lo spazio è occupato dalla realtà.
Da un testo di Rodolfo Lanciani, massimo archeologo di fine ottocento: “Me ne stavo seduto all’estremità meridionale del Palatino e guardavo il palazzo di Settimio Severo, una costruzione lunga 150 metri, Larga 118 e alta 50. Completamente scomparso. E il Circo Massimo? Centocinquantamila spettatori. Immaginiamo tutta questa gente seduta sui gradini. Calcolando per ogni persona uno spazio medio di 50 centimetri, otteniamo un totale di 75 chilometri di marmo, di cui non ci è pervenuto nemmeno un frammento.”
E ancora: “Ogni volta che gli amministratori dell’Ospedale di S. Giovanni (proprietari per concessione del papa dell’acquedotto Claudio) si trovavano a corto di denaro, mettevano all’asta un certo numero di archi, che venivano poi demoliti dall’acquirente”
Siamo alla fine del Cinquecento. Eccoli i veri distruttori di Roma, i papi, i nobili, gli architetti al loro servizio, e naturalmente gli intrallazzatori. Altro che barbari o terremoti.
Quasi dappertutto questo massacro è finito con il settecento. A Tivoli no. La cittadina è stata la prima in Italia ad avere un’illuminazione elettrica, inaugurata dalla Società per le Forze Idrauliche il 26 agosto 1886. Ma a che prezzo!
Come Roma, era una città ricca di ville, templi, santuari. Tutto sacrificato alla nuova divinità: l’industria.
Negli edifici non ancora ridotti a ruderi, con il pretesto dell’Aniene, usato come fonte di energia, si installarono fonderie, cartiere e, appunto, centrali idroelettriche. Per arrivare allo scempio del 1925, quando, per costruire due vasche di cemento, quello che rimaneva del tempio di Ercole è stato cancellato.
Sul posto si vedono ancora le tracce di una calcara. Il pensiero che in quel forno abbiano bruciato statue, cornicioni, colonne per farci la calce con cui costruire qualcosa forse di utile, non necessariamente di bello, fa male. Certo, per la storia il processo di riutilizzazione è interessante, ma per l’arte è orribilmente luttuoso. A ogni passaggio, un pezzo dell’originale si perde.
Eppure, che meraviglia quei fantastici marmi che arrivavano a Roma da tutte le province del mondo. E che ancora adesso, riutilizzati, fanno splendere chiese e palazzi. Ma senza dimenticare che ogni blocco estratto, tagliato, lucidato significava sofferenza e morte per uomini condannati a quel vero inferno che erano le cave. Il fatto è che il ricordo degli uomini passa, il marmo dura.
Roma divoratrice, grande ventre che tutto inghiottiva. Solo per nutrire i forni delle terme si sono distrutti i boschi che coprivano il Lazio, poi le zone vicine, poi tutta la penisola. E gli animali per gli spettacoli? Intere regioni completamente scarnificate. E le tante vite spente nel circo in modo barbaro (proprio a Roma!) ma spettacolare, solo per far divertire la plebe lazzarona!?
Gita fuori porta. Appena scavalcato il crinale scendiamo nella valle, verde di vigneti così perfetti da formare un tappeto; là in fondo, con le braccia spalancate in movimento, un altissimo stelo bianco ci seduce di colpo con la sua bellezza essenziale: è la grande pala eolica.
E’ stato come la prima volta che abbiamo visto il Redentore in cima alla montagna, a Rio. Lo conosciamo tutti, no? Così grande, così bianco con le braccia spalancate, ferme. Non proprio un’opera d’arte, ma di sicuro un’immagine forte. Qui, nella valle dei vigneti ci è apparso un altro Redentore, anche lui benedicente. Benedicente cosa? Ma l’oggi, naturalmente.
Le nuove tecnologie, i nuovi materiali che permettono lo sviluppo di una nuova estetica. Un massiccio ponte romano di pietra è una grande opera, bella e solida, certo. Ma un moderno viadotto autostradale, trecento metri sospesi fra le bocche di due gallerie, un nastro di cemento chiaro appoggiato su piloni sottili è uno spettacolo (impossibile settant’anni fa) meraviglioso. E per niente offensivo per la natura. Se una cosa è bella si armonizza all’istante.
Certo uno deve saper guardare con occhi puliti.
L’albero degli zoccoli, la cascina, le mucche, i braccianti chini sulla terra avara; il fascino di tutto questo non è che immaginazione camuffata da ricordi d’infanzia di intellettuali vecchi e smemorati: non ha niente a che fare con la vita vera. Va’ a chiederlo al contadino, che oggi ha finalmente un trattore, una casa con doccia e riscaldamento e non deve accontentarsi più di polenta e salame, e vedrai se non è soddisfatto. L’artigianato nasce dai bisogni della sua epoca; appena inventata la macchina per fare il mestolo di stagno, quello di legno finisce nella pattumiera (o nei mercatini del modernariato).
Leggiamo sul Corriere della Sera del 18 agosto 2011 di alcune tribù dell’Amazzonia a cui il governo brasiliano non permette contatti con nessuno. Per tutelarle, dicono, dai rischi della civiltà. Noi siamo convinti che ogni singolo indio di quelle tribù sarebbe arcicontento di farsi un bel bagno in una vasca senza piranha, di avere a disposizione un vermifugo per i suoi bambini e qualcosa di decente da masticare per la famiglia. Rinunciando in cambio a tutte quelle cose pittoresche, artigianali ma soprattutto primitive che piacciono tanto agli etnologi da poltrona, mentre lui non vede l’ora di liberarsene e civilizzarsi, come d’altra parte abbiamo fatto tutti noi neanche troppo tempo fa.
Sempre a proposito delle presunte meraviglie del passato, ci fa ridere la lettera di un lettore nella posta di Augias (La Repubblica, 4 marzo 2012) sui compensi degli artisti. Per cosa si indigna il nostro babbeo? Ecco: “Sono convinto che le alte remunerazioni per un artista siano il frutto di un fenomeno perverso. Beethoven, Mozart e altri di vero talento hanno prodotto capolavori pur essendo in difficoltà economiche, ma ciò non li ha fatti desistere dall’offrire sé stessi alla passione del proprio lavoro”.
Che scoperta. Non è che fossero indifferenti alla mercede, è che non gli riusciva di averla. Mozart e i suoi contemporanei erano poco più che camerieri al servizio di un nobile. Beethoven provò a emanciparsi, senza gran successo; Chaikowski ci riuscì un po’ meglio; Puccini o Morricone hanno definitivamente perfezionato il meccanismo. Anche perché per fortuna sono cambiati i tempi.
Ma non è che la tutela del diritto d’autore abbia abbassato il livello della creatività. Il talento, se c’era, è rimasto. Quello che è migliorato è la qualità della vita. Gli artisti ringraziano. I cretini invece pensano ancora che senza miseria non c’è arte.
Anche questa settimana il Cavalier Serpente continua a sognare, immerso nei suoi ricordi.
13 novembre 2010, “Che tempo che fa”, intervista a Riccardo Muti. Fazio, ingenuo col trucco, lo stuzzica, e il Maestro, una parola dopo l’altra, si abbandona all’inconsapevole (ne siamo certi) adorazione del proprio personaggio. Spara battute blandamente audaci, con finto scandalo del diavoletto Fazio e risate complici del pubblico, di quella complicità deferente e obbligata dalla fama dell’interlocutore: il Maestro non è un comico, è un musicista, perciò, anche se le battute sono scarse, noi ridiamo lo stesso di gusto, anzi, ancora di più proprio per questo.
Naturalmente parla anche di musica. Intendiamoci, si tratta di qualcuno a cui l’umanità non può che essere grata di esistere. Eppure, intento a civettare sul suo ruolo nel mondo, appare così innocente, nel senso che da parte sua tutto è spontaneo, senza nessuna programmata malizia, che fa, appunto, tenerezza.
Ancora più teneramente ci ha colpito una sua intervista pubblicata con grande risalto recentissimamente, in cui rimpiange il tempo della sua giovinezza (quando naturalmente tutto, compresi gli studi, era più serio), si lamenta di come vanno le cose oggi (quando naturalmente tutto è solo superficialità e apparenza) e manifesta il desiderio di scomparire dal mondo. Esternazione che ha provocato il veemente sdegno di alcuni frequentatori di FB che ci hanno visto soprattutto una botta di snobismo, accompagnata da un’ulteriore ricerca di gratificazione e non semplicemente la stanchezza di un ottantenne triturato dal successo.
Un altro narciso tenerone è il Mughini, con le sue giacche di moquette, i suoi occhiali vistosi, le smorfie e il birignao da cicisbeo del tardo settecento, così sempre affannosamente in cerca di attenzione. Lui sì ci sembra più apparenza e meno sostanza del maestro Muti: diremmo decisamente che il dono che ci fa di sé non ha proprio lo stesso peso.
Naturalmente c’è anche il padre nobile, l’Albertazzi da palcoscenico, che parla da lungi, come se fosse già sulla nuvola dei grandi, e ai mortali regala perle della propria saggezza.
E il narciso letterario? I trafiletti iperproteici di Arbasino. Venti righe in cui si affacciano i nomi di tutte le ugole liriche che cantano, di tutti i direttori d’orchestra che contano, dei salotti che lo divertono, degli spettacoli che lo colpiscono, dei camerini che si socchiudono per lui, in una bulimia di informazioni, tutte coltissime, esattissime, documentatissime.